Il Grande Jack
22/04/2017

Jack Torrence. Jocker. Schmidt. McMurphy. J.J. Gittes. Magari il Melvin Udal di Qualcosa è cambiato o il sofferto detective Black de La promessa. Ognuno ha in mente un'immagine di Jack Nicholson, ed è sempre quella giusta perchè in 59 anni di carriera non ha veramente mai sbagliato interpretazione. Particine in filmetti di serie B all'inizio, qualche ruolo “facile” nelle commedie della tarda età, qualche interpretazione sopra le righe quasi autoparodiandosi, ma nessuno scivolone: anzi il coraggio di scegliere pellicole possibilmente controverse, di alternare i toni, lasciando sempre il segno. Il fatto che, sul set di “Missouri”, Marlon Brando lo abbia temuto è significativo.
Uomo affascinante e sicuramente non esemplare, ma attore più unico che raro, oggi compie 80 anni. Volerlo ricordare in tutti i suoi film (più o meno uno per ogni anno di carriera) è impresa enciclopedica, pertanto restringeremo il campo alla nostra visione particolare del grande Jack, quella del ragazzo ribelle e scapestrato di inizio carriera, o per meglio dire di quei dieci anni che precorsero il primo Oscar.

Gli inizi, ormai è noto, furono alla corte di Roger Corman e in altre piccole produzioni indipendenti, anni di gavetta in particine in cui più che altro esibiva un bel faccino, ma che lo formarono e durante i quali strinse legami per la vita coi colleghi, come Robert Towne, Sandra Knight (che diverrà sua moglie), il citato Corman, Dennis Hopper, Peter Fonda, Karen Black, Bruce Dern. Particolare molto importante, in quegli anni si mise a scrivere sceneggiature, e questo gli diede sempre una forte consapevolezza su come affrontare ed interiorizzare i personaggi. Oggi è quasi un gioco da collezionisti rintracciarlo in pellicole come “La piccola bottega degli orrori” (il primo, non il musical!), “I maghi del terrore”, “La vergine di cera” o scoprirlo in un cameo nemmeno accreditato nella sua filmografia in “Il massacro del giorno di S.Valentino”.
Ma i suoi primi film “veri” furono due western anomali e poetici, girati in contemporanea nel '66 e diretti da un altro amico, Monte Hellman: “La sparatoria” e “Le colline blu” (Ride the Whirlwild. scritto dallo stesso Nicholson). Il primo racconta di una donna che assolda due uomini per farle da guida, ma un terzo incrocia il loro cammino...: il western, che trasmette un angosciante senso di ricerca anche se non si sa di chi e di cosa, si tinge sempre più di noir e risulta spiazzante ancora oggi, con un bellissimo finale che sarebbe criminale raccontare. Il secondo, oltre al cast e alla troupe, condivide lo stesso senso di caccia, anche se in modo più ovvio e schematico, e di mancanza di speranza grazie a un destino beffardo. Oggi i film sono ancora ammirati non per una semplice curiosità cinefila, ma per la loro qualità intrinseca, in particolare “The shooting”

La carriera però non decolla subito: le pellicole seguenti sono boiate psichedeliche, nemmeno tutte distribuite in Italia, come “The trip” o “Psych-out”. Ma nel 69, finalmente, il sodalizio tra amici e la quantità di spinelli fumati insieme si concretizzano in un film dirompente, che diventa subito di culto e che ancora oggi porta le stimmate del capolavoro: Easy Rider.
Jack non ne è il protagonista, appare a circa un terzo del film e scompare dopo un paio di scene memorabili, ma la sua presenza illumina la pellicola. Veste i panni del giovane avvocato alcolizzato figlio di papà George Hanson che cava fuori di cella (ma non di impiccio...) i “capelloni” motociclisti Billy e Wyatt. Come si appoggia al bancone, li guarda da sotto le lenti, e brinda a D. H. Lawrence (nella versione italiana diventa Hemingway) colpisce subito il pubblico. La sequenza principale che lo vede protagonista è quella attorno al falò, in cui viene iniziato alla marijuana (per girarla fumarono ben 155 spinelli), e comincia a blaterare... “Hai mai parlato coi rospi nel cuore della notte?”.... Ma all'alba il povero George viene ucciso a bastonate.
Tanto male va al personaggio, quanto bene all'interprete, che comincia a uscire dal cinema underground – o per meglio dire: il cinema che interpreta è sempre quello, ma che ora comincia a circolare anche nei cinema mainstream.
Purtroppo la pellicola immediatamente successiva è un dimenticabile flop di Vincent Minnelli con Barbra Streisand, “L'amica delle 5 e mezzo” (On a clear day you can see forever), per il quale aveva firmato prima di Easy Rider, che per fortuna non arresta la sua carriera. Fa parte della filmografia di quegli anni anche “Yellow 33” (Drive, he said): è la sua prima regia (seguiranno Verso il Sud, nel 78, e Il grande inganno – I due Jack, nel 90). Non è ahimè un film memorabile, e infatti è ora dimenticato dai più. Ma forse è meglio: se avesse scoperto di avere un talento maggiore avrebbe potuto mettere la recitazione in secondo piano, e invece ora esplode come interprete raffinato e con una cifra fortemente personale, un nevrotico che non imita i vari James Dean e Paul Newman, ma accentua il lato sardonico e inquietante di personaggi perdenti. Dopo un ventennio in cui gli attori hanno cercato di “liberare” il corpo, Nicholson riporta l'attenzione sul volto, lo sguardo, la voce.

Il film, bellissimo, tutto giocato di sottrazione, con cui per primo lo abbiamo conosciuto ed amato è “Cinque pezzi facili”, del 70, diretto da uno dei registi con cui Jack lavorerà meglio, Bob Rafelson. Scritto dall'amica Carol Eastman, è un film che con piccoli tocchi trasmette l'oppressione del protagonista, e il suo senso continuo di sradicamento e scontento. Nicholson lavora di cesello, e ottiene una nomination come miglior interprete per il ruolo di Bobby Dupea, un pianista che ha lasciato la ricca famiglia per vagabondare. Ora lavora nei pozzi di petrolio e vive con una squinzietta innamorata ma imbarazzante; un giorno torna a casa per un ultimo saluto al padre malato, ma il ritorno porterà un ulteriore senso di delusione e non appartenenza, e alla fine riprenderà la strada rassegnato, se così possiamo dire, a non rassegnarsi.
Il 71 è l'anno di un altro film epocale: “Conoscenza carnale”, diretto da Mike Nichols. Racconta 20 anni nella vita sessuale di due amici, dai tempi del college, in cui sono invaghiti della stessa donna, fino ai disillusi 40 anni. Il testo di Jules Feiffer è scritto per il teatro, e si sente. La qualità degli interpreti è fondamentale. Le “parolacce” all'epoca fecero scandalo (!), ma ancora oggi il film risulta onesto, vero, amaro, anche se, inevitabilmente, un po' datato. E forse l'ingenuità di base dei personaggi (la prima sega a 18 anni...) ce lo rende in qualche modo più simpatico. Di certo Nicholson lavora ancora benissimo nel suo personale equilibrio tra “mettere” e “levare” e ha un accordo perfetto col partner Art Garfunkel nei botta-e-risposta e nella gestione dei rispettivi ruoli di leader e spalla – dove il leader si mostra, alla fine, come il vero perdente.

1972. “Il re dei giardini di Marvin” (la traduzione è letterale proprio quando occorreva un ritocco: Marvin Gardens sta per Parco della Vittoria...). E' la storia di due fratelli: qui il partner è l'amico del cuore Bruce Dern e Nicholson interiorizza al massimo il proprio ruolo. Vederlo subito prima o subito dopo le sue interpretazioni più gigioneggianti (tipo il Nido del cuculo o Shining) è straniante. Il film è molto intimo, di studiata lentezza, e ovviamente piacque più in Europa che negli Stati Uniti, ma il carisma del suo protagonista ancora una volta non passò inosservato e gli regalò il successivo ruolo, uno dei più belli della sua carriera: quello di Badass Buddusky in “L'ultima Corvé” (The last detail) di Hal Ashby. Gli valse il premio a Cannes, e al fedele sceneggiatore Robert Towne una candidatura agli Oscar.
Il film, divertente e nel contempo profondamente amaro, racconta la giornata di due sottuficiali che devono scortare un compagno marinaio condannato per furto. Tra i tre, prevedibilmente, si instaurerà un rapporto cameratesco. La marina non apprezzò il modo in cui veniva descritta, ma pubblico e critica applaudirono questo gioiellino duro e scanzonato, dove Nicholson potè aprirsi di più come attore, variando dai mezzitoni a quelli più alti, curando i dettagli e trasmettendo un rude buonumore, tra malinconia e cinismo, che rimase un marchio di fabbrica nelle sue commedie più sofisticate

E siamo al 74 e a un ruolo memorabile: il detective Jack Gittes. Il film è lo splendido noir “Chinatown” di Roman Polanski – un altro amico: l'amicizia è il valore a cui tiene maggiormente Nicholson. Accanto a lui recita un mostro sacro, John Huston, che diverrà quasi suo suocero. La sceneggiatura, ça va sens dire, è di Towne. Il suo detective Gittes è freddo, ironico, non un simpatico ma retto, testardo, col senso del dovere. Una mezza tacca che si ritrova coinvolto in un caso più grande di lui, ma cocciutamente lo porta avanti fino alle più drammmatiche conseguenze, e che gli lascerà l'amaro in bocca dell'insuccesso. Un romantico, come romantico e chandleriano è tutto il film, non una semplice operazione nostalgia, ma un omaggio e una rivisitazione dell'hard boiled e del cinema, appunto, di John Huston. Pochi hanno sottolineato la somiglianza interpretativa tra Nicholson e Bogart: questo anche per merito di Jack, che sfugge a tutti i possibili tic e cliché e gli regala una profonda malinconia.
Di segno praticamente opposto è l'altra pellicola di quell'anno, la scanzonata commedia “Due uomini e una dote” (The fortune), in coppia con Warren Beatty. Tentativo non del tutto riuscito di riportare in vita le screwball comedy degli anni '30, funziona ancora una volta nel ping pong tra i due protagonisti (che nella vita reale erano spesso rivali/sodali in amore, scambiandosi le donne...), ma che eccezionalmente si fanno portar via la scena dalla protagonista femminile, la frizzante Stockard Channing. Nella carriera di Nicholson conta come prima volta in una commedia tutta da ridere, dove può lasciarsi andare a qualche istrionismo ben temperato, come farà poi dagli anni 90 in poi.

Il 75 si apre con una delle pellicole che Nicholson ama di più: in America il film è praticamente introvabile (o almeno lo era prima del digitale), ma lui ne ha salvato una copia da cui poi ha potuto produrre i master che ne hanno impedito la scomparsa. Si tratta di “Professione: Reporter” ( The passenger) di Michelangelo Antonioni. Il film è una sorta di spy-story ma coi ritmi tipici di Antonioni, che lo trasportano dall'ambito del noir a quello del film puramente autoriale e metaforico, dove la trama gialla si stempera in una lunga attesa (come era “L'avventura”). Nicholson interpreta tale David Locke che per puro caso, mentre si trova nel Sahara, assume l'identità di un'altra persona, un vicino di camera trovato morto, pur intuendo che questa scelta non lo allontanerà da un destino di morte, ma anzi lo condurrà dritto verso quella fine. Il soggetto, in bilico tra Pirandello e Le Carrè, ma gravido di diverse chiavi di lettura, pecca indubbiamente di intellettualismo, tuttavia la messa in scena è esteticamente ammaliante e l'attore dimostra di sapere uscire dalla “comfort zone” in cui stava accomodandosi per esplorare nuovi registri e livelli.
E infatti, dopo la parentesi del musical “Tommy” degli Who, in cui ha una breve parte, arriverà il ruolo della vita, che lo porterà nel clan delle star e in qualche modo lo marchierà per sempre: Randal P. McMurphy in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

L'interpretazione, eclatante ed eccitante, va volutamente sopra le righe ma senza cadere mai nel grottesco o nel gigioneggiamento e dona la vita a una pellicola mediocre e terribilmente convenzionale nel voler essere “rivoluzionaria”, depurando ogni visionarietà del testo originale per limitarsi ad accusare di oppressività le istituzioni (salvo regalarci improbabili siparietti comici come quello della gita in barca!). Ovviamente, viene sommerso di premi. Il più meritato dei quali è, naturalmente, quello per il grande Jack. Che da qui in avanti si divertirà a, alternativamente, smentire e assecondare le aspettative del pubblico che lo vorrebbe sempre Matto.
Dopo di allora interpreterà film del calibro di Missouri, Gli ultimi fuochi, Verso il Sud, Shining, L'onore dei Prizzi, Reds, Ironweed, Voglia di tenerezza, Codice d'onore, Batman, Heartburn, I due Jack, Tre giorni per la verità, La promessa, Qualcosa è cambiato, The departed.....: sarà cinico, romantico, buffo, crudele, inflessibile, addolorato, bastardo, disperato, disilluso, deplorevole. Darà interpretazioni riflessive, esagitate, simpatiche, equilibrate, emozionanti, sconvolgenti, sottili, eccessive, smorzate, esilaranti, irritanti, delicate... Perfette
Grazie, Jack. Buon compleanno.
Elena Aguzzi