Il ritorno di Mickey Rourke: The Motorcycle Boy reigns

03/03/2009

Mickey Rourke è tornato. Come Randy “The Ram” sulla scena del wrestling, dando la sua anima e le sue cicatrici ad un personaggio che sembra essere la summa di tutti i suoi meravigliosi eroi perdenti. E quando, al termine di “The Wrestler”, dice “Questo è l’unico posto in cui non mi faccio male” sembra sia davvero lui a parlare, e vi sfido a non commuovervi. Appesantito nel corpo, segnato nel volto, coperto dai lunghi capelli imbionditi, gravato di malinconia e di stanchezza, è commovente e toccante in ogni attimo, in ogni passaggio del bellissimo film di Darren Aronofsky, che però sarebbe stato inimmaginabile senza di lui.
Lottatore dal cuore malato, vivo solo per i ricordi ormai lontani di un glorioso passato, Randy tenta una vita “normale” che è solo una raccolta di fallimenti di chi non sa adattarsi al mondo, e sono quelle le ferite che bruciano davvero. Solo nell’arena Randy è qualcuno ed è lì che cerca il suo destino. Poi lo schermo si fa nero: one, two, three... e Bruce Springsteen canta struggente sui titoli di coda.

Ci aveva folgorati, Mickey Rourke, ormai più di vent’anni fa, con il personaggio indimenticabile di Motorcycle Boy, estraniato ribelle del film di Coppola, uno dei più bei personaggi di “diverso” (solitario, disadattato, pazzo forse) della Storia del Cinema, forse perché diverso lui stesso, fuori da ogni codificazione.  “Rusty il Selvaggio” era immerso in un bianco e nero di nuvole in fuga al ritmo martellante della straordinaria colonna sonora che pulsava come un cuore inquieto, rotto da poche macchie colorate, perché Motorcycle Boy vedeva i colori solo a tratti e avvertiva i suoni distorti. Ma per il fratellino Rusty e tutti gli amici di quella desolata provincia di bande di strada era un idolo, un esempio, un Mito. Un mito che aveva deluso perfino se stesso (“Per loro eri il pifferaio, ti avrebbero seguito in capo al mondo” “Se vuoi guidare la gente devi sapere dove andare”). E, spiccando in un cast straordinario di giovani folgoranti rivelazioni, anche qui Mickey Rourke fondeva rabbiosa violenza e malinconica disillusione, con uno sguardo distaccato su tutte le cose, sognando un sogno solo suo.

Cominciano così gli anni d’oro di Philip André Rourke in arte Mickey che lo vedono anche sex symbol o eroe. Ma il meglio di sé lo dà nei ruoli più sofferti: è un memorabile San Francesco nel film della Cavani (e nessuno lo avrebbe mai detto vedendolo con quel fisico imponente), è lo sfigurato Johnny il Bello, è l’alcolizzato di “Barfly”, è soprattutto il perdente di “Homeboy”, piccolo grande film agrodolce e quasi autobiografico. Perché anche nella vita vera Mickey Rourke si lascia trascinare sulla strada discendente di boxeur, tanto da trascurare sempre più quella del Cinema, e l’immagine di fomentatore di risse sostituisce nelle cronache mondane il posto di affascinante star. Un declino interrotto a tratti da rapidi ritorni sullo schermo. Ma il grande attore che è in lui non muore mai: guardate “La Promessa”, guardate i due minuti in cui appare in penombra, guardate il suo pianto trattenuto e dite se non lascia ancora il segno dei Grandi.

Con il volto già deformato dagli incontri pugilistici reso ancor più irriconoscibile dal trucco fumettistico e la malinconica rabbia che lo ha accompagnato nei suoi ruoli migliori irrompe in “Sin City”, mostro in una città di mostri, dove tutto è nero, piovoso, disperato, esasperato, eccessivo, violento oltre ogni misura. Il film di Miller e Rodriguez (ma in cui si avverte anche la mano di Tarantino per la violenza grottesca e la scansione temporale degli episodi) affonda l’originalità del suo stile nella matrice fumettistica (gli mancano soltanto le didascalie) e negli umori del noir più cupo, scandito dalle voci narranti, immerso in un bianco e nero rotto da abbacinanti macchie di colore, oltre le leggi della scuola dei duri che più duri di così non potrebbero essere. E Mickey Rourke si fa largo tra tanti orrori con un dolore di perdente reietto che si trasforma in macchina distruttrice.
Forse i suoi personaggi sono così memorabili perché in ognuno di essi porta un pezzo di sé, quel qualcosa che lo rende speciale ed unico anche nella vita vera. Ci piace dunque pensarlo sulla passerella veneziana accompagnato dalla sua adorata cagnetta e su quella degli Oscar con il suo ritratto al collo. Non è stato vincitore né in un’occasione né nell’altra, ma non sono spesso, come ci dice nei suoi film, i perdenti i veri grandi?

Gabriella Aguzzi