Billy Wilder: quando la commedia diventa impegnata

27/03/2012

Sono passati dieci anni dalla sua morte, trenta dal suo ultimo film come regista e non si può che soffrirne l’irrimediabile mancanza, se si pensa che in quarantasette anni il regista di origini austriache (naturalizzato statunitense) Billy Wilder ci ha regalato ventisette pellicole di straordinaria beltà artistica. Orson Welles sosteneva che quello del regista è il mestiere più sopravvaluto al mondo e, conseguentemente, la riuscita di una buona pellicola aveva come variabile dipendente il cast artistico. Difficile cogliere e appropriarsi di un’affermazione tale, se solo si pensa che autore ne è colui che ha generato quel capolavoro che è Quarto Potere.
Ciò nonostante qualche sfumatura di accettazione logica la si può intravedere. Emblema ne è la riuscita coppia di attori che fu quella di Jack Lemmon e Walter Matthau, celeberrima squadra recitativa, a cui spesso è ricorso Wilder, del quale il 27 marzo ricorre il decimo anniversario dalla morte. Impresa decisamente ardua confutare la pervasività dei due attori all’opera nella stessa inquadratura. Appetibilità che portò Howard Deutch a riproporre (seppure con scarso successo) La strana coppia 2 nel 1998, sequel de La strana coppia del 1968 (per la regia di Gene Saks), consacrando definitivamente il duo di attori comici. 
L’assioma “wellessiano” riesce, dunque, a confutarsi nel percorrere la vita professionale di  quel regista straordinariamente prolifico che fu Wilder, il quale ha saputo trattare temi caldi, a volte anche alquanto scomodi (dal travestitismo, all’alcolismo, passando per la discriminazione politica, piuttosto che la prostituzione) in modo leggero, utilizzando il genere della commedia, ma non per questo frivolamente, mutuando (in parte) lo stile del suo mentore Ernst Lubitsch.

Paradigmatico risulta essere quel “mettere in scena” la dominazione di una società da parte di un oligarchico potere, farcita di tutto quel marcio che è il tradimento coniugale e arricchita dal dramma che si consuma in un tentato suicidio, che Wilder ha raccontato in L’appartamento nel 1960, considerato, a ragion veduta, uno dei capolavori del regista, vincendo cinque premi Oscar (come miglior film, regia, sceneggiatura originale, montaggio e scenografia; mancando la statuetta, pur se meritata, di miglior attore protagonista a Jack Lemmon), tre Golden Globe e tre premi Bafta, la Coppa Volpi per la miglior attrice (alla graziosa Shirley MacLaine) alla Mostra del cinema di Venezia.
In quella pellicola, dove domina (pur se coattivamente) quel dicotomico bianco e nero capace di imprimere alla sequenza cinematografica quella sorta di igiene mentale che solitamente ricerca il fotografo nelle sue statiche immagini, appare suggestiva la scelta di Wilder di non rendere protagonista, nelle sue inquadrature, solo un uomo/attore, ma anche l’impianto architetturale che lo circonda, così da prefigurare quell’umanizzazione dell’oggetto di nipponica memoria.

Solo un anno prima la straordinaria interpretazione di Tony Curtis e Jack Lemmon, oltre che dell’imperitura Marylin Monroe, in “A qualcuno piace caldo”, girato nel 1959, ma ambientato nella Chicago del ’29, in pieno proibizionismo. Sul grande schermo tematiche come la malavita organizzata, l’accennata dipendenza dal gioco d’azzardo e dall’alcool, dai quali è possibile trovare una via di fuga attraverso l’arte musicale (quella individuata dal filosofo Arthur Schopenhauer quale fonte di liberazione dal dolore e dalla noia).
Un film che ha subito condanne da parte della Catholic Legion of Decency e la mancata approvazione della Mpaa (Motion Picture Association of America, organizzazione americana dei produttori cinematografici), probabilmente perché capace di rappresentare il superamento di un mai ben accetto qualunquismo discriminatorio.

Un film simbolo della carriera di Wilder che si ricorda spesso affiancato a pellicole come Sabrina del 1954, interpretato dalla divina Audrey Hepburn (una cerbiatta per cui si impiegava non più di cinque minuti per innamorarsene – dirà lo stesso Wilder), dove alla bellezza dei sentimenti favolistici (Sabrina, la protagonista, raffigura una sorta di moderna Cenerentola, catapultata nei tempi di realizzazione della pellicola, con abiti alla moda francese e acconciature anni ’50) e all’intreccio del triangolo amoroso, si contrappone la dominazione del dio Pecunia che tutto norma e definisce. Elementi che fanno della pellicola una commedia straordinariamente sofisticata e nella tecnica raffigurativa, limpidamente aderente al personaggio di volta in volta inquadrato, e nell’impianto concettuale, tanto semplice quanto lavorato nei dialoghi.

Non meno celebre e/o celebrato Quando la moglie è in vacanza del 1955, ancora una volta con la spumeggiante “tutta curve” Monroe.
Un interpretazione, quella della bionda Marylin, praticamente perfetta, benché molti abbiano difficoltà ad accorgersene visto il carisma di sensualità che la stessa è capace di sprigionare, senza mai tuttavia cadere nella volgarità delle moderne sex symbol (che tanto avrebbero da imparare anche solo dal suono dell’ondeggiare gonna della Monroe) che anima le pellicole odierne, dove l’opulenza della carne ostentata sembra essere direttamente proporzionale agli incassi che si sperano accumulare al botteghino.

Per (ri)conoscere il Wilder “a colori”, invece, simbolico è lo straordinario Prima Pagina del 1974, nel quale già dai primi fotogrammi, che rappresentano il processo di stampaggio di un giornale con operose rotative in funzione, ci si immedesima nella sensazione adrenalinica che una notizia (meglio se in anteprima) provoca.
Tra i numerosi particolarismi e i tecnicismi della ricca filmografia di Wilder in Prima Pagina, dove si ritrova l’effervescente coppia Lemmon - Matthau, a notarsi è principalmente la fotografia, quella ossimorica lucente opacità del susseguirsi delle scene che si intrecciano ad una trama avvolgente e palesemente ponderata in ogni piccolo dettaglio: dai dialoghi (brillanti e cadenzati ritmicamente) alle pose e posizioni dei personaggi, ognuno con una psicologia perfettamente intravedibile. Meravigliosamente accattivante la definizione del «giornalista» che si legge nelle parole di Matthau quando (disincentivando con qualche bizzarro artificio la futura moglie del protagonista che lo avrebbe strappato al giornalismo) afferma: «il giornalista non lo sposi mai […] Non si possono levare le macchie ad un leopardo». Ancora una volta, infine, in Front page ritornano le tematiche sociali, come il biasimo alla pratica anarchica, condannata al punto tale da farne un espediente politico, che ci riporta ai più famosi anarchici del mondo Sacco e Vanzetti. 

La carriera di Wilder si chiude nel 1981 (ben ventuno anni prima della sua morte, il 27 marzo del 2002) con Buddy Buddy, dove ancora una volta l’arguta coppia Lemmon - Matthau conduce brillantemente una tediosa, tuttavia, serata danzante.
È con questa pellicola, infatti, che Wilder abbandona la scena cinematografica, lasciando ai suoi cultori il presagio di una spossatezza artistica che il film velatamente restituisce; non tale in ogni caso da svilire la dinamicità creativa di un uomo senza precedenti nella storia della commedia cinematografica anni ’50, che ci conduce a sorrisi amari e nel tortuoso itinerario di macroscopiche e universalistiche riflessioni.

Felicia Buonomo