Nino Manfredi, l’eroe positivo della commedia all’italiana

04/06/2014

Riccorrono dieci anni dalla scomparsa di Nino Manfredi. Lo ricordiamo con le parole della moglie Erminia (con lui nella foto) partendo dai film che lo avevano visto protagonista per Ettore Scola: C’eravamo tanto amati (1974) e Brutti, sporchi e cattivi (1976), due film cardine della commedia all’italiana più amara, che vedevano Manfredi interpretare egregiamente due personaggi contrapposti (rispettivamente, un portantino idealista e un truce capofamiglia di baraccati alla periferia di Roma). Già questo dato dovrebbe essere significativo delle sue grandi capacità recitative: infatti le migliori interpretazioni di Manfredi non si adagiarono mai sul facile mestiere, ma furono il frutto di un attento studio sul personaggio e sulla realtà in cui questi era collocato, sin dai suoi primi successi cinematografici.

Basti pensare all’impiegato dell’omonimo film di Gianni Puccini (1960) o al funzionario delle assicurazioni scambiato per un gerarca fascista in incognito in Anni ruggenti (1962, di Luigi Zampa), due piccole pedine della burocrazia – ispirate rispettivamente al Danny Kaye di Sogni proibiti e al Gogol dell’Ispettore generale – costrette dagli eventi ad aprire gli occhi sull’amara realtà che li circonda; ai variegati ritratti maschili disegnati con sguardo impietoso di Questa volta parliamo di uomini (1965), di Lina Wertmüller; al barbiere abruzzese che si perde nella metropoli romana alla ricerca della sua amata in Straziami, ma di baci saziami (1968), deliziosa satira del fotoromanzo d’appendice e della cultura popolare di massa ad opera di Dino Risi.
Fu però Nanni Loy il primo regista a dare una maggior consapevolezza drammatica e focalizzazione sociale al “tipo” finora proposto da Manfredi: in Il padre di famiglia (1967) egli infatti sarà un architetto idealista che si scontra con la realtà corrotta del boom che logora anche il rapporto con la moglie (prodromo in tal senso del portantino del già citato C’eravamo tanto amati), mentre in Café Express (1980) un venditore di caffè abusivo su un treno che viaggia nel Sud Italia, confidente della piccola umanità che vi si trova sopra, braccato dai controllori e dalla polizia ferroviaria, ma anche da una gruppetto di piccoli delinquenti che vuole imporgli la propria protezione. Due interpretazioni introspettive, di dolorosa umanità, in cui Manfredi (specie nella seconda, intrisa di lezione di dignità morale nell’arte di arrangiarsi per campare alla giornata) si richiama al suo maestro Eduardo, mentre decisamente più chapliniana appare la sua prova in Pane e cioccolata (1974), senza dubbio il miglior film del delicato – e oggi completamente dimenticato – Franco Brusati, storia di un emigrato italiano in Svizzera, deciso a non arrendersi persino di fronte alla negazione della stessa natura umana dei suoi connazionali (emblematica in tal senso la scena con i suoi compagni di sventura costretti a vivere in un pollaio, ormai atteggiandosi a polli essi stessi, che si accontentano di spiare di tanto in tanto i rampolli dei loro padroni muoversi nudi nella foresta situata di fronte alla loro “abitazione”), che tanto deve al commosso e sentito apporto del grande attore ciociaro almeno quanto il suo straordinario Geppetto in Le avventure di Pinocchio (1972), di Luigi Comencini, e lo scettico porporato, consapevole dall’imminente fine del potere temporale della Chiesa, ne In nome del papa re (1977), di Luigi Magni, regista con il quale il Nostro aveva instaurato un forte sodalizio, umano ed artistico.
Insomma, rispetto ai suoi colleghi “mattatori” Sordi, Tognazzi e Gassman, Nino Manfredi è stato l’unico eroe (o meglio, antieroe) positivo della commedia all’italiana, ed è perciò che il suo percorso artistico è stato così personale e particolare all’interno di un genere decisamente più portato a soffermarsi sui difetti – anche i più abietti e sgradevoli – di un certo tipo di italiano medio che non sui pregi (quasi sempre riscatti dell’ultimo minuto, come per Sordi nei finali di La grande guerra, Tutti a casa e Una vita difficile), ed è per questo che forse una certa critica talvolta non ha saputo inquadrarlo nella giusta ottica, al contrario del pubblico che lo ha sempre amato.

Arrivati a questo punto però troviamo giusto approfondire questa figura di italiano con la stessa Ermina Manfredi, che ci dice al proposito: “In questi film che hai preso in considerazione Nino ha fatto un excursus su un po’ tutti gli italiani, ma allo stesso tempo credo che gli argomenti da lui trattati fossero anche molto internazionali: mi pare infatti che Nino non si sia circoscritto all’Italia, ma sia stato un attore di larghissimo respiro. Secondo me Nino non ha fatto un italiano medio, ma vari personaggi che vanno bene nel mondo: purtroppo erano film recitati in italiano e gli americani c’hanno sempre detto che non accettavano il doppiaggio, ma per esempio quando in America la Wertmüller e Brusati hanno portato i loro film alle varie settimane del cinema italiano Nino ha avuto sempre un grandissimo successo, quindi se è stato richiesto poi da Billy Wilder, da Mamet e da altri evidentemente era un attore internazionale”.
Cosa ha spinto Nino a passare ad auto dirigersi e come mai ciò è avvenuto soltanto per un episodio (L’avventura di un soldato, 1962) e due film (Per grazia ricevuta, 1971, e Nudo di donna, 1981)?
“Nino era un attore che conosceva tutto del suo lavoro, per cui ha voluto provare anche cosa voleva dire mettersi dietro la macchina da presa per mettere alla prova sé stesso. Nell’Avventura di un soldato ha voluto provare come si può recitare con l’espressione del corpo senza la parola, in omaggio a Chaplin e al suo grande maestro di mimica Orazio Costa. Per grazia ricevuta ha invece vinto il premio dell’opera prima a Cannes ed è basato su una storia personale: Nino infatti ha ricevuto l’olio santo più volte da giovane, per cui era stato votato in qualche maniera al Santo dalla madre che faceva il pellegrinaggio in ginocchio al Divino Amore. Quando poi noi eravamo ragazzi, e spero che oggi non sia più così, il Catechismo incuteva quasi paura: non dovevamo ridere, perché la risata comportava poi una specie di tassa da pagare, e se avevi riso dovevi avere un dolore di conseguenza; a un ragazzino che andava a confessarsi gli dicevano che se non raccontava tutto il diavolo lo avrebbe inseguito… quindi Per grazia ricevuta è il compendio dell’educazione religiosa che uno riceveva in quel momento, e quando è stato proiettato alla Sala Nervi, con la platea piena di porporati, il cardinale che presentò Nino disse che era stato più efficace questo suo film che tante loro prediche. Nudo di donna l’ha poi ereditato da Lattuada, e intende indicare un approccio molto personale al tema del rapporto di coppia: noi infatti presumiamo sempre di conoscere la nostra metà, invece lei ci può sorprendere e quindi alla fine non si capisce se è un altra o la stessa persona, ma è sempre l’amore e allora lo si insegue”.

Come mai dagli anni Ottanta alla morte Nino ha fatto sempre meno cinema (i suoi ultimi film di un certo rilievo sono stati Spaghetti House, Il tenente dei carabinieri al fianco di Enrico Montesano e, di nuovo diretto dall’amico Magni, Secondo Ponzio Pilato e In nome del popolo sovrano) e sempre più teatro e - soprattutto - televisione?
“Negli anni Ottanta il cinema era andato in crisi, una crisi di cui oggi si parla sempre ma che invece viene da lontano: siccome Nino è stato definito da Risi, Scola e Scarpelli attore-autore perché ha sempre continuato a scrivere, e allora, se nel cinema non c’era più una richiesta che gli poteva dare soddisfazione, ha preferito nella sua ricerca portare a teatro le commedie che aveva scritto (Gente di facili costumi, 1988; Viva gli sposi, 1989 – ndr), ed è stato sempre biglietto d’oro. Per lo stesso motivo ha fatto anche diverse serie televisive e fiction di successo, dai vari commissari e brigadieri alle ultime con Banfi: nel cinema non c’erano più proposte, nessuno vuole rischiare, sono rari i produttori cinematografici e si lavora con i soldi della RAI”.
Prima Lei ha definito Nino un attore internazionale: è per questo che in Spagna ha partecipato a due importanti produzioni quali La ballata del boia (1963) di Berlanga e La fine di un mistero (2003) di Hermoso?
“Per la stessa ragione a distanza di quarant’anni: Berlanga ha voluto assolutamente Nino, e così Hermoso è venuto qui dicendo che se Nino non accettava di interpretare il suo film lui non l’avrebbe fatto. La ballata del boia è stata un esperienza fantastica, e la recitazione di Nino altrettanto, perché quando poi deve fare il boia è lui il vero condannato, mentre l’altro accetta la pena di morte con dignità; nella Fine di un mistero invece lui è tutto un’espressione del corpo, tornando quindi a fare il suo ultimo film da mimo sempre in onore del grande Orazio Costa”.

Cosa crede rimanga di Nino come uomo e come artista? Quale crede sia stata la sua lezione di vita e d'arte?
“È stato un grandissimo esempio di dedizione, di dignità e di professionalità: il suo lavoro era l’espressione del suo modo di essere, perché l’attore è meraviglioso in quanto quando deve fare i personaggi li trova dentro di sé, arrivando pure a meravigliarsi quando si rivede. Per questo Nino è stato veramente un grande esempio, e se uno mi  chiede chi era Nino gli rispondo sempre che bisogna guardare tutti i suoi film per capirlo. Spero che il suo rimanga un grandissimo insegnamento professionale, per la grandissima passione con cui Nino si è dedicato a questo lavoro e per come ha cercato di esprimersi in tutte le sue discipline, quindi mi auguro che sia immortale”.
Vorrei pertanto concludere questo ricordo di Nino Manfredi prendendo a prestito le parole usate dieci anni fa da Tullio Kezich nel recensire sul Corriere della Sera la sua straordinaria interpretazione di un immaginato e redivivo Garcia Lorca ottantenne nel già citato La fine di un mistero, e cioè che “mentre si è portati a prendere per buona la favola che l’autore di Nozze di sangue sopravvisse alla fucilazione, per un attimo ci si abbandona all’utopia che il nostro Nino non sia morto nemmeno lui. Ammirandolo per l’ultima volta lassù sullo schermo, vien proprio da dire: più vivo di così...”.

Alessandro Ticozzi