Addio inarrivabile Paul

27/09/2008

Paul Leonard Newman nasce il 26 gennaio 1925 a Shaker Heights, Cleveland, Ohio, da un negoziante di articoli sportivi, Arthur, e da Theresa Fetzer, che invece lo spinge verso il teatro. Infanzia agiata e senza problemi, studi regolari. Nel ’43 si arruola in marina, ma viene esonerato perché daltonico. Torna per laurearsi e abbandonare il football in favore della recitazione. Nella compagnia di cui fa parte conosce Jackie Wittie, che sposa nel ’49 e da cui ha un figlio e due figlie, e nel ’52 si trasferisce a New York, obbiettivo Broadway. Ci arriva quasi dalla porta principale, ottenendo una parte in “Picnic” che lo fa subito notare. Perfeziona gli studi di recitazione con Lee Strasberg all’Actor’s Studio e viene adocchiato dalla Warner Brothers che nel ’54 lo porta a Hollywood. Il primo film, “Il calice d’argento”, è un flop e per un po’ Newman torna al teatro, dove si esalta con 16 mesi di tournée con “Ore disperate”. Torna al cinema con tutte le credenziali a posto, oltre alla nomea di nuovo James Dean (che nel frattempo è morto) e a un paio di stupendi occhi azzurri che per tutta la vita saranno il suo biglietto da visita e , forse, la sua trappola. Ancora un film interlocutorio (“Supplizio”), e poi il successo di “Lassù qualcuno mi ama”. È il 1956. Dopodiché, è tutta una carriera in salita, anche quando sembra arrivato a un punto di non possibile miglioramento. Il suo segreto? Non farsi mai imprigionare dai cliché. Nella vita è un uomo quasi noiosamente normale. Dopo il divorzio, nel ’56, sposa la collega Joanne Woodward nel gennaio ’58, e non cambia più. Ha altre tre figlie. È uno degli attori più pagati di Hollywood, ma non esercita il suo potere, tanto che nella lunga e ottima carriera vince un solo Oscar. Ha l’hobby delle macchine sportive (tanto da piazzarsi secondo a una 24 ore di Le Mans e fondare una propria casa automobilistica) ed è il proprietario di un marchio di prodotti alimentari biologici i cui proventi vanno in beneficenza. È democratico e morigerato. Piazzatosi più volte in testa ai sondaggi quale uomo più desiderabile, prende la cosa con ironia. A chi gli domanda il segreto della sua proverbiale fedeltà risponde ridendo “Perché dovrei andare a caccia di hamburger quando ho tutti i giorni il filetto?”. Al cinema è tutt’altro, e varia abilmente i ruoli e i toni a seconda dell’età propria e del gusto del pubblico: nevrotico, ribelle, spaccone, duro, perdente, malinconico, buffo, cinico, onesto, carogna. Irresistibile seduttore, ma anche impotente e gay (quest’ultima caratteristica solo tra le righe, ma più di una volta). Insomma, un attore per tutte le stagioni. La sua stagione migliore è forse ancora la prima: dal ’58 al ’62 interpreta ben 10 film. Tra questi ci sono una manciata di ruoli semplicemente indimenticabili: l’insicuro, infantile, esagitato, instabile, inselvatichito Billy the Kid di “Furia selvaggia” (ancora oggi una delle sue prove più potenti, giocate tra l’introversione e le esplosioni di furia animalesca); il complessatissimo e alcolizzato Brick di “La gatta sul tetto che scotta” (dove Paul riesce a sdoganare una serie di problemini sessuali che i censori tagliano furiosamente ma che lui lascia chiaramente capire); l’ambizioso e insolente Ben Quick de “La lunga estate calda” (e qui invece è tutto sesso che trapassa lo schermo); “Lo spaccone” Eddie Felson, disperatamente ambizioso e pateticamente arrogante; e Chance Wayne, vile e “bruciato”gigolò che verrà duramente castigato (nel film, sfigurato, nella commedia teatrale più crudamente evirato) in “La dolce ala della giovinezza”. Dopo tanta grazia, c’è da aspettarsi che Newman ceda a qualche stereotipo: per esempio il ripetere all’infinito il ruolo del tipo cinico e sprezzante, disinvolto e insolente, ma con “scatti” di debolezza e frustrazione. In realtà è un ruolo che fa così bene che in effetti finisce col replicare più volte, la migliore delle quali è “Hud il selvaggio” (1963). Ma a questa aggiunge la parte, più leggera, adottata in commedie e polizieschi, del bello, brillante e sicuro di sé, freddo e un po’ stronzo: un Cary Grant più audace e cinico, tanto per intenderci. Nel ’67 spacca il cuore con “Nick mano fredda” (qualcuno deve spiegarmi perché il personaggio di Luke – “Cool Hand Luke” – è diventato Nick...), capolavoro attoriale attorno alla figura di un anticonformista in bilico tra rifiuto e desiderio di accettazione: coi personaggi disagiati, inutile dirlo, Newman dà il meglio di sé, tanto più che ora è capace di esprimersi con molta finezza rispetto alle sue prime, pirotecniche prove. L’anno successivo esordisce alla regia con un lungometraggio (aveva già diretto un corto “sperimentale” sul monologo di Cecov “Il tabacco fa male”), “La prima volta di Jennifer” (il titolo originale è “Rachel, Rachel”....), che valse un Oscar alla Woodward. Ci proverà ancora, con esiti forse non sempre riuscitissimi, ma comunque personali, e dimostrando spiccate doti di direttore d’attori, con “Sfida senza paura”(in cui anche recita) , “L’effetto dei raggi gamma sui fiori di Matilda” (qui, oltre alla moglie, dirige anche la figlia, Nell Potts), “Harry & son” (ancora una volta si autodirige), “Lo zoo di vetro”(sempre con Joanne Woodward). Nel ’69 cambia ancora volto, rendendo simpatico un bandito amorale: è “Butch Cassidy”, che lancia la coppia Newman- Redford, che tornerà, ancor più scanzonata e meno ambigua, in “La stangata”, mentre il west lo vede protagonista anche dell’ “Uomo dai sette capestri” e “Buffalo Bill e gli indiani”, ma ormai ha il ruolo del vecchio. E a questo punto sarebbe facile etichettarlo come sulla via del tramonto, e invece eccolo lanciare la figura dello splendido 50enne: anzi, fa quasi più successo erotico con “La stangata”, “Detective Harper”,“Colpo secco”, “Bronx 41 distretto” che nei film precedenti, dove il suo animalesco sex appeal era associato a qualche disagio psichico o a un’insopportabile cialtroneria.

E arriviamo agli ultimi vent’anni, anche questi ben spesi. È un indimenticabile avvocato alcolizzato in “Il verdetto”, è di nuovo Eddie Felson nel seguito, firmato nell’86 da Scorsese, del “Lo spaccone”, “Il colore dei soldi”, e la sua interpretazione misurata stacca di alcune lunghezze l’istrionismo di Tom Cruise. Ancora impeccabile è in “Mr e Mrs. Bridge”, di James Ivory, mentre si concede un ruolo comico in “Mr Hula- Hoop” e spadroneggia con classe, dipingendo con simpatia un uomo egoista e fallito, in “La vita a modo mio”: ancora una volta, un anticonformista. E ora Hollywood non può che spendere lacrime e parole d'elogio per quest'uomo che nella vita ha sofferto (il figlio è morto prematuramente per droga) ma è sempre stato misurato, simpatico, generoso e disponibile, per quest'attore di grandissima classe che ha incarnato gli ultimi, turbolenti anni dello star system e il sorgere di una recitazione moderna, di cui i vari Sean Penn sono debitori, che già vent'anni fa, quando abbiamo avuto il grande onore di incontrarlo, accusava problemi respiratori eppure ha saputo diventare il simbolo del “magnifico vecchio”. E se dovessimo scegliere un'immagine in tutta la sua straordinaria carriera con cui ricordarlo, sarebbe quella finale del suo ultimo film, “Era mio padre”: quella di lui sotto la pioggia, gangster testardo, crudele e commovente, che aspetta la morte....

Elena Aguzzi