Tra Cinema e Letteratura: Ritratto di Pasquale Festa Campanile

05/10/2011

“Io e Pasquale abbiamo fatto cinque film assieme in quattro anni, per cui abbiamo avuto occasione di conoscerci bene. Dal punto di vista intellettuale era un uomo molto colto ed intelligente, ma aveva un viziaccio terribile: mentre girava un film ne scriveva un altro e stava doppiando un film che aveva fatto prima. Praticamente faceva tre film contemporaneamente e questo lo distraeva un po’, però non credo ne intaccasse la sua professionalità: lui era così. Era una persona molto carismatica, simpatica ed onesta, e soprattutto - rispetto alla fama che avevo io e che purtroppo mi porto ancora appresso – era più homo eroticus lui che non io! Era praticamente un assoluto maschio meridionale a caccia della femmina, che però selezionava furbamente, perché se non erano belle venivano cestinate. Era un uomo piacevole, anche perché era colto ed intelligente, e alle donne non dispiacevano queste sue caratteristiche. Eravamo tanto amici che una volta sono stato io a fare da ruffiano: dopo aver girato la sera si passavano sempre un paio d’ore a cazzeggiare, e durante un cazzeggio telepatico ho fatto di tutto per mettere assieme Pasquale con un attrice molto carina di cui non posso fare il nome. Questo era l’uomo che le donne amavano e che amavo anch’io intellettualmente of course. Quello che scriveva era sempre straordinario e organico: sviluppava sempre intelligenza ed empatia. Sembrava dovesse campare millenni e invece è morto presto. Aveva il vizio di bere troppo! Mi aveva stupito per esempio durante le riprese de La Calandria scoprirlo alle sette del mattino sul set con una tazza di caffè che invece di caffè conteneva Fernet. Ma si rende conto! Io soffrivo per lui, e faccio parte del coro di coloro che lo ammiravano e che lo ammirano ancora. Per me è stata una grandissima perdita”.
Così Lando Buzzanca ricorda lo scrittore e regista Pasquale Festa Campanile: ma vediamo di approfondire la sua figura – troppo spesso sottovalutata in quanto ritenuta eccessivamente “commerciale” – con Andrea Pergolari, autore del volume Pasquale Festa Campanile ovvero La sindrome di Matusalemme, pubblicato tre anni fa dalla Aracne editrice di Roma.

Quali sono le caratteristiche peculiari di Pasquale autore per altri?
Festa Campanile, come sceneggiatore e regista, è stato a lungo un uomo Titanus, quindi il suo nome è legato strettamente a quello di Goffredo Lombardo: così si spiega la gran varietà di collaborazioni che ha avuto come sceneggiatore, da Bolognini a Visconti, da Risi a Ferreri, da Petroni a Orlandini. Per esempio, all’epoca di Rocco e i suoi fratelli, Visconti era molto diffidente rispetto alla proposta di Lombardo di affiancare Festa Campanile e Franciosa ai suoi storici collaboratori Suso Cecchi d’Amico ed Enrico Medioli: la scelta si rivelò, invece, felicissima, perché i lucani Franciosa e Festa Campanile portarono quella dose di verità necessaria a smorzare il pericolo della letterarietà possibile in un racconto del genere.
Festa Campanile sceneggiatore è legato indissolubilmente a Massimo Franciosa (1924-1998), conosciuto alla fine degli anni ’40 all’Università di Roma e con cui fece un lungo apprendistato nelle pagine della rivista “La fiera letteraria”. Festa Campanile e Franciosa sono due sceneggiatori fondamentali degli anni ’50, inventori di un vero e proprio sistema di racconto che urbanizzò le tematiche del cosiddetto “neorealismo rosa”: ambientazione circostanziata, struttura corale, dialoghi rapidi e vivaci, attenzione costante al dato privato e sentimentale, rispetto a quello più evidentemente politico e sociale, sono il marchio di fabbrica della coppia. I titoli fondamentali sono moltissimi: Gli innamorati (Bolognini, 1955), Poveri ma belli (Risi, 1956, il film seminale), Giovani mariti (Bolognini, 1957), Ladro lui ladra lei (Zampa, 1958). Di questi film, Franciosa e Festa Campanile sono a tutti gli effetti gli autori: sono loro ad orientare le scelte di regia di autori pur importanti come Zampa, Risi e Bolognini, ma soprattutto di artigiani, professionisti e mestieranti come Petroni, Orlandini, Franciolini. Che sia in costume (Ferdinando I, re di Napoli) o indirizzato verso il coté melodrammatico (Il magistrato), un film scritto da Franciosa e Festa Campanile è immediatamente riconoscibile per la disinvoltura della struttura narrativa, la scioltezza nella caratterizzazione dei personaggi, lo sguardo ottimista, pungente ma bonario, sul tessuto sociale, l’ideologia sinistrorsa che sottintende ogni operazione. La partecipazione a Rocco e i suoi fratelli diede ai due sceneggiatori una patente per il cinema d’autore, cui Festa Campanile e Franciosa portarono inesorabilmente le proprie caratteristiche: l’architettura giallo-psicanalitica de L’assassino (Petri, 1961) nasconde un impianto da commedia corale; il racconto de Le quattro giornate di Napoli (Loy, 1962) è una vibrante epopea corale del popolo napoletano in guerra; quello de Il gattopardo (Visconti, 1963) è un affresco storico che si può sfogliare come un album di personaggi disegnati in punta di penna, con ironia e sentimento. Può accadere che la bonomia dei due sceneggiatori trovi un terreno d’intesa anche con l’acre sarcasmo di Ferreri: L’ape regina (1962) funziona proprio perché smussa reciprocamente le estremità più aspre e le mette in gioco nella trasposizione di un’idea grottesca di Parise.
Più appropriatamente, credo che la cifra più esatta di Festa Campanile e Franciosa sia nella descrizione di una generazione (postbellica) e di un’età (dai 20 ai 30 anni), osservata con acume e proprietà di descrizione nelle sue evoluzioni sentimentali più che nelle ambizioni sociali: c’è la stessa sincerità sia nell’approccio ai giovani bulli di Poveri ma belli che in quello al giovane erede Tancredi de Il gattopardo.

Quali sono le caratteristiche peculiari di Pasquale scrittore?
Festa Campanile nasce come scrittore, prima di racconti (pubblicati proprio negli anni ’50 su “La fiera letteraria”: alcuni, come Le stelle erano rosse e Babele dentro le mura, assolutamente da recuperare) e poi di un romanzo compiuto come La nonna Sabella, uscito nel 1957, che su uno spunto parzialmente autobiografico innesta un’analisi della questione meridionale, tra ironia e sentimento, tenendo saldamente il timone del racconto grazie alla felice consistenza narrativa della protagonista, una figura di donna forte, testarda, simpaticissima. Alla fine degli anni ’50, Festa Campanile era uno dei giovani più promettenti della narrativa italiana e questo, paradossalmente, gli costò moltissimo criticamente, sia come regista che come scrittore. L’approdo al cinema, prima come sceneggiatore e poi come regista, fu visto come un tradimento, come uno svendersi alle esigenze del commercio. Ed il ritorno alla letteratura, a metà degli anni 70, con Conviene far bene l’amore, fu visto come un’altra, ennesima, operazione furba della sua carriera, un tentativo di ridarsi verginità intellettuale, inseguendo temi alla moda. In realtà, non furono mai comprese le reali motivazioni di Festa Campanile, che abbandonò la letteratura per il cinema in seguito ad una crisi espressiva che gli tolse la voglia di raccontare con le parole quello che poteva fare con le immagini. Fu soltanto nella piena maturità artistica (a 48 anni), che Festa Campanile riuscì a conciliare i due aspetti, sbrigliando una fantasia che si dimostrò incontinente in entrambi gli ambiti.
Il Festa Campanile scrittore ha delle qualità narrative enormi: è uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento (penso a Soldati e Piero Chiara, su tutti) che affronta la realtà nei termini di una immediata ma suggestiva comprensibilità, un romanziere svelato, senza sovrastrutture ideologiche e culturali eppure, nello stesso tempo, capace di affrontare temi impervi con un’acutezza psicologica ed una sicurezza di racconto sbalorditivi. Penso alla rilettura umoristica, profonda e rispettosa dei libri evangelici (la vita di Cristo ne Il ladrone, la figura di San Giuseppe in Per amore, solo per amore), che dà una prospettiva nuova, moderna, problematica a figure solitamente affrontate in modo piatto e unidimensionale. Festa Campanile ha una scrittura brillantissima, con punte audaci e caustiche (in particolare la fantascienza grottesca e sociologica di Conviene far bene l’amore), una capacità di far progredire il racconto per paradossi e di delineare figure di uomini comuni inseriti in contesti abnormi. E talvolta sa far emergere il lato più sentimentale e melodrammatico, accoppiandolo ad un’amarezza esistenziale piena di echi culturali importanti (La ragazza di Trieste) o addirittura ad un ribellismo ideologico contro i poteri forti che sfiora l’invettiva politica (Il peccato).

Quali sono le caratteristiche peculiari di Pasquale regista cinematografico?
Regista di successo, come fosse una colpa: “il regista miliardo” era chiamato con una definizione denigratoria. Autore tutto dedito allo spettacolo, alla ricerca del più largo consenso possibile: come fosse un demerito, e non la ricerca di un rapporto diretto con il pubblico. Festa Campanile ha praticato un tipo di commedia desueto per la nostra cinematografia. Commedie paradossali e non di costume, immerse nella realtà ma senza alcuna ricerca della verità sociale: un’antitesi perfetta della commedia all’italiana. Grottesco e paradosso: il ribaltamento della logica delle opere a tesi. Rappresentare i pericoli della mercificazione del sesso attraverso l’iperbolica iterazione di amplessi senza più amore, ad esempio: il rischio (calcolato) di un film come Conviene far bene l’amore (uno fra i tanti del regista) è quello di essere fruito in modo letterale, capovolgendo le intenzioni dell’autore.
A fondamento di tutta la filmografia di Pasquale Festa Campanile c’è il rapporto di coppia, anche laddove, come Il ladrone o Autostop rosso sangue (suggellato da una citazione di Böll in tema) gli interessi del racconto sembrano più lontani.
Tutti i film degli anni ’60 successivi alle Voci bianche sono un ritratto di contrastati rapporti matrimoniali che pongono in crisi il concetto stesso di società patriarcale, attraverso un’estensione di casi-limite che rasentano l’assurdo: si va dalla moglie tradita che promette analoga vendetta al marito di Adulterio all’italiana, alla giovane aspirante vedova che tenta di accelerare la dipartita del marito per fuggire con l’amante contestatore ne Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare, alla ricca e piacente vedova che, una volta scoperta la doppia vita del marito defunto, decide di togliersi un capriccio sessuale dietro l’altro, ne La matriarca. È una casistica che può spingersi indifferentemente indietro nel tempo, alla corte dei Gonzaga (Una vergine per il principe, con il principe del titolo costretto ad una prova sessuale prima di sposare la discendente dei Medici) o addirittura all’epoca delle crociate (La cintura di castità, dove Boccadoro insegue il marito fino alla terra degli infedeli, pur di farsi restituire la chiave che la liberi dall’ignominia cui l’ha costretta). In ogni caso, è la donna a dettare i tempi dell’azione, a svelare le ipocrisie e le meschinità maschili, a farsi carico di una (apparente) spregiudicatezza che annusa i tempi dell’emancipazione sessuale ed è figlia di autentico buonsenso: non c’è bisogno di arrivare all’esempio estremo di Dove vai tutta nuda?, dove il tran-tran borghese di un impiegatuccio arrivista e vessato è sconvolto dall’arrivo imprevisto di una candida ragazzetta che sembra piovuta dalla Luna; basta un’orfanella qualsiasi, e perdipiù educata da una ruffiana, infatti, a sbaragliare la prosopopea virile di un Gonzaga, in Una vergine per il principe: un semplice ingranaggio in un ben congegnato affare di stato che, andato fuori quadro, rischia di produrre devastanti effetti diplomatici.
Ricapitolazione estrema di questi scandagli umoristici in coppie infelicemente sposate è Con quale amore con quanto amore, che mette in scena un insolito triangolo (lui, lei, l’altro) dove tutti si amano e sono amati, l’amicizia si confronta con l’amore in una battaglia sentimentale che produrrà solo vinti. Le lacrime della riconciliazione finale non sono di felicità: all’ultimo capitolo della sua galoppata matrimoniale, Festa Campanile svela al pubblico il dolore che si nasconde nei sentimenti, dopodiché ci sarà spazio quasi solo per casi che oltrepassano di gran lunga il limite dell’assurdo: dalla scoperta della donna da parte dei cavernicoli di Quando le donne avevano la coda, al marito che si realizza mostrando la moglie nuda ne Il merlo maschio; dalla coppia che cerca di riattivare il desiderio sessuale de La sculacciata, a quella abbandonata e faticosamente alla ricerca di una felicità perduta (o sconosciuta) di Come perdere una moglie e trovare un’amante; dai coniugi costretti a comportarsi come amanti di Cara sposa, all’ossessiva educazione di Tirisin da parte del libertino prof. Quario de Il corpo della ragassa.
La rappresentazione dell’amore non è quasi mai diretta, esplicita, ma scorciata dalle gag, dalle battute, dalle situazioni comiche; così come il sesso è più alluso che messo in scena, demistificato dalla vulgata del comico; l’erotismo è spesso filtrato dall’ossessione monomaniacale dei personaggi; ed i nudi che costellano i film sono, tranne significative eccezioni (La matriarca, Scacco alla regina, Il merlo maschio, Il corpo della ragassa), esterni al significato del film, decorativi, in ultima analisi, innocui. Si potrebbe pensare, perciò, ad un cinema inoffensivo, superficiale, esteriormente spettacolare, ma lo sguardo narrativo (più che cinematografico) di Festa Campanile è volutamente obliquo ed il suo modo di raccontare l’amore attraverso gli equivoci della farsa e le accelerazioni dello slapstick nasconde un pudore personale: la necessità di raccontare determinati temi sentimentali senza mai descriverli. Riepilogando il cinema del regista, si avverte un’evidente consonanza con l’idealismo di un amore romantico, assoluto, di pura possessione, al di fuori di qualsiasi legame sociale, di qualsiasi ipocrisia morale; e nello stesso tempo c’è la volontà di non rappresentarlo, di raccontarlo con allusioni ironiche, beffarde, sarcastiche; di nascondersi dietro la maschera di uno scetticismo che è, appunto, una maschera: finito l’arco del racconto dei film di Festa Campanile, lo spettatore avrà tutti gli strumenti per scoprire l’ideologia del regista, ma dovrà spesso ribaltare i significanti del film, scorgere tra le immagini il senso appropriato (titoli fondamentali sono Conviene far bene l’amore, Gegè Bellavita, Più bello di così si muore, Un povero ricco): di qui i numerosi esempi di fraintendimento delle sue opere. Che un autore così facile e leggibile per esteso al primo sguardo, sia comprensibile spesso attraverso il non-detto, è solo uno dei tanti paradossi di Festa Campanile, forse quello che è alla base del suo cinema: ma è anche vero che, quando il regista vuole “fare sul serio”, mettere in scena direttamente i suoi temi preferiti, scivoli nella ridondanza, nell’enfasi, nella mediocrità espressiva: dice più sull’amore un piccante Conviene far bene l’amore che un sofferto La ragazza di Trieste.     
I temi sarebbero quelli tipici del cinema dell’incomunicabilità (pure toccato nell’esordio di Un tentativo sentimentale), ma la posizione di Festa Campanile è antifrastica rispetto a quella di un Antonioni: l’emancipazione femminile, la fedeltà coniugale, la rivoluzione sessuale sono affrontati con la lente d’ingrandimento del grottesco, speziati con un erotismo (per l’epoca) debitamente spregiudicato, lasciati al divertimento più che al giudizio dello spettatore. Con l’aria sorniona dell’intellettuale rotto a tutte le esperienze, con l’umorismo beffardo di chi rispetta tutto e di tutto può sorridere, il regista rifiuta ogni atteggiamento pensoso e sconvolge ogni problema con l’arma della farsa, del comico, del paradosso. Stira la credibilità delle situazioni fino a creare dei casi limite, pone ai suoi personaggi problemi abnormi e confonde le piste; perché qui entra in scena un altro tema fisso, sviluppato nel corso degli anni ’70 e ’80: il gusto di raccontare storie di personaggi comuni alle prese con gli aspetti assurdi della realtà, osservati con un atteggiamento attento alla contingenza quotidiana.  La comicità nasce dalla difformità tra i personaggi ed il mondo circostante, ed è una comicità che non esclude l’intervento della tragedia: il ladrone Caleb incontra fatalmente, durante i suoi vagabondaggi, Gesù e muore accanto a lui sulla croce (Il ladrone), il disoccupato Spartaco è costretto a travestirsi per trovare lavoro ed un affetto disinteressato (Più bello di così si muore), il violinista Niccolò Vivaldi è talmente avvinto della propria scarsa personalità da finire in manicomio (Il merlo maschio).
Già negli anni ’60, quest’impostazione grottesca aveva lampeggiato nelle commedie matrimoniali – trovando sfogo in uno dei film più incompresi: Scacco alla regina, versione femminile del legame perverso servo-padrone e parodia omoerotica delle farse coniugali – ma sarà negli anni ’80 che diventerà un vero e proprio ritornello narrativo. Si va dal racconto di un prete oggetto dei desideri di una ragazza (Il prete ballerino) a quello di un uomo che sposa un transessuale (Nessuno è perfetto), dalla storia di un barone mammone che si innamora di un travestito (Più bello di così si muore) a quella di un celebre petomane che si vergogna della propria professione e per questo rischia di perdere un vero amore (Il petomane): con il gusto della trovata, Festa Campanile giunge a rappresentare il problema dell’identità sessuale, della distorsione e dell’ambiguità dei rapporti interpersonali nella vita quotidiana, mostrando una leggerezza ideologica che fa il paio con la facilità narrativa, tra gli strali di una critica che accusa il regista di girare film convenzionali, ignorando puntualmente la pertinenza dei suoi paradossi.
Evitando accuratamente le trappole del facile pietismo, ma non gli allettamenti del melodramma (che punteggia qua e là quasi tutti i suoi film, da Le voci bianche a Manolesta, fino a trovare sfogo in excelsis ne La ragazza di Trieste), il regista conferma ad ogni film di saper giocare con le emozioni del pubblico, colpendolo nei sentimenti più scoperti, con un savoir faire sempre in bilico tra il cinismo e la generosità.
A 25 anni dalla scomparsa, cosa rimane secondo te di Pasquale Festa Campanile come uomo e come autore?
Credo di averti risposto ampiamente in precedenza. È stato un narratore di grande qualità, capace di toccare ogni tema paradossalmente e di giocare con temi seri, mantenendo al tempo stesso lucidità ed umorismo. Dunque, aveva qualità estremamente rare per la nostra cultura. Ed infatti non è mai stato apprezzato appieno, tacciato di facilità e volgarità, spesso con il sospetto dell’invidia per la sua enorme prolificità e per il successo raggiunto. Ma ha saputo costruire personaggi proverbiali: il suo Rugantino teatrale rimarrà per sempre nella storia non solo dello spettacolo, ma nell’archeologia di una romanità autentica.
E se mi permetti di lasciarti con un gioco, ti stilo la classifica dei miei cinque film preferiti di Festa Campanile regista (in realtà sono sette, per scherzare un po’): 1. Il merlo maschio; 2. La sculacciata; 3. Le voci bianche; 4. Più bello di così si muore; 5. Qua la mano, Cara sposa, Il ladrone. 

Alessandro Ticozzi