Finalmente esportiamo un Cinema che non è fatto di inutili storielle intimiste, finalmente riveliamo, anche all’estero, registi di talento che hanno stilisticamente qualcosa di nuovo da dire e che usano la cinepresa con il tocco dei Maestri. Molte cose accomunano Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, contemporaneamente in questi giorni sui nostri schermi il primo con “Gomorra”, il secondo con “Il Divo”, entrambi premiati a Cannes, il primo con il Gran Prix, il secondo con il Premio della Giuria. Sia Garrone che Sorrentino ricorrono alla presenza di Toni Servillo, attore camaleontico e straordinario, già caro a Sorrentino, che ora, al terzo film insieme, si trasforma in un inquietante Andreotti e che anche Garrone utilizza, unico volto ben noto, all’interno di un film corale dove le sfumature sui volti parlano come la desolazione dei luoghi.
Ma queste sono le coincidenze più palesi. Percorsi che hanno finito col convergere perché Garrone e Sorrentino sono le voci nuove del Cinema Italiano e seguono un percorso stilistico tutto loro. Rifiutandosi, per loro stessa ammissione, di fare un bagaglio delle lezioni di Cinema e inseguendo una propria personale ispirazione e visioni proprie (anche se tutto un immaginario cinematografico finisce col fondersi) hanno creato, separatamente, uno stile cinematografico innovativo che in qualche modo si rassomiglia. E hanno ora realizzato film che parlano di un’Italia malata, ma fuggendo da qualunque predica, tesi o morale, semplicemente raccontando, con strutture narrative spiazzanti.
Ma se vogliamo metterli su una bilancia la prima impressione che affiora è che la straordinaria regia di Garrone parli con una spontaneità e un’immediatezza di cui il film di Sorrentino difetta, nella studiata ricerca di un’originalità estetica. Reputo “Le Conseguenze dell’amore” di Paolo Sorrentino il film italiano più bello degli ultimi dieci anni e reggerne il confronto è cosa ardua. Soprattutto quando viene abbandonata una strada di creazioni personali per attingere ad altra materia, portando in scena un pezzo discutibile di storia italiana e mantenendosi nel difficile equilibrio di raccontare senza salire in cattedra, senza un percorso lineare. Non a caso i momenti più efficaci del film sono la serie di esecuzioni e di suicidi montati in un ritmo da gangster movie. Ciò che accomuna ogni personaggio di Sorrentino è la solitudine, totale, angosciante, narrata con distacco, e a ben guardare anche l’ambiguo Andreotti che emerge da “Il Divo” è prima di tutto un uomo solo.
Se, dunque, Sorrentino sembra aver virato altrove nella scelta tematica, ma prosegue lungo un proprio filo conduttore che delinea personaggi anomali, sgradevoli, solitari, anche Garrone sprofonda in un universo di degrado e desolazione e in quell’atmosfera di crescente disagio da cui lo spettatore non potrà mai uscire indifferente. Dopo il disturbante “L’Imbalsamatore”, dopo l’ossessione morbosa di “Primo Amore”, che, a contrasto col titolo, potrebbe addirittura essere definito un horror, arriva il grande, tragico, affresco di “Gomorra” (per approfondimenti vai alla pagina Recensioni). Senza intenti didascalici (peccato davvero per i nozionistici titoli di coda che giungono, semplicistici ed esplicativi, quando già il film aveva chiuso mirabilmente lasciandoci con l’amaro in bocca), Garrone passa da un episodio all’altro in un continuo, stordente, piano sequenza che insegue traditori, piccoli boss e ragazzi di vita da un corridoio all’altro di caseggiati umidi e sventrati, giungendo fino ad investirli scrutando loro addosso con la cinepresa. Nello squallore degli scenari non vi è altro sogno che quello di fare il duro come nei film o come i compagni più grandi. Un film dove parlano le ombre, i dettagli, dove l’orrore è ordinaria quotidianità, crudo e feroce, straordinario dalla prima sequenza all’ultima.