Jerry Calà, un “Gatto” dietro la macchina da presa

13/05/2009

Qualcuno, prima o poi (e mi stupisce che lo “stracultiano” Marco Giusti non l’abbia ancora fatto), dovrebbe decidersi a rivalutare la filmografia di Jerry Calà regista di se stesso sotto una luce sociologica: se infatti vogliamo capire qualcosa della volgarità intellettuale e del vuoto morale di una certa Italia degli anni ’90 e 2000, quella maggiormente influenzata dalla televisione privata più commerciale, i (finora) cinque film che il comico veronese ha realizzato come autore, pur se con una regia piuttosto elementare e approssimativa (ma, con tutte le debite distanze, non lo sono state anche quelle del grande Alberto Sordi, specie nei suoi lavori degli anni ’80 e ’90?), hanno una spontaneità e una sincerità di fondo che è più esplicativa di qualsiasi “dibbbattito” da contenitore domenicale o da talk show di mezzo pomeriggio. Era il 1994 – un anno dopo aver dimostrato buone doti drammatiche nel penultimo film del grande Marco Ferreri, il grottesco Diario di un vizio, e aver interpretato quello che sinora è la sua ultima pellicola sotto altrui direzione, Abbronzatissimi 2 – un anno dopo di Bruno Gaburro, sequel del fortunato “cinecocomero” invernale (prendendo a prestito un espressione recentemente clonata dai Vanzina) del 1991 – quando Calà ha esordito alla regia con Chicken Park, lavoro con il quale intendeva satireggiare i blockbuster americani che da poco avevano sbancato anche i botteghini nostrani (dal Jurassic Park di Spielberg parodizzato sin nel titolo ai due Addams di Sonnenfeld, con l’almodovariana Rossy De Palma come ideale Morticia, attraverso i classici di Cimino, Coppola e Kubrick) con una comicità demenziale che voleva fare il verso a quella allora in voga della ditta Zucker-Abrahams-Zucker (L’aereo più pazzo del mondo e la trilogia della Pallottola spuntata), ma che in qualche modo sembra rifarsi anche ai nonsense dei suoi esordi cabarettistici al Derby Club coi Gatti di Vicolo Miracoli. L’operazione ha però il fiato corto (la comicità demenziale, generalmente di derivazione televisiva, non ha mai avuto troppa fortuna nel cinema italiano), e il film va in onda direttamente su Italia 1 in prima serata un anno dopo, anche per lo spaventoso incidente stradale che lo ha visto coinvolto costringendolo ad una lunga degenza che gli ha fatto perdere l’aggancio col film di Spielberg che doveva essere il traino per la distribuzione in sala. Nello stesso 1995 dirige però il suo secondo film, Ragazzi della notte, e qui entriamo nel vivo del nostro discorso, in quanto questa pellicola descrive efficacemente il rito della discoteca per numerosi giovani annoiati di provincia così come effettivamente si era delineato a metà anni ’90, evolvendosi poi ulteriormente (in peggio?) in questo decennio che ormai volge al termine (“cosa resterà degli anni 2000”, dovremmo chiederci vent’anni dopo la canzone di Raf): certo, la recitazione rimane per lo più amatoriale e improvvisata (gli attori sono per lo più noti volti delle reti Mediaset: un abituale ricorrenza dei film diretti dal buon Jerry), i luoghi comuni abbondano, ma forse risiede proprio in questo l’efficacia del film. Se infatti il Sabato italiano di Luciano Manuzzi di tre anni prima appariva eccessivamente viziato da una parasociologia troppo caricata, il lavoro di Calà – che sposta l’asse dalle notti brave della riviera romagnola a quelle, a lui certamente più familiari, del basso Garda – riesce a essere più aderente al mondo che intende descrivere in quanto il filo conduttore di una troupe televisiva guidata da Samantha De Grenet lì giunta per effettuare un reportage sull’argomento in questione risulta piuttosto efficace per amalgamare tutte le microstorie descritte dal film con una perfetta aderenza alle vicende vissute dal vasto e variegato “popolo della notte” e ai loro gerghi più comuni: garzoni e figli di papà (“la discoteca è una livella: annulla le differenze sociali”, afferma la De Grenet prima dei titoli di testa, scomodando addirittura il grande Totò), ragazze troppo facili di buona famiglia e commesse verginelle, drogati e spacciatori, uomini maturi e giovani più o meno esperti alla ricerca di facili avventure… fino ad arrivare allo stesso Jerry, cui uno spregiudicato manager di provincia (Sergio Vastano) fa di tutto per appioppare una ragazzina disposta a concedergli le proprie grazie pur di sfondare nel rutilante mondo dello spettacolo. “A me Ambra mi fa una pippa”, afferma soddisfatta – citando in causa la più popolare delle ragazzine televisive di allora, ancora lontana dalla promozione di carriera ottenuta con il lancio nel cinema d’autore grazie a Ferzan Ozpetek – la disinibita Samantha, interpretata da una Maria Monsé ignara che una dozzina d’anni dopo sarebbe stata anche lei coinvolta nel calderone di Vallettopoli. “Il mondo della notte sarà anche bello, divertente, eccitante, ma con l’alba svanisce e ti trovi addosso i problemi del giorno”: sta in questa frase con cui lo spigliato PR Dario Cassini ammonisce il fratello più giovane che voleva emularlo l’assunto dei Ragazzi della notte. Il loro atteggiarsi, esibirsi nelle discoteche nei modi più appariscenti è, quasi come per il Tony Manero interpretato da John Travolta nel celebre film di John Badham La febbre del sabato sera, un tentativo di riscatto personale e sociale per cercare di sopperire al vuoto interiore in loro, dato da carenze affettive, fallimenti familiari e insoddisfazioni scolastiche o professionali; mentre, per le persone più mature, un modo per esorcizzare gli anni che passano.

Ed è proprio quest’ultimo il tema del terzo film di Jerry Calà, forse il suo più personale: Gli inaffidabili (1997), nel quale egli – con il contributo del fidato sceneggiatore Gino Capone – si è costruito su misura il ruolo di Renato,  musicista di un qualche successo negli anni ’60 (decennio cui Jerry ha sempre dimostrato di essere molto legato, dal cult dei Vanzina Sapore di mare sino ai suoi spettacoli musicali di questi ultimi anni) che ha poi, come si suol dire, “attaccato il cappello” sposando una ricca ereditiera bisbetica e trasformando la loro villa in una sorta di albergo beauty farm alla moda. In quest’ambientazione non molto dissimile da quella del film forse più compatto e riuscito di Carlo Verdone, Compagni di scuola, Renato, approfittando dell’assenza dell’insopportabile moglie, per il ponte di Pasquetta ha invitato i vecchi amici di un tempo per cercare di convincerli durante la loro permanenza a prestargli i soldi per rilevare la villa che lei vuole indietro con il divorzio, ma al momento di mettere mano al portafoglio leveranno le tende di gran carriera, lasciandolo solo con i suoi problemi e dimostrandosi, appunto, “inaffidabili”. In questo film Calà ha riunito gli altri “Gatti” Umberto Smaila, Franco Oppini e Ninì Salerno, riciclati per l’occasione come cinquantenni goliardi alla Amici miei (di cui proprio il ricomposto gruppo interpreterà la versione teatrale nel 2002, tra l’altro con la regia dello stesso Monicelli) che fanno scherzi pesantissimi ai danni del prossimo (spiare le donne nei bagni grazie alla telecamere, appioppare il noioso e petulante rompiscatole Leo Gullotta all’amico Gigi Sabani, nell’autobiografico ruolo di un presentatore televisivo di successo che sospetta di essersi beccato l’AIDS a causa di un rapporto con una ragazzetta troppo facile) ma anche di loro stessi (pagare una giovane e bella ragazza per far credere al vedovo Salerno che in essa si sia reincarnata l’amata moglie). E ciò nonostante, nella parata di varia umanità televisivo-cinematografica con l’unica fissa di soldi e sesso, c’è talvolta qualche nota malinconica: il tentativo di riconciliare qualche rapporto d’amicizia, familiare o sentimentale, e anche un accenno stile Grande freddo a chi, come il personaggio di Salerno, ha partecipato al Movimento Sessantottino (“il sottoscritto ha fatto la lotta di classe: nelle università occupate noi analizzavamo per filo e per segno tutti i versi di tutte le canzoni di Guccini e De André”), credendo in quegli ideali poi disillusi nel tempo. Jerry Calà è perfettamente a suo agio nel raccontare questo vacuo mondo dell’apparente benessere, figlio del disimpegno post-riflusso e favorito negli anni dai modelli proposti in abbondanza dalle reti Mediaset: lo dimostra anche in Vita Smeralda (2006), il film con cui, nove anni dopo Gli inaffidabili, è tornato al cinema per raccontare, con uno stile semi-documentaristico vicino a quello di Ragazzi della notte, un mondo che lui ben conosce, quello delle vacanze estive in Costa Smeralda. Come nel suo lavoro del 1995, anche qui c’è un fil rouge: tre ragazze (Francesca Cavallin, Eleonora Pedron, Benedetta Valanzano), spigliate ma semplici, stufe della vita in campeggio coi rispettivi fidanzati che si conclude alla sera con canzoni di Battisti suonate alla chitarra e cantate all’unisono attorno ad un falò di baglioniana memoria, prima di tornare alla loro ordinaria routine con la fine delle vacanze, decidono di concedersi una puntata a Porto Cervo per vedere da vicino quel rutilante mondo da cui sono tanto affascinate. Con l’autoironia che gli è propria, Jerry torna invece a fare la parte di sé stesso, affittuario di un lussuoso yatch che vede al timone il compianto Guido Nicheli – qui alla sua ultima apparizione cinematografica – per cercare di convincere un antipatico e lardoso produttore russo a finanziargli il suo prossimo film: nel frattempo il simpatico attore è però anche alle prese con una bella ragazza indiana, che afferma di essere sua figlia. La morale finale per le tre giovani del film è “meglio una pizza col ragazzo del cuore”, dopo che esse avranno affrontato ingarbugliate situazioni sentimentali con divi da reality (Giorgio Alfieri di Campioni), giovani altolocati dalle ambigue abitudini sessuali, menage à trois con ragazzi facoltosi orchestrati dall’aspirante mantenuta di lusso Elena Santarelli (l’ex-letterina, al suo debutto sul grande schermo nello stesso anno in cui ha partecipato anche alla Commediasexi di D’Alatri), con il celebre Billionaire di Briatore con tanto di comparsate as himself di questo e di altri vip a fare da sfondo, un anno prima dello scandalo Vallettopoli che darà una pesante scossa a quell’ambiente.

Forse per questo due anni dopo Calà ha preferito nel suo film successivo tornare in qualche modo alle origini, realizzando – in anni in cui i fratelli Vanzina nei loro lavori si sono più volte esplicitamente richiamati alle commedie cult di un passato più o meno recente – un ideale sequel di Vado a vivere da solo (1982), il suo primo film da protagonista assoluto dopo il distacco dai Gatti di Vicolo Miracoli, nonché l’esordio alla regia del figlio d’arte Marco Risi. Torno a vivere da solo (2008) ci mostra nella “sua” Milano un Giacomino ormai quasi sessantenne, affermato agente immobiliare, sposato alla napoletana “trapiantata” Francesca (Tosca D’Aquino) – dalla quale ha avuto due figli – che, stufo di sentirsi ignorato dalla sua famiglia, se ne va di casa e ristruttura il vecchio loft con il quale 26 anni prima s’era affrancato dagli opprimenti genitori (qui interpretati da Paolo Villaggio e Gisella Sofio), anche loro in crisi e prossimi alla separazione. Giacomo è attratto da Jessica (Eva Henger), l’avvenente ex-moglie dell’amico Nico (un Don Johnson doppiato con un improbabile accento milanese, dopo quello pugliese – altrettanto improbabile – appioppatogli in Bastardi di Federico Del Zoppo e Andres Alce Meldonado, storia di malavita sullo sfondo del Salento che lo aveva visto nello stesso anno sempre al fianco dell’ex-pornostar ungherese), che per vendetta insidierà Francesca: altre liti, incomprensioni, separazioni e rimpasti avverranno tra i personaggi del film, quasi come in un “girotondo” di schnitzleriana memoria, fino alla riunione di tutti quanti – come una grande famiglia – la notte di capodanno nel loft di Giacomo, grazie a Thelma, un viado finito per caso a fare da domestica al protagonista e che finirà per far coppia con un collega gay di quest’ultimo (un Enzo Iacchetti davvero centrato, forse la vera sorpresa del film). E, pur se questo finale appare un po’ appiccicato e improbabile – quasi sulla scia della pacifica convivenza tra etero e omosessuali proposta da Ozpetek in film come Le fate ignoranti e Saturno contro, oltre che tra coppie separate naturalmente – , e anche la sceneggiatura ogni tanto risulta abboracciata, con qualche buco nelle vicende raccontate che s’intrecciano con conseguenti cadute di ritmo, c’è una diffusa malinconia nella descrizione della routine di mariti e mogli separati insolita per Jerry, che con questo Torno a vivere da solo pare essere approdato ad una diversa maturità, forse anche data proprio dagli anni che passano. Per questo la sua ultima pellicola da regista credo sia anche la più interessante: arrivati a tal punto, ritengo però opportuno interpellare lo stesso Jerry Calà a proposito di questa sua “seconda vita” come cineasta, dopo essere stato uno dei comici di maggiore successo degli anni Ottanta.

Come mai quindici anni fa hai deciso di passare dietro alla macchina da presa, diventando anche autore dei tuoi film?
Sin dai miei primi film come attore sono sempre stato molto curioso: infatti mi ricordo anche Marco Risi e i Vanzina quando mi dicevano che ero un attore rompipalle perché andavo sempre a chiedere cosa facevano, perché mi interessava. Non ho mai recitato in un film a occhi chiusi, ho sempre guardato come i registi muovevano la macchina, e quest’idea la covavo dentro fino a che, in un momento in cui ripartiva la mia carriera dopo il tragico incidente del ’94, ho voluto dare un inizio anche a un percorso da regista. Sai, tutte le cose cominciano un po’ per caso, perché la mia prima regia, quella di Chicken Park, è stata un po’ un esercitazione, perché un pazzo produttore che si chiama Galliano Juso – un genio del male che ha avuto nel cinema delle grandi intuizioni, se pensi che ha inventato er Monnezza di Tomas Milian – venne da me a dirmi che gli sembravo adatto per fare la parodia di Jurassic Park. Io lì per lì rimasi perplesso: dopo con Gino Capone, che ho conosciuto proprio in quel frangente, ci piaceva un po’ rinverdire uno spirito demenziale che io avevo ereditato dal cabaret coi Gatti, e così ci siamo divertiti a scriverlo insieme. Poi chiaramente i mezzi italiani non sono quelli americani: mentre infatti i fratelli Zucker fanno gag da un milione di dollari l’una, noi invece ci arrabattavamo lì in uno studio con le galline e degli effetti speciali un po’ approssimativi, però i primi venti minuti, dove le gag erano più di idea che di mezzi, devo dire che il film faceva molto ridere, dopo sugli effetti speciali un po’ cadeva, e per me è stata una grande esercitazione, se pensi che questo mio primo film da regista l’ho girato a Santo Domingo in lingua inglese. Chicken Park è stato infatti venduto in tutto il mondo: lo facevano sugli aerei delle linee di Singapore, e ovunque è stato venduto in lingua originale, per cui ho dovuto fare il regista e l’attore in inglese, e quindi è stato un film difficilissimo, ma sono stato sverginato alla grande come regista, e proprio da lì m’è venuta voglia di andare avanti, e dopo l’incidente ho aggiustato un po’ il tiro sugli argomenti, e come autore mi piace fare un certo tipo di film che tu hai già individuato – film di gruppo, di giovani, affrontando anche delle tematiche molto attuali.
Ed è proprio guardando i tuoi film da regista dopo Chicken Park – da Ragazzi della notte fino al tuo ultimo Torno a vivere da solo – che ho avuto la sensazione che tu in essi volessi lanciare dei messaggi sociali abbastanza precisi: è appunto solo una mia sensazione, o mi sbaglio?
No, guarda: messaggi qua non ne lancia nessuno, perché anche quelli che li vogliono lanciare è meglio che non lo facciano. Almeno io non lancio messaggi, cerco di fotografare la realtà, essendo un grande amante del neorealismo, e poi a me piacciono i film che hanno un piglio realistico: anche tra quelli prettamente comici, non amo tanto le favolette dove sono tutti belli, ricchi, patinati. Preferisco le storie di  riconoscimento, e quindi cerco di andare verso quella direzione: io messaggi non ne ho mai voluto lanciare, cerco però di dire la verità su alcuni argomenti, come per esempio quando per preparare Ragazzi della notte io e Gino abbiamo fatto duecento interviste di notte fuori dai locali: abbiamo parlato con disk-jockey, animatori, cubiste, baristi… cioè abbiamo fatto un lavoro serio, e abbiamo così realizzato un discorso sulla discoteca dove appunto mi piaceva dire, come tu hai sottolineato, che i problemi cominciano all’alba e non alla notte, quando i ragazzi si buttano dentro la discoteca non sapendo cos’altro fare, in quanto la società offre ben pochi diversivi. Ma anche Vita Smeralda lo ritengo uno dei miei migliori film: poi alcuni critici un po’ corti di vista hanno interpretato il mio come un osanna agli stronzi della Sardegna, non capendo che invece io ho fatto una feroce fotografia di quel mondo lì. Loro non credono che esistano cose del genere: infatti anche i Ragazzi della notte alcuni critici li giudicavano solo caricature, ma perché loro stanno nei loro attici a Roma o a Milano a guardare i film d’essai e a parlare di Schlesinger o di Fellini tra di loro, e forse non vanno in giro a vedere come parla e agisce la gente e quanti stupidi ci sono in giro, e poi quando se li vedono al cinema dicono che non è possibile che siano così. A volte i miei film sono stati fraintesi come leggeri, mentre invece a parer mio non lo sono affatto: per esempio, secondo me Vita Smeralda è un film pesantissimo, e infatti dopo tre mesi che è uscito guarda caso è scoppiato quel gran casìno di Vallettopoli, quindi vuol dire che Jerry Calà non è  poi tanto scemo.  
Tu pensi quindi che questi film possano essere emblematici di una certa Italia di questi anni?
Questi film fra vent’anni li guarderanno per vedere com’erano gli anni 2000 in Italia, come successe anche per i bravissimi e geniali Vanzina: a volte la critica li ha fraintesi perché l’occhio lungo non ce l’ha mai avuto, comunque sia alla fine l’importante è che i film piacciano al pubblico.
Adesso hai qualche nuovo film in cantiere?
Con Gino abbiamo già una sceneggiatura pronta, nella quale faccio un passo avanti rispetto a Ragazzi della notte: è un film che voglio fare solo da regista, e che comunque tratterà ancora un angolazione abbastanza particolare di questa generazione di giovani, visti da un punto di vista molto realistico, lontano dalle cartoline delle Notti prima degli esami. Vorrei infatti andare un po’ più a fondo, ed è un film che adesso stiamo cercando di montare perché come ben sai io sono un outsider: i film prima li scriviamo e poi cerco i finanziamenti, però mi diverte lavorare così, perché almeno faccio quello che voglio.

E noi auguriamo all’eterno ragazzo Jerry di realizzare questo e altri nuovi film su quei giovani a cui nella sua filmografia d’autore ha dimostrato di essere tanto legato, in quanto per lui – parafrasando una battuta di Vita Smeralda sull’estate – la giovinezza non è solo una stagione della vita, ma prima di tutto uno stato d'animo

Alessandro Ticozzi