Mi ricordo, Federico

19/01/2020

Ci sono opere che ti formano, nel gusto e nel modo di osservare il mondo. Per me lo è stato I vitelloni, un’opera emblematica del “primo Fellini”, quando il regista già coglieva a piene mani dai propri ricordi ma senza mettersi in campo troppo apertamente, un periodo che culminerà nel 1960 con La dolce vita.


Nato a Rimini il 20 gennaio 1920 da Urbano Fellini, rappresentante di commercio, e da Ida Barbiani, figlia di commercianti romani, il giovane Fellini parte per Roma nel 38 dove inizia a collaborare con varie testate, scrivere sketch per la radio e il varietà e conoscere attori ed autori, fino ad approdare al Marc’Aurelio. Comincia a scrivere sceneggiature (val la pena ricordare quelle per Aldo Fabrizi e Pietro Germi), sposa l’attrice Giulietta Masina – da cui non si separerà neanche in morte – e infine, nel 1950, fonda con la moglie, Alberto Lattuada e Carla del Poggio, una cooperativa con la quale produce e realizza il suo primo film, Luci del varietà. È del 52 il suo primo “vero” film, ossia girato da solo: Lo sceicco bianco. La storia di due sposini in viaggio di nozze a Roma, che vengono travolti dall’amore di lei per i fotoromanzi, fu accolta con simpatia ma anche qualche perplessità per l’ironia spinta quasi al limite del grottesco. Oggi il film risulta ancora acerbo, ma già indirizzato stilisticamente, ed è stato fonte di omaggi da parte di altri registi (come non ricordare Woody Allen?) e di “ripescaggio” dallo stesso Fellini, che riprenderà spesso figure e movimenti presenti fin da allora. Il successo arriva l’anno seguente alla Mostra di Venezia col citato I vitelloni. Una commedia crepuscolare attorno a un gruppo di amici perdigiorno (“vitelloni” diverrà il primo neologismo felliniano adottato dalla lingua italiana). La distribuzione non fu facile, ma il disegno di queste voci di provincia, il bozzettismo autobiografico miscelato con una certa aurea fiabesca, la divertita malinconia diverranno un caposaldo della commedia italiana e non solo.
Dopo un episodio (“Agenzia matrimoniale”) per il film collettivo L’amore in città, Fellini, nel 55, presenta il film che lo consacrerà anche in America, La strada. Rifiutato dal primo produttore (che non voleva la Masina protagonista!), il progetto incontra per fortuna Carlo Ponti, che attorno a Giulietta apparecchia un cast internazionale, che miracolosamente non pesa però sulla pellicola: anzi lo Zampanò di Anthony Quinn (doppiato da Arnoldo Foà) diviene memorabile, e forse il miglior ruolo dell’attore. Poetico, fantastico e triste come un clown, il film è più di un toccante ritratto di una donna ingenua o il picaresco racconto di artisti di strada: come scrissero su i Cahiers du cinema, “La strada appartiene alla classe delle opere mitologiche”, geniale nello stile, nel sentimento, nella scrittura.
Tanto La strada è ancor oggi additato come uno dei film italiani meglio riusciti della storia (nel 56 vinse meritatamente l’oscar come miglior film straniero), quanto l’opera successiva resta una delle pellicole felliniane più sottovalutate. Si tratta de Il bidone. Forse perché in questo film “di genere” (storia di delinquenti troppo vili per essere violenti, di bidonisti scalcinati, “vitelloni della truffa”, come ben scrive Claudio G. Fava) FF si tiene lontano da visionarietà e barocchismi per dedicarsi ad un’osservazione minuta e realistica di questo gruppo di falliti. Sulla carta sembrò anche sbagliato scegliere un professionista americano, Broderick Crawford, per interpretare un personaggio italiano, invece l’attore diede una coloritura perfetta al suo Augusto, ed è uno degli elementi maggiormente apprezzabili del film: il finale è memorabile anche grazie alla sua interpretazione. Giulietta Masina appare anche ne Il bidone, ma ha un film tutto per sé nel successivo Le notti di Cabiria, del 57. È il ritratto di una prostituta candida e fragile (faceva già una piccola apparizione ne Lo sceicco bianco….), che crede di poter cambiare la propria vita grazie all’amore…  Impossibile distinguere il film dal personaggio e dalla sua interprete. Stilisticamente è forse uno dei più indecisi, ma ancora una volta il puntuale realismo (nei dialoghi romaneschi ci mette lo zampino un certo Pasolini…) si mescola con l’atmosfera fiabesca, come se tutto ciò che vediamo fosse con gli occhi della stessa Cabiria. Inutile dire che gran parte delle cinematografia alleniana è ispirata da questo film.

Inimitabile, invece, è il film che esce nelle sale, con gran clamore, nel 1960: La dolce vita. Raramente l’ aggettivo “capolavoro” viene usato a proposito: questo è uno dei casi in cui calza a pennello. Che si può ancora scrivere di questo film iconico? Sfrenato, caustico, malinconico, buffo, disperato, sincero, flamboyant,  desolante, è un ritratto di costume iperrealista, dove la frenesia di vivere è attraversata da un angosciante senso di totale vuoto. La dolce vita è però anche un film di non ritorno, per la cinematografia, forse per la società, senz’altro per Fellini stesso, che da allora abbandona ogni parvenza di realismo e si butta a capofitto nella fantasia, narrativa e figurativa. Se La dolce vita fa da spartiacque tra il primo e il secondo periodo creativo del regista romagnolo, l’episodio “Le tentazioni del dottor Antonio”, per il film Boccaccio 70, segna in maniera eclatante l’ingresso del cinema felliniano in un mondo onirico spesso angosciante.
Nel 63 esce un’altra pietra miliare della storia del cinema, Otto e mezzo. Nel quale Fellini si denuda e, attraverso l’alter ego Marcello Mastroianni/Guido Anselmi, racconta i propri sogni, l’infanzia, la professione, le amanti, la crisi creativa, i sensi di colpa. Ambientato nel magico, e da allora iconico, mondo delle terme, è un film fiume, onirico, verboso, ombelicale, irritante, favoloso, affascinante, discontinuo, visionario, barocco, “meraviglioso”. Un film definitivo, potrebbe sembrare, e difatti le pellicole seguenti sembrano un po’ esercizi di stile sempre più fiorito e barocco e sempre meno sostanza, dove anche i risultati migliori hanno un po’ il sapore di atti solipsistici in cui alla fine continua a rifare se stesso: Giulietta degli spiriti (65), l’episodio Toby Dammit di Tre passi nel delirio, Fellini-Satyricon (69), I clowns (70). Roma, del 72,  nel quale rievoca il proprio arrivo nella città eterna e l’impressione che questa gli fece, sembra in parte rientrare in questo cinema che guarda a se stesso, ma l’elemento autobiografico frena la tentazione di “strafare”(pur non rinunciando a una cupa vena grottesca) e riporta all’opera felliniana quella vena di divertita nostalgia che la vivifica, e anticipa il grande successo dell’anno seguente.

Amarcord, trascrizione fonetica di un romagnolo “mi ricordo”, è un film talmente intimo e personale da diventare universale. Le sequenze di Roma ambientate a scuola sembrano una prova generale di quest’operina magica che gioca con ricordi e visioni, come quello zio matto in cima a un albero che invoca “voglio una donna!”. Sebbene coi toni leggeri della commedia un po’ stralunata, la malinconia pervade tutto il succedersi delle stagioni, il passare del Rex e della Gradisca, l’oltrepassare la linea d’ombra. Ecco dunque I vitelloni- Roma- Amarcord legarsi nello stesso filo rosso: cosa sarebbe stato di Federico se non fosse partito? Ma Federico/Moraldo ce l’ha fatta a prendere quel treno per Firenze e poi per Roma, ed è qui a raccontarcelo, attraverso le vicissitudini di Titta. Non mancheranno ancora film “meravigliosi” nella filmografia felliniana, a partire dal seguente Casanova di Federico Fellini  (come per il Satyricon, il nome del regista nel titolo, a certificare che è la sua visione del personaggio), ma l’equilibrio tra divertimento e tristezza, tra ricordo e fantasia, tra racconto e bozzetto, tra realismo e magia raggiunto da Amarcord non verrà più superato.
Non lo sarà certo nel fiacco e metaforico Prova d’orchestra o nel passo falso de La città delle donne, con le ossessioni già esplorate in Otto e mezzo che ritornano confusamente: un film troppo a lungo sognato e in cui ha riversato troppa roba, come se fosse il suo (ennesimo…) film testamento. Le pause tra un film e l’altro si fanno sempre più lunghe (mediamente tre anni), l’autore sembra conscio di essere diventato ormai una leggenda, col perenne rischio di autocitarsi. Dopo l’immaginifico E la nave va (83), Fellini torna all’intimità dei ricordi ed omaggi: con Ginger e Fred (85) versa una lacrimuccia sorridente per il varietà, e lo fa avvalendosi dei suoi due interpreti-feticcio, Mastroianni e Masina, in un’opera “minore” ma che è una bellissima dichiarazione d’amore, e ne L’intervista (87), ben fatto ma in fondo inutile, poiché non aggiunge nulla a quanto ci ha già detto e che non è altro che un’autoincensazione, seppur ironica (e vuoi vedere che il protagonista, Sergio Rubini, è stato scelto per il cognome uguale a quello del protagonista de La dolce vita?). Infine, nel 90, chiude la filmografia col film più desolato, amaro, funereo (nonostante la disordinata inventiva visionaria) film della sua carriera, La voce della luna, dove il tono picaresco è smorzato dalla ricerca del silenzio.

Elena Aguzzi