John Frusciante e il suo Karma

11/08/2020

5 marzo 1970.A Queens, quartiere di New York, nasce John Frusciante, chitarrista, in fuga dal mondo e da se stesso.
1989, 1998, 2020. Sono gli anni probabilmente più importanti della sua vita e del suo legame più viscerale: i Red Hot Chili Peppers. Rappresentano infatti le uscite dal gruppo di Frusciante.
Ora che è tornato, a lui va l’augurio più sincero insieme all’auspicio che continui a dilettarci con il suo sound che prende vita da dentro come per incanto. Moderna poesia come se a suonare fossero l’uomo e la chitarra, un unicum indistinguibile che scorre nelle vene con il suo carico di emozioni. Verve alternativa, personalità tormentata ma un grande talento. I suoi polpastrelli toccano le corde della chitarra vintage dolcemente, come una magia che si ripete, sferzandola quando serve.
La chitarra come karma, alchimia e redenzione da un mondo che non gli appartiene, quello della vita, paradossalmente. Allergico al jet set ed al music business; Frusciante è un artista e prima del denaro e della celebrità esige il meglio da sé.

Insieme a Kurt Cobain è diventato un’icona entrando prepotentemente con la forza della sua musica nell’immaginario collettivo, nel gotha dei chitarristi. The only one. Inutile paragonarlo a mostri sacri quali Jimi Hendrix, John Mayer e Derek Trucks. John è John, con tutto ciò che ne consegue, una stella comunque luminosa nel buio dell’umano recondito quando ci diletta con il suo funk.
Le sue melodie, gli assoli di chitarra lo rendono assoluto protagonista della scena, moderno istrione, lasciano senza fiato in un susseguirsi di flash, forti, psichedelici che sembrano riportare in un mondo irreale.

Devoto seguace dell’arte sonora, John ha fatto di essa una ragione di vita, quella stessa per lungo tempo tormentata che lo ha portato, quasi fosse un’alchimia, a mescolare droga e depressione, spingendosi in avventure al limite, moderno Syd Barret. Frequenti nei suoi testi elogi alla morte fino ad affermare che il desiderio di essa è ciò che lo tiene in vita. Apparentemente paradossale, non per John, le cui azioni, artistiche e personali, hanno sempre, in fondo, un senso di razionale follia che coglie nel segno e ti spiazza.

L’evoluzione dei Red Hot Chili Peppers, di cui era fan, (vide il loro primo concerto nel 1985), va di pari passo con quella di John, fino alla completa trasformazione.

La collaborazione con il gruppo californiano, dicevamo, inizia nel 1989, ad appena 19 anni e prosegue fino al 1992, quando abbandona il gruppo per motivi di droga che già precedentemente aveva sconvolto la band, a cominciare dalla morte di Hillel Slovak, cui era molto legato. I contrasti con il leader, Anthony Kiedis, fanno il resto.

In realtà, John era già stanco della ribalta, di tutte le sue pressioni e della immensa ipocrisia e futilità che da essa scaturiva. Accomiatandosi disse “dite a tutti che sono impazzito…”.
Si chiude in se stesso condizionato anche dalla sua misantropia e dalla depressione, causata dalla morte del suo grande amico, l’attore River Phoenix che gli impediscono di sorridere alla vita.
Trascorre le sue giornate nella più completa solitudine, a scrivere pezzi circondato dai suoi eroi, in primis Leonardo da Vinci e David Bowie continuando, tuttavia, a fare un uso sempre maggiore di droghe, l’unica via che riesce a concepire per isolarsi dal resto del mondo. Le sue braccia sono la cartina di tornasole di ciò che sta vivendo e provando in quegli attimi che sembrano non avere mai fine. Sono otto le overdose che lo colpiscono in questo che, senza tema di smentite, può essere considerato il periodo più critico della sua giovane esistenza. Riesce sempre a rialzarsi. A testa alta.

Finalmente, nel gennaio del 1998, si convince a seguire un programma di disintossicazione. Due mesi dopo fu invitato a tornare nella band. Accetta e, una settimana dopo, si riunisce ai Red Hot in un garage. Analogamente a quando vi era entrato, quasi per caso, notato durante una jam session da Michael “Flea” Balzary, bassista del gruppo che rimase esterrefatto dalle sue capacità.
Questo è John Frusciante, eroe noir del nostro tempo, non c’è che dire. La sua forte personalità, il carisma che emana, inducono lo scrittore bolognese, Enrico Brizzi ad intitolare il suo libro “Jack (in realtà John) Frusciante è uscito dal gruppo”, al fine di sottolineare un concetto chiave: uscire dagli schemi sociali, dalla consuetudine e fare un salto oltre il cerchio metaforico della quotidianità.
Rientrò in gruppo nel 1998, offrendo il suo immenso contributo agli album Californication (1999), tra i più raffinati della band di Los Angeles, By the Way (2002) e Stadium Arcadium (2006).
Nel 2009 la definitiva quanto irreversibile uscita per dedicarsi a lavori da solista, perseguire la sua strada, “per fare ciò che doveva.”

Artista ed uomo poliedrico, ha comunque lasciato e continuerà a lasciare una traccia assolutamente personale nel panorama musicale, unica come poche, come la sua personalità ed i contrasti con il suo io più intimo da cui ha tratto la forza di reagire e di regalarci ancora fantastiche emozioni in note.

La vita non è stata certamente clemente con lui, non la sentiva sua, non voleva viverla e ad essa si è ribellato masochisticamente. Ha pagato il prezzo del successo forse, pur avendolo sempre aberrato.
I segni della tossicodipendenza ancora evidenti sulla pelle, a futura memoria di ciò che è stato e da cui è riuscito a venir fuori restituendosi all’esistenza e riconsegnando a tutti i suoi fan la sua parte migliore, la musica.
Essa, infatti, ha rappresentato per John un’ancora, un punto fermo da cui ripartire, unitamente alla forza di volontà. Fulgida dimostrazione che ogni nemico, anche il più subdolo e mendace come l’eroina, può essere combattuto e tornare alla vita più forti di prima. Senza mai abiurare ciò che si è stati, specchio e bagaglio della propria vita da non dimenticare mai per chiunque e niente al mondo. Ora la nuova avventura che, siamo certi, saprà regalarci nuove emozioni, con una maturità in più e con un vissuto dal quale attingere senza paure. Auguri, John. 

Nuccio Franco