La notizia arriva su web, tramite social network. Cantanti, attori, persino calciatori (l'intellettuale Xabi Alonso) lo salutano commossi prima ancora che la notizia, lanciata dall'edizione on line di Rolling Stone, sia confermata dal suo entourage: Lou Reed è morto.
La gara alla condivisione di filmati e canzoni è aperta: e del resto è il miglior modo per ricordarlo, con quella sua voce unica. Trasformista, eclettico, artista tout-court, poeta, innovatore, rocker, con quell'aria distaccata, quel lento aplomb che conservava nella vita e sul palco, ci ha lasciato un numero incredibile di canzoni indimenticabili che hanno influenzato numerosi altri musicisti ed artisti.
Newyorkese, colto, negli anni '60 fonda con John Cale i “Velvet Underground” e si lega artisticamente alla factory di Andy Wharol. Quando il gruppo si scioglie – e la relazione con la cantante e modella Nico finisce – Reed né si siede sugli allori né si lascia andare alla disperazione, ma cambia pelle e inizia la sua collaborazione con David Bowie, che diviene il suo produttore. E ad ogni decennio Reed cambierà volto, reinventandosi di volta in volta, tornando sul passato (le sue “elaborazioni del lutto” lasciano dietro di sé dischi memorabili) e facendo tuttavia passi avanti.
Bisessuale (la moglie attuale era la cantante e polistrumentista Laurie Anderson), con una “vita spericolata” alle spalle, ha scritto le sue canzoni come poesie autobiografiche, ispirandosi alle proprie esperienze di vita e a quelle dei suoi amici: oggi la sua discografia rimane il più vivo ritratto di un'epoca e di un fermento che hanno fatto la storia dell'arte (pop)