In una crisi di creatività che perdura ormai da parecchio tempo, la reazione dell’industria cinematografica contemporanea è stata alquanto deludente. Il mercato è settorializzato sulle mode, incapace di dialogare come si deve con i nuovi giganti dell’intrattenimento online che stanno mangiando tutto; divorato dalla necessità di assicurarsi un incasso prima ancora che il prodotto di turno venga effettivamente dato in pasto al pubblico, e il fallimento non è concesso. L’appiattimento verso il basso dell’offerta genera un’omologazione del gusto verso la mediocrità. Conseguentemente, film godibilissimi anche per le masse, che però sottendono a una sostanza ricercata, vengono etichettati come roba da intellettuali radical chic. A farne le spese in maniera accentuata è il cinema di genere, ovvero quel tipo di cinema che per molto tempo (e da parte di alcuni puristi snob ancora oggi) è stato considerato “di serie B” rispetto al cinema d’autore. Una differenza che ogni volta riporta il dibattito attorno al cinema indietro di cent’anni.
A causa del loro essere anzitutto intrattenimento, generi come l’horror e la fantascienza si trovano, dinnanzi alla considerazione generale, in una posizione tremenda per cui la giocosità offerta non è più fonte di interesse per gli spettatori; mentre la loro componente più profonda non può emergere, soffocata da una scarsa fiducia della grande distribuzione (non è un caso che molti si buttino sull’indipendente, per trovare qualcosa che possa uscire dai soliti canoni). Autori come Fulci, Carpenter, Romero, che un tempo avevano come unica preoccupazione quella di aggirare la censura, quale spazio troverebbero oggi, in un ambiente fagocitato dai nomi enormi, dagli oligopoli, e dalla poca voglia di vedere qualcosa di diverso? Come si può reagire in un contesto dove non sono più le correnti artistiche, la ricerca di uno stile particolare o una cura dei dettagli, bensì le tendenze e l’assecondamento dei desideri del pubblico a fare la differenza?
Alcuni ce la fanno, e Jordan Peele è senz’altro uno di questi.
Il regista newyorchese classe ’79 ha all’attivo solo due film come regista, e già si conquista di diritto un ruolo tra i protagonisti della settima arte del nostro tempo. Forte di una collaborazione riuscitissima con Keegan-Michael Key nella serie a sketch comici Kay and Peele, che ha riscosso enormi favori sia su YouTube che su Comedy Central, Peele si rivela un grande creatore di pellicole horror, dimostrando di essere capace di spaziare liberamente in atmosfere diverse, come solo chi ha talento sa fare.
Scappa – Get Out (2017, vincitore del Premio Oscar 2018 per la Miglior Sceneggiatura Originale) e Noi (2019), sono due dei prodotti più interessanti del cinema americano mainstream odierno.
Nel primo, salta immediatamente all’occhio la questione del razzismo negli Stati Uniti. Il protagonista Chris (Daniel Kaluuya), conosce la famiglia bianca della fidanzata Rose (Allison Williams), la cui accoglienza giovale e calorosa è contrapposta a dei dettagli ambientali e comportamentali che sbigottiscono e creano tensione. Il tutto dà vita a un crescendo e a una ricomposizione del puzzle a dir poco inquietante.
Nella pellicola successiva (che purtroppo perde il doppio significato nella traduzione italiana nel titolo, in quanto Us vuol dire “Noi”, ma sta anche per “U.S.”, ossia “United States”), la questione sociale rimane, ma devia dall’argomento della razza, seppur rimanga chiara all’interno di un prodotto dove il punto di vista principale è quello di una famiglia di afroamericani. Adelaide (Lupita Nyong’o) va ad alloggiare con la famiglia in una residenza estiva nella cittadina balneare di Santa Cruz, in California: lo stesso luogo in cui da giovane ha subito un trauma per essersi persa nella stanza degli specchi del luna park locale e aver trovato una bambina esattamente uguale a lei. Durante la notte, la loro casa viene invasa da quattro esseri identici a loro, vestiti di rosso e armati di forbici (e pessime intenzioni), destino che man mano ci accorgeremo essere comune a chiunque.
Come primo fattore va considerata l’abilità di Peele nel manovrare diversi sottogeneri dell’horror, sbagliando raramente colpi (si va dall’house invasion, alla body exploitation, a una nota ironica tipica dell’horror comedy con un tocco di slasher). Tutto ciò rende evidente che a fare la differenza non è il genere che si vuole trattare, ma l’attenzione posta nel fornire a ogni prodotto un’aura personale. È ciò che crea uno stile identificabile.
Come naturale effetto di questo, i due film del regista seguono dei fili logici e degli stilemi che li connettono. Entrambi i protagonisti subiscono un trauma durante la loro infanzia: Chris soffre la morte della madre per un incidente stradale, Adelaide trova la bambina. Questo può suggerire facilmente l’idea della persistenza nel tempo di un’abominazione sofferta in passato (dal dramma personale al dramma politico). C’è un viaggio che allontana i protagonisti da una propria comfort zone per inserirli in un contesto ostile, quasi sempre immerso in un microcosmo lontano dagli agglomerati urbani, da sempre feticcio dell’orrore letterario statunitense (la wilderness, la parte selvaggia del paese sede dei pellerossa e dell’ignoto, quindi del male), in particolar modo per gli afroamericani nel loro delicato rapporto storico con la campagna. Ci si allontana dai soliti trucchi del cinema horror facendo leva più volte su un’ambientazione illuminata, riprese diurne, o luoghi con spazi ampi; la musica balza da melodie inquietanti, create col susseguirsi di singole note spesso molto acute, fino all’utilizzo di canzoni contemporanee di autori afroamericani famosissimi. Get Out si apre con “Redbone” di Childish Gambino, e nessuno riuscirà mai a togliermi dalla mente la meravigliosa scena in Noi dove nella casa dei Tyler, i vicini di villeggiatura bianchi altolocati, ha luogo una mattanza con in sottofondo “Fuck da Police” degli N.W.A., capace di creare un contrasto coinvolgente come avevo visto fare solo da Dario Argento in Profondo Rosso nella scena dell’arrivo del bambolotto automatizzato. Tutti questi elementi sono funzionali alla creazione di un universo e di uno stile che diviene tipico di quel regista, che gli fornisce di diritto la nomina di “autore”.
È inoltre necessario citare le inquadrature piene di dettagli simbolici, insieme alle combinazioni di luci e primi piani capaci di deformare i volti degli attori, che dona un retrogusto espressionista al tutto. In questo sono di grande aiuto i colori saturati che trasportano il pubblico in una dimensione infernale.
Se c’è una cosa che Peele riesce a fare perfettamente è giocare con i visi e ridare centralità ai corpi dei personaggi. Get Out è un’analisi tagliagole su come il razzismo abbia degli strascichi nella cultura americana di oggi, dove l’accettazione dell’esistenza fisica dell’altro non combacia con un’accettazione del suo desiderio di vivere autonomamente e in completa indipendenza. Il nero va assorbito e asservito. Laddove non è più possibile farlo con le catene nei campi di cotone, lo si fa nella mente e nello spirito, portando conseguentemente a un moderno dominio della corporalità (il tutto per un tornaconto personale figlio della più bieca eugenetica).
“Noi” ci sbatte in faccia l’esistenza di un sottosuolo dove dei disgraziati vengono ammassati per poterci permettere di continuare con la nostra bella vita di consumi e sfruttamento, coniando una nuova versione politica di uno degli archetipi più usati nella storia della letteratura, il doppelgänger.
In entrambi i casi, è il corpo a fungere da tramite. La gestualità; i sorrisi macabri; il sottinteso derivato da uno sguardo; le rughe di espressione sempre accentuate; i movimenti a scatti, tutto rimanda a una concezione della fisicità come mezzo per giungere al significato, e rappresenta la sopraffazione dell’altro in funzione di esso. Sia a livello tecnico che contenutistico, Peele riporta dignità al filone del body horror, stravolgendolo completamente. Non è un caso che due dei film che più lo hanno segnato siano La Mosca (1987) di David Cronenberg e Candyman – Il terrore dietro lo specchio (1992) di Bernard Rose (di cui sta curando la sceneggiatura per un reboot in uscita quest’estate, diretto da Nia DaCosta).
Così abbiamo il personaggio di Missy (Catherine Keener), la madre di Rose in Get Out, che usa le sue conoscenze da ipnoterapista per mandare Chris in trance in un mondo sommerso del suo inconscio, che gli provoca impossibilità nel muoversi. Il fratello di Rose, Jeremy (Caleb Landry Jones) preme sulla prestanza fisica di Chris derivata da una supposta superiorità dei geni della sua razza in quel campo. In Noi, dove i doppioni assassini replicano perfettamente le caratteristiche delle persone a cui sono accomunati, il “clone” dell’amica bianca Kitty Tyler (Elisabeth Moss), guarda la protagonista Adelaide inerme a terra e si recide le guance con fare jokeriano per allargare il proprio sorriso da reginetta di bellezza. In una scena precedente la Kitty originale aveva menzionato l’intenzione di sottoporsi a una chirurgia plastica, mostrandosi invidiosa della bellezza della stessa Adelaide.
La psicologia e la dualità danzano in un continuo scambio tra dimensione privata e pubblica. “Siamo Americani”, risponde il doppio di Adelaide, quando le viene chiesto “Chi siete?”
Domande semplici come questa riceveranno sempre una risposta inaspettata. Le due pellicole di Peele offrono un uso oserei dire terroristico del colpo di scena, che stravolge completamente ciò che sapevamo fino a un attimo prima. La verità equivale a uno schiaffo in faccia allo spettatore, che si trova spaesato grazie alla validità del film di per sé, che quindi non dipende da nessun plot twist. Ciò anche a rischio di creare dubbi a livello di coerenza all’interno del mondo creato, come nel caso di Noi, dove l’esagerato spiattellamento di una serie di “norme” che regolerebbero l’esistenza dei doppioni, provoca nello spettatore una naturale sequela di domande a cui non può trovare risposta.
Jordan Peele è fondamentale perché in questo senso è uno scossone al mainstream made in USA. È già riuscito a ritagliarsi un proprio spazio, dando vita a una forma caratteristica e riconoscibile; una cura maniacale per i simboli e la messa in scena; una critica sociale mai banale, pregna di riferimenti e dettagli che scavano nell’animo umano senza togliere di mezzo l’orrido che viene dall’ambiente circostante. Sta riutilizzando il body horror in un contesto da ventunesimo secolo, in un mondo che sembra aver dimenticato le contraddizioni del consumismo, abbagliato da una parvenza più liberal. Speriamo che Hollywood non se ne dimentichi presto.