
L'avevamo recentemente visto in “Michael
Clayton” e ci era piaciuto anche più di George Clooney: quando recitava e
produceva infondeva ai film quello stesso spirito critico e “civile” che aveva
improntato le sue prime opere da regista, unitamente a un pizzico di charme
vecchia maniera – lo si ricorda in particolare in “Mariti e mogli” di Woody
Allen o in “Eyes wide shut” di Stanley Kubrik. A 73 anni Sydney Pollack se
ne è andato silenziosamente a causa di un cancro, lasciando il ricordo di
persona dabbene, seria, misurata, piacevole e di regista forse non geniale ma
sempre preciso, sensibile e con quelle qualità che aveva anche come essere
umano, grazie alle quali poteva incontrare i favori di una enorme fetta di
pubblico, dalla più semplice e romantica, incline ad appassionarsi del suo interprete
preferito, Robert Redford (col quale collabora in ben 7 pellicole e fonda il
Sundance Institute, per la promozione del cinema indipendente, una delle
colonne portanti della cinematografia d'autore degli ultimi 30 anni), a quella
più “politica” ed esigente.
L'esordio nel '65 con “La vita
corre sul filo”, l'unico suo film che non amava, ma dove già riusciva a far
convivere il melodramma con lo scavo psicologico. Segue poi “Questa ragazza è
di tutti” (titolo originale, bellissimo, “This property is condemned”), che
rivela tutto il talento e lo stile personale, anche se un po' “alla Kazan”, del
giovane regista, oltre che la capacità di dirigere gli attori (è una delle
migliori interpretazioni di Natalie Wood). Negli anni successivi dirige “Joe
Bass l'implacabile” ( “The Scalphunters”), nel quale rivela anche il suo gusto
per la commedia ironica, “Ardenne 44, un inferno”, insolito e con una tessitura
visiva onirica, entrambi con Burt Lancaster, per arrivare a quello che è
considerato il suo capolavoro “Non si uccidono così anche i cavalli?”.
Intensa e di alto livello è la
sua produzione all'inizio degli anni '70: nel '72 un western di rottura, con la
sua “musa” Robert Redford , “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”
(“Jeremiah Johnson”), alla cui sceneggiatura collabora John Milius, nel '73 il
più romantico – e un po' fiacco, invero - “Come eravamo”, che riesce comunque a
coniugare l'impegno politico e una storia d'amore per casalinghe inquiete, nel
'74 il bellissimo “Yakuza”, con un grande Robert Mitchum, uno dei primissimi
film americani che incontra la cultura giapponese, violento e teneramente
struggente nel medesimo tempo, e nel '75 il titolo forse più significativo di
tutta la sua carriera “I tre giorni del Condor”, complicata spy story di
denuncia dal tocco hitchcockiano (del resto Pollack con Hitchcock ha
collaborato per la seria tv “Alfred H. presenta”).Dopo questi successi,
comincia ad alternare film più banali
(“Un attimo una vita”, “Diritto di cronaca”) a film più riusciti (il nostalgico
“Il cavaliere elettrico”, l'esilarante “Tootsie”, che ci regala un
Dustin Hoffman da leggenda), fino ad arrivare alla cascata di premi Oscar per
il mitico “La mia Africa”, dove anche i difetti (prolissità,
romanticismo esasperato) diventano virtù, illuminati dalla tendenza di Pollack
all'elegia (chiaramente riscontrabile già in diverse opere precedenti).Da
allora, oramai “coronato”, dedica più tempo alla produzione e promozione di
film altrui che alla realizzazione di nuovi film, che comunque non mancano,
anche se un tantinello più convenzionali: “Havana”, “Il socio”, con Tom Cruise,
“Sabrina” (ramake imparagonabile con l'originale, ma comunque una delle più
gradevoli commedie romantiche degli ultimi anni), “Destini incrociati”,con
Harrison Ford , e infine (nel 2005) “The interpreter”, con Sean Penn,
confermando ancora una volta le sue preferenze per opere di denuncia truccate
da thriller.