Omaggio a Florestano Vancini, talento rigoroso del Cinema Italiano

27/08/2014

A colloquio con Valeria Napolitano, autrice di Florestano Vancini. Intervista a un maestro del cinema (Liguori 2008), un saggio dedicato al grande regista ferrarese. In chiusura, il ricordo di Massimo Ghini.

Documentarista dal 1949, Vancini esordì con La lunga notte del '43 (1960), tratto da uno dei Racconti ferraresi di Giorgio Bassani: da cosa furono segnati i suoi inizi?
Florestano Vancini appartiene a quella seconda generazione postbellica, che pur nascendo nel clima intensamente partecipativo della rinascita neorealista, si definisce già post-neorealista. Nasce a Ferrara il 24 Agosto 1926, da una famiglia di origini contadine, alle quali resta sempre profondamente anche dopo il suo trasferimento a Roma, nel 1952. Le sue prime esperienze nel cinema lo vedono spettatore, all’età di quindici – sedici anni, di capolavori come Ombre rosse e La grande illusione, oppure delle riprese, nell’estate del 1942, di Ossessione di Ludovico Visconti, o ancora nell’immediato dopoguerra delle prime proiezioni dei film del cinema sovietico presso il circolo cinematografico “Ricciotto Canudo”. Poco più che ventenne, Vancini lavora come critico cinematografico per il quotidiano di Ferrara, per il Corriere del Po e il settimanale della federazione del partito comunista di Ferrara La nuova scintilla. Escludendo due parentesi in qualità di aiuto – regista (nel 1954 con Mario Soldati per La donna del fiume, e successivamente nel 1959 con Valerio Zurlini per Estate Violenta) la prima fase della sua attività è interamente dedicata al documentario, vero genere di riferimento per  molti giovani cineasti negli anni Cinquanta. Tra il 1949 e il 1959 Vancini realizza una trentina di cortometraggi, alcuni dei quali (Delta Padano, 1951; Uomini della palude, 1953; Tre canne un soldo, 1954) dedicati alle Valli di Comacchio, e alla Sicilia (Luoghi e figure di Verga, Più che regione, Portatrici di pietre, 1952). Il debutto nel lungometraggio arriva nel 1960, con una storia ferrarese ispirata a un racconto di Giorgio Bassani, dal titolo La lunga notte del ’43. Il film riscuote un immediato successo sia di pubblico che di critica, aggiudicandosi tra l’altro il premio Opera Prima al Festival di Venezia. Si tratta, per ammissione dello stesso regista, di una ricostruzione storica poco rigorosa, ispirata all’emozione generata dalla vista personale delle vittime della strage avvenuta il 15 novembre del 1943 a Ferrara: in seguito all’attentato di cui rimane vittima, il 13 novembre del ’43, il gerarca fascista Ghisellini,  l’allora capo della Federazione Fascista Enrico Vezzalini ordina una rappresaglia contro 11 persone, quasi tutte invise alle autorità per sentimenti antifascisti. Dal punto di vista storico, l’eccidio di Ferrara segna la nascita della Repubblica di Salò (23 settembre 1943 – 25 aprile 1945), e rappresenta il primo caso di rappresaglia in Italia. L’originalità della Lunga notte del ‘43 risiede nel mettere in luce la cosiddetta zona grigia, ossia quella fetta di popolazione che all’indomani dell’8 settembre non si schierò apertamente né con la Resistenza, né con la Repubblica Sociale Italiana.

La banda Casaroli (1962), La calda vita (1964), Le stagioni del nostro amore (1966), Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1971), La violenza: quinto potere (1972), Il delitto Matteotti (1973), Amore amaro (1974), Un dramma borghese (1979), La baraonda (1980) e La neve nel bicchiere (1984): quali sono le tematiche costanti dell'opera cinematografica di Vancini?
Nel suo film d’esordio Vancini rivela una marcata attitudine anti-celebrativa, analizzando non soltanto l’atmosfera di repressione politica e morale di cui fu vittima Ferrara nella fase finale del secondo conflitto mondiale, ma anche l’ambiguità di fondo e il trasformismo che caratterizzarono l’Italia a distanza di quindici anni dal movimento di Liberazione. Successivamente, nel suo secondo lungometraggio dal titolo La banda Casaroli (1962) incentrato su un episodio di cronaca che vede protagonista un ex brigatista nero a capo, negli anni Cinquanta, di una banda specializzata in rapine in banca, decide di analizzare le modalità tramite cui si nella Bologna del dopoguerra si sviluppa in un giovane la mentalità di un delinquente. La sua opera prosegue quindi con l’intreccio adolescenziale de La calda vita (1963), tratto dal romanzo omonimo di Pier Antonio Quarantotti Gambini, e le Stagioni del nostro amore (1966), storia di un quarantenne in crisi sentimentale che si traduce in una presa di coscienza ed un’amara disillusione, entrambe sintomatiche della crisi degli intellettuali di sinistra all’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Quest’opera, cui vennero indirizzati commenti ora sprezzanti – Enzo Biagi parla in un suo articolo di “ovvio melodramma”, mentre Ugo Casiraghi parla dalle colonne de “L’Unità” di un film «elusivo e piagnucoloso», che «non può avere valore di documento perché non sa dar conto della crisi di una società» - ora incoraggianti, conferma l’eclettismo del regista ferrarese, dote, questa, che disarmerà sovente i critici, convinti che la peculiarità di Vancini sia nel film storico. O, per meglio dire, antistorico, come sottolinea nel 1972 Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, che narra un episodio tragico, e in quanto tale rimosso dalla storiografia ufficiale, dello sbarco garibaldino in Sicilia. E ancora, nel 1973, Il delitto Matteotti. Se è vero, tuttavia, che il film incentrato sulla figura dello sfortunato segretario del Partito sequestrato e assassinato dai fascisti il 10 giugno 1924 rientra a pieno titolo nella rosa dei film storici, è anche vero che le vicissitudini successive all’assassinio di Matteotti acquistino un ritmo incalzante, da film giallo. D’altra parte l’impostazione drammatica non ostacola l’obiettività storica; al contrario, essa risulta particolarmente incisiva quando si tratta di far riflettere lo spettatore sulla natura tutt’altro che irresistibile del fascismo nei primi anni Venti, e sulle cause di un’occasione persa da parte della classe politica antifascista, e non fascista. L’eclettismo di Vancini è anche tematico, come dimostrano Amore Amaro (1974), trasposizione letteraria tratta dal racconto Per cause imprecisate di Carlo Bernari, incentrato su un delicato intreccio tra storia d’amore e riflessione politica, e Un dramma borghese (dal romanzo postumo di Guido Morselli, 1979) sottile analisi del rapporto padre – figlia. E ancora il sottovalutato La baraonda (1980), opera intrigante nella quale Vancini «ricorre alla sua esperienza di documentarista per catturare l’atmosfera elettrica della sei giorni ciclistica di Milano, restituendo poi, nell’apparente leggerezza della storia, un’acuta riflessione sulla fragilità dei sentimenti e l’immaturità dell’uomo di fronte a scelte esistenziali che lo sovrastano».

Cosa spinse Vancini a passare alla televisione con La piovra 2 (1986) e Piazza di Spagna (1992)?
Le due serie da Lei citate non sono l’unico esempio della produzione per il piccolo schermo di Vancini. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, infatti, mette a punto la maggior parte delle sue regie televisive, alcune delle quali consacrate all’indagine del Ventennio fascista – Il discorso (1970), e Fragheto, una strage: perché? (1980), su una strage avvenuta il 7 aprile del ’44 in seguito ad uno scontro tra un gruppo di partigiani ed un reparto nazista adibito al rastrellamento tra Toscana, Marche e Romagna. Nel 1984, poi, esce La neve nel bicchiere, film inizialmente girato per la televisione, ma che trova il suo vero pubblico al cinema. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo d’esordio di Nerino Rossi, La neve nel bicchiere gioca sull’incontro particolarmente efficace tra ricostruzione storica e fantasia; si tratta di una testimonianza dell’amore dell’autore per il suo territorio e la storia collettiva alla quale egli sente di appartenere. Come si vede, dunque, il grande successo di audience ottenuto da La Piovra 2 e Piazza di Spagna è dovuto non solo al formato popolare, da “prima serata” delle due serie, ma anche alla grande esperienza e versatilità di Florestano Vancini.

Come mai Vancini è tornato al cinema nel 2005, dirigendo E ridendo l'uccise?
…. E ridendo l'uccise è il risultato di un progetto rimasto per oltre vent’anni “nel cassetto” per ragioni finanziarie, che Vancini porta a termine sulla soglia degli ottanta anni, quando, finalmente ottenuti i finanziamenti, dimostra grande coraggio ed esperienza nel gestire una troupe composita, destinata ad interpretare una complessa vicenda ambientata alla Corte Estense. E ancora una volta riesce a realizzare una contro-inchiesta, rappresentando l’altra faccia della medaglia del Rinascimento Italiano, dando voce agli umili e agli oppressi. Film storico in costume, frutto di un approfondito lavoro di natura storico-linguistica, … E ridendo l'uccise vanta importanti collaborazioni, tra cui quella di Ennio Morricone alle musiche. Il fatto che sia stato praticamente ignorato dal sistema distributivo in Italia, e che invece sia stato particolarmente apprezzato all’estero, testimonia ancora una volta di un paradosso presente in Italia, quello cioè di non mettere in circolazione opere cui lo Stato ha destinato non pochi soldi pubblici.

A sei anni dalla scomparsa, cosa rimane secondo Lei di Florestano Vancini come uomo e come regista?
Florestano Vancini è uno dei registi più originali e rigorosi del cinema italiano, uno dei pochi ad aver caparbiamente lavorato, al di là dell’apparente dispersività di genere e tematica, sui nodi irrisolti del tessuto storico e socio-culturale del nostro paese. Di lui resta, attualissimo, il coraggio di aver tradotto in immagini quello Jean Gili definisce nel mio libro l’«approccio ovattato» alle situazioni di crisi; caratteristica, questa, che ha suscitato non poco fastidio presso certa critica, anche di sinistra. Per quanto riguarda il Vancini uomo, colui che ho avuto modo dapprima in un gremitissimo teatro beneventano, in un incontro organizzato dal Prof. Pasquale Iaccio, e in seguito nella sua casa romana, ricordo una persona estremamente colta, uno storico raffinato, oltre che uno studioso rigoroso e al tempo stesso disponibile. Ho appreso la notizia della sua morte, avvenuta ormai sei anni fa, nella notte tra il 17 e il 18 settembre della 2008, attraverso la stampa, a funerali ormai avvenuti. Scompariva così, con la stessa discrezione che ha contraddistinto la sua vita, uno dei registi più personali del panorama cinematografico italiano.

Per chiudere questo pezzo, il ricordo di Massimo Ghini: “Un solo incontro, ma per me significativo: è quasi determinante, oserei dire storico. Sto cercando aggettivazioni perché La neve nel bicchiere è il mio primo film, anche se avevo già fatto poche pose in un film qualche anno prima: era però veramente un piccolo ruolo di passaggio, una sorta di pre-debutto. Quello diventa il mio primo film a tutti gli effetti perché è il primo dove io sono totalmente protagonista, e quindi mi ha legato al rapporto con Florestano in maniera indissolubile. La storia non è più potuta andare avanti perché c’è stata una enorme difficoltà nei confronti di Florestano Vancini di fargli produrre altri film: ha lavorato in altre situazioni, anche di natura televisiva, dove io magari non potevo essere contemplato; si è parlato di un ultimo film che poi non riuscimmo a fare insieme, ma per il quale io mi sono battuto tantissimo. La neve nel bicchiere rimane per me una pietra miliare, per lo meno nella mia storia, ma anche di quello che è stato in seguito da un certo punto di vista il rapporto col cinema italiano. Questo film infatti nasce inizialmente come un prodotto televisivo: La neve nel bicchiere viene prodotto per Raidue, con la regia appunto di Florestano, con l’idea di farne un racconto televisivo. Strada facendo questo film prende un suo percorso completamente diverso, nel senso che s’intuisce la possibilità di farne una riduzione cinematografica: a quel punto il film viene montato e va al Festival di Venezia. Quindi io mi sono trovato, con Florestano Vancini, la prima volta che facevo un film da protagonista ad essere in concorso al Festival di Venezia, dove abbiamo incontrato inizialmente una difficoltà che nulla toglieva alla grandiosità di Florestano, ma che va detta in un Paese fortemente ipocrita. Noi avemmo una sorta di ostilità da parte dei critici italiani - che sono veramente una categoria a parte nella storia della società - nel senso che ci fu una parte della critica che si schierò addirittura con una sorta di documento, mandato all’allora direttore del Festival di Venezia, contro questo film perché si parlava di un prodotto televisivo che andava a contaminare una sorta di terreno sacro, e ancora una volta come sempre sono stati maestri della cecità. Il film poi ebbe una sua storia: venne comunque presentato, ha girato parecchi festival, è stato trasmesso in parecchie televisioni, anche nel mondo. Un maestro del cinema italiano affrontava un racconto che non era sicuramente facilissimo dal punto di vista anche distributivo: una storia ambientata nell’Emilia della fine dell’Ottocento, il percorso di un giovane che non vuole fare il contadino bensì vivere nella città, e che poi finirà a fare lo scopino dentro questa città. Un viaggio lungo trenta chilometri che dura quasi trent’anni per riuscire a trasformare questa famiglia da braccianti a proletari: in realtà è una storia vera, tratta da un romanzo di Nerino Rossi, un importante giornalista e uomo politico che faceva parte dei giovani di Moro. Invece di avere quell’atteggiamento secondo me sarebbe stato più bello sostenere questo prodotto: forse avremmo anticipato il tempo per pensare, in un momento di crisi com’era quello, ad un rapporto più stretto tra televisione e cinema. Attraverso questa possibilità, che non veniva data dal cinema produttivamente, si poteva avere molto di più dalla televisione: ho questo ricordo bello da una parte e contrastato dall’altra. Da lì comunque ho cominciato una carriera cinematografica che continua ancora. Florestano era un regista molto esigente: faceva parte di quella scuola di professionisti e intellettuali che avevano una concezione artigianale nell’accezione ancora più alta del termine: c’era una conoscenza del mezzo tecnico e contemporaneamente una preparazione dal punto di vista culturale intellettuale importante. Mi sono trovato davanti a un regista che mi ha svezzato molto, perché io venivo dal teatro e quella era la mia prima vera esperienza importante davanti alla macchina cinematografica. Florestano fu giustamente esigente nei miei confronti, e questo ci aveva legato a un rapporto di grande amicizia: lo sentivo proprio come un padre che mi accompagnava in questo viaggio. È stata un esperienza in quel tipo di concezione della cinematografia che mi ha molto formato: infatti mi venne a vedere a teatro mentre recitavo in un grande spettacolo diretto da Franco Zeffirelli, Maria Stuarda di Schiller. Io interpretavo Sir Mortimer: per vedere in un nobile del Cinquecento un contadino della Bassa Emiliana ci voleva una grande fantasia, ma anche coraggio. Mi disse che c’era qualcosa che lo aveva colpito in me, e quindi mi chiamò a fare il protagonista del suo film: un uomo che passa dall’essere giovanotto sino al diventare nonno. Quindi già alla mia prima esperienza cinematografica affrontavo un percorso decisamente non facile per renderlo credibile, però Florestano ebbe questa intuizione. Il film peraltro appunto uscì a Venezia e poi nelle sale cinematografiche: di per sé era una pellicola che doveva avere non certo un percorso di sala cinematografica importante, ma appunto di festival e riconoscimenti che poi ha comunque avuto. È stata trasmessa in televisione, e ebbe credo dei buoni ascolti per l’epoca: non eravamo ancora nell’assillo dell’Auditel a livello forsennato. Quest’inverno, quand’ero in tournée, la giovane sarta che mi ha accompagnato in questo lavoro mi disse che aveva fatto tardi la notte perché s’era messa col suo fidanzato a vedere La neve nel bicchiere nella sua versione lunga, e m’aveva detto che era stata un esperienza bellissima. Parliamo di una ragazza venticinquenne, non del pubblico che magari uno pensa più adatto per una cosa del genere: però ha detto che era una bella ricostruzione di un cinema che non si vede più. I film di Florestano poi hanno sempre avuto questa matrice storico-ricostruttiva, però con grande senso dello spettacolo e con una struttura ed una professionalità encomiabile: da La lunga notte del 43 e Delitto Matteotti fino a Le stagioni del nostro amore, che io amo moltissimo perché è un percorso tutto interiore io credo proprio nella vita dello stesso Florestano, ossia dell’intellettuale che torna nella sua città e rivede il suo passato rispetto a quello che ha fatto. Ci sono infine prove televisive di natura commerciale che fanno parte sempre della strada di un regista, ma risolte sempre con maestria: non ci dimentichiamo che La Piovra che ha avuto più ascolto era diretta da Florestano. Poi come al solito, in questo Paese dove la macchina da presa viene data a persone che gliela dovrebbero dare solo per fargliela portare da un punto a un altro del set, ha avuto difficoltà a produrre dei lavori. Forse era anche un uomo poco avvezzo a compromessi, e purtroppo viviamo in un epoca di compromessi: ognuno di noi può vantare tragicamente di averne fatti in qualche maniera. Però ci sono anche quelli che si sono opposti fino in fondo, magari difendendo un etica e una qualità del lavoro che faceva parte della professione: Florestano io me lo immagino così”.

Alessandro Ticozzi