L’esistenzialismo magico di Guillermo Del Toro

14/10/2020

Netflix ha annunciato l’uscita per il 2021 del “Pinocchio” diretto da Guillermo Del Toro, un musical realizzato in stop-motion che fomenta l’attesa e rende le aspettative molto alte. Questo perché spaziare tra generi diversi con atmosfere diametralmente opposte non è facile. A maggior ragione, non è semplice lasciare un’impronta che colleghi tutte le proprie opere, rendendosi riconoscibili.
Senza una maniacale dedizione al lavoro, si rischia di cadere nei cliché e nell’anonimato, ma il regista di Guadalajara è sempre riuscito a porre una traccia di autorialità nel suo operato, inequivocabilmente costellato da elementi convenzionali e tradizionali. Come ha dichiarato egli stesso in un’intervista del 2013, “non ho mai fatto nulla per i soldi o la carriera, c’è sempre stato di mezzo il fatto che mi sarei anche tagliato una mano per finire un film, non importa che tipo di film.”
L’altalena tra il fantasy storico, l’horror gotico, i cinecomic e la fantascienza d’azione, è caratteristica del modo di lavorare di Guillermo Del Toro. Se vogliamo allargare il campo della proprietà intellettuale di un film anche alla produzione, allora ci rendiamo conto che l’unico tratto veramente distintivo della filosofia cinematografica del messicano è la diversità più completa (Del Toro ha prodotto svariati film d’animazione della DreamWorks, passando per Scary Stories to Tell in the Dark e Le Streghe di Zemeckis, in uscita il 22 ottobre). Ripercorriamo qui le caratteristiche più ricorrenti del suo cinema attraverso le pellicole che meglio rappresentano le colonne portanti della sua arte.

La storia biografica di Del Toro, soprattutto nel periodo della sua infanzia (entra in contatto col mondo del cinema sin da piccolissimo), nasconde tutti gli indizi che lo avrebbero portato all’estetica sviluppata negli anni. Sin da ragazzino, cresciuto da una nonna fervente cattolica, assorbe tutte le influenze del mondo delle fiabe e degli episodi biblici, anche quelli più cruenti. Alla televisione messicana mandano i classici dei Mostri della Universal, e durante l’adolescenza entra in contatto sia con la prima fase della Nuova Hollywood e l’esplosione di film come “Taxi Driver”, che parlano di temi sociali affrontati in maniera completamente nuova, sia con l’opera surrealista di Luis Buñuel.
Questa formazione sarà il pilastro dell’estetica dei film di Del Toro. Le sue opere risultano essere di grande impatto, soprattutto grazie alla decisione del regista di attenersi a un meticoloso lavoro basato sul trucco e sugli effetti analogici. La computer grafica è usata solo quando serve, e l’artigianalità del risultato finale rende il tutto straordinariamente credibile.
Gli esempi più evidenti sono il fantasma de “La spina del diavolo” (2001), il Fauno de “Il labirinto del Fauno” (2006), il mostro della Laguna de “La forma dell’acqua” (2017, Premio Oscar a Miglior Film), i volti e l’ambientazione vittoriana di “Crimson Peak” (2015).
Anche nei riuscitissimi “Blade II” (2002) e “HellBoy” (2004), a cui seguiranno “HellBoy – The Golden Army” nel 2008, e “Pacific Rim” (2013), Del Toro realizza un mondo perfetto e singolare, sebbene si tratti di storie di puro intrattenimento.

Le qualità tecniche di Del Toro, sempre forte di una regia pulita e di un uso della fotografia inverosimilmente potente, gli consentono di ribaltare costantemente i canoni del genere. I suoi film non si basano tanto sulla novità o l’efficacia delle trame, che a volte possono risultare banali.
Il valore delle opere del regista sta principalmente nel distacco dagli elementi stereotipici. L’horror gotico presente in “Crimson Peak”, ad esempio, ti immerge in una piena atmosfera ottocentesca, senza però abusare degli ambienti cupi, del buio, della desaturazione dei colori o del paranormale. I fantasmi, come in “La spina del diavolo”, sono un pretesto per migliorare l’attrattività dell’ambiente e della favola narrata. “Crimson Peak” è una festa di pigmenti e contrasti. Le costruzioni degli ambienti (anch’essi reali e mai riprodotti in un set) immergono il pubblico in una dimensione verosimile, che va oltre ciò che si sta raccontando.
Sebbene permeati da un’atmosfera costantemente “classica”, per l’utilizzo di archetipi narrativi ormai ben familiari, Del Toro contestualizza perennemente ciò che racconta, rifiutando qualsiasi stereotipo stilistico. Un altro esempio è “Pacific Rim”, blockbuster di fantascienza dove la presenza dei mecha e dei Kaiju (i tradizionali robot da combattimento e i mostri marini umanoidi à la Godzilla, protagonisti della tradizione del cinema d’intrattenimento giapponese), diviene una scusa per raccontare un’umanità la quale, mossa da un’enorme minaccia, si unisce per fronteggiarla e guadagnarsi la sopravvivenza. A tal proposito è essenziale la prima scena, dove si vede la costruzione dei robot da parte di moltissimi meccanici e strateghi provenienti da ogni parte del globo. Questo conferisce spessore ai suddetti robot, poiché li riporta alla loro dimensione di ferro e bulloni, mentre il fatto che essi debbano essere guidati da due persone attraverso una connessione neurale annulla ogni tipo di individualismo. Molti altri film di fantascienza d’azione, invece, usano i robot quasi come entità sovrannaturali, guidati da eroi senza macchia.

Al di là della componente estetica (i film di Del Toro potrebbero essere ammirati anche solo per questo, fermando il film in un punto a caso e lasciando godere lo sguardo per qualche minuto), il cuore dei suoi film è la costante fusione tra finzione e realtà, perennemente in simbiosi.
Del Toro pone gli elementi orrorifici e fantastici al servizio di una storia che si inserisce in un contesto storico ben preciso. Il regista spazia liberamente, connettendo il mondo surreale e immaginifico a un contesto e a un’ambientazione umana delineata. Il sottile schermo tra realtà e magia (che ricorda il modo di fare di Lynch o Fellini) non ci dipinge una realtà ulteriore in cui rifugiarci, completamente al di fuori dell’universo, a cui gli stilemi stereotipati del fantasy ormai ci hanno abituato, bensì crea un portale nel mondo reale, lasciando sottintendere che le azioni umane hanno conseguenze che non possiamo controllare. Non avrete mondi di elfi o vallate con nomi che finiscono per consonante, ma creature che vivono nascoste nei monti spagnoli.
Del Toro riporta il cinema alla sua primaria funzione: abbellire la realtà con elementi di finzione, i quali però raccontano la realtà umana stessa.
Pilastro di tutto questo sono, difatti, i mostri. Nelle opere di Del Toro, le creature sono raramente i cattivi della situazione. Essi derivano costantemente dalla tradizione folkloristica, cinematografica e letteraria (Lovecraft impera nelle pellicole dell’orrore del Nostro), e creano sempre un legame forte con i protagonisti positivi dell’opera, accomunati da un senso di esclusione e marginalità. Ci sono sempre degli outsider o dei reietti a manovrare gli schemi. I veri antagonisti dei film sono coloro che hanno potere, troppo impegnati a crogiolarsi nella loro superiorità per capire cosa sta accadendo. I potenti non vedono gli altri poiché li ignorano, ritenendoli non meritevoli del loro tempo e non concependoli come esseri valorosi. È approfittando di questa disattenzione spocchiosa che gli emarginati possono compiere il loro atto di resistenza.

Questo filone più “politico” della sua filosofia esplode nel 2001, quando Pedro Almodovar, finanziando la realizzazione de “La spina del diavolo”, lo salva dai rapporti infernali con i produttori americani (dovuti alla loro eccessiva interferenza nella lavorazione dei suoi primi lavori, “Cronos” del 1993 e “Mimic” del 1997, che ne condizionarono i finali e la riuscita complessiva).
In una Spagna trafitta dalla guerra civile, dove il caldo traspare dall’illuminazione e dalla fotografia eccelsa (anche nelle scene notturne), la storia è quella di Carlos, bambino figlio di repubblicani lasciato in un orfanotrofio per essere protetto dalle avanzate franchiste. In questo orfanotrofio aleggia il fantasma di un altro bambino, Santi, morto in circostanze misteriose. Al centro della struttura si staglia una bomba inesplosa incastrata nel terreno, caduta il giorno stesso in cui Santi morì. L’antimilitarismo di Del Toro ci dipinge le conseguenze della guerra, che permane nel dolore provocato dagli oggetti bellici e dalle ideologie folli che la fomentano. Il film stesso afferma che un fantasma è “un evento terribile condannato a ripetersi all’infinito”, con riferimento chiaro alla violenza umana che permane nei secoli. Anche qui gli elementi dell’orrore non sono altro che il simbolo di una guerra che si protrae anche laddove non viene vista.


Più tardi, nel 2006, Del Toro ristabilisce la propria fascinazione con la storia della Spagna negli anni ’30. “Il Labirinto del Fauno” tratta di Ofelia, una bambina costretta ad andare dal patrigno, gerarca franchista, il quale ha chiamato a sé la madre pretendendo di assistere al parto del secondo figlio. Ofelia soffre la presenza del padre e l’ambiente intorno a sé, rifugiandosi quindi in mondi di fantasia. Questi mondi magici, però, si sovrappongono al reale. Una sera, Ofelia incontra un Fauno, il quale svelerà che lei dovrà prendere il posto della principessa Moana, per riunire il mondo sotterraneo con quello in superficie.
Dominato da simbolismo cattolico e dal folklore, già presenti in “La spina del diavolo”, il confine labile tra visibile e invisibile ci porta nuovamente a vedere con occhi distaccati il modo di agire umano, l’amore in tutte le sue gradazioni e la violenza che, sempiterna, domina la storia dell’uomo. L’archetipo del viaggio dell’eroe che supera delle prove per arrivare a un traguardo è investito da elementi nuovi, calati nella repressione fascista e nella ricerca della fantasia come evasione dal vero orrore della realtà quotidiana.

“La forma dell’acqua” è forse il film che riassume meglio tutte le caratteristiche dell’autore. La presenza del mostro, ricalcato in tutto e per tutto da “Il mostro della laguna nera” di Jack Arnold del 1954, ci proietta in un mondo pregno di esclusi. Considerato un dio in Sudamerica, la creatura viene rapita da degli scienziati americani che vogliono sfruttare il suo potenziale nella Guerra Fredda. Tutti si preparano a sopprimerlo appena possibile. L’avvicinamento con una donna delle pulizie muta, Elisa, innescherà gli eventi della narrazione, e la nascita di sentimenti fuori dal normale. Conscia di ciò che vuol dire essere tagliati fuori, Elisa non vede nell’estraneo abominio un nemico, ma qualcuno (qualcosa?) che la comprende.
La comunicazione diviene fondamentale. I diversi modi che i personaggi trovano per scambiarsi informazioni, costretti dalla barriera del mutismo di Elisa, ci fa comprendere le diverse possibilità che gli umani hanno per connettersi spiritualmente. “Se non facciamo niente, non siamo niente”, risponderà con la lingua dei segni Elisa al suo coinquilino, disilluso dalla vita e perciò pessimista riguardo il destino della creatura.
Nel film, coloro che detengono il potere sono coloro che meglio si calano nel contesto delle discriminazioni e dei soprusi dell’America per bene, che sotto il lustro dei sorrisi e l’eleganza nasconde un sottosuolo che schiaccia chi non è conforme. Persone abituate a catalogare il prossimo a seconda di alcune caratteristiche esteriori, come il lavoro che fanno o le loro inclinazioni sessuali. La retorica dell’accettazione del diverso diventa quindi strumento per veicolare un messaggio di superamento degli schemi mentali e di condizione esistenziale dove sono unicamente le nostre azioni a definirci, non il nostro status.

Il realismo magico e le favole anticonvenzionali di Del Toro usano ciò che più di diverso c’è dall’uomo per aprire una porta alla possibilità di concepire anche una dimensione che è parte integrante della nostra quotidianità, per quanto invisibile. È solo attraverso l’inusuale e le relazioni con gli anacoreti che possiamo concepire il nostro ruolo nel mondo e farci carico della storia.

Edoardo Cappelli