Ugo Tognazzi, lo chef con l’hobby della recitazione

28/10/2010


“Ho la cucina nel sangue. Il quale, penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di succo di pomodoro. Io ho il vizio del fornello. Sono malato di spaghettite. Per me la cucina è la stanza più shocking della casa. […] Conosco le entrate di servizio e i cuochi dei migliori ristoranti d’Europa. L’attore? A volte mi sembra di farlo per hobby. Mangiare no: io mangio per vivere”.
Questo brano tratto dalla prefazione di L’abbuffone, il primo dei quattro libri di cucina scritti da Ugo Tognazzi (edito dalla Rizzoli di Milano nel 1974 e ristampato trent’anni dopo dalla Avagliano Editore di Cava de’ Tirreni), credo possa essere alquanto esemplificativo dell’innato amore che il grande attore cremonese nutriva per i piaceri della buona tavola.
Come ci racconta infatti uno dei suoi figli, Gian Marco, oggi affermato attore di cinema, teatro e televisione,  “la sua era una grande passione. Credo che si sia sviluppata sempre di più dal momento in cui lui, trasferendosi a vivere da solo, ha iniziato prima a provvedere per se stesso e poi per i suoi amici: la vera nascita però non c’è, evidentemente è sempre stata una sua estensione, come si evince anche dal passo che tu hai appena citato, ed è pertanto una cosa che aveva dentro da sempre e che ha infatti avuto un importanza totale nella sua vita, perché comunque io sono cresciuto vedendolo per lo meno al cinquanta per cento tra i fornelli e il set. Era una cosa che per lui significava stare insieme alla gente, riunire le persone intorno a tavola e in qualche modo dare sfogo a tutta la sua fantasia: in questo è stato anche anticipatore rispetto a tutte le usanze che poi oggi sono entrate nel costume del nostro Paese, ma una volta non era così facile sentir parlare di cucina, non era un argomento così di moda, e in questo lui è stato uno dei primi a dare le ricette per radio, è stato uno che ha scritto libri, che si è sempre tenuto fortemente legato a Benito, il suo amico di Velletri che ha il ristorante con il quale hanno sperimentato per una vita insieme, e non a caso Benito diventa poi uno dei suoi migliori amici, perché avevano questa passione in comune, nella quale si confrontavano e si divertivano molto, per cui essa ha un importanza direi primaria nella vita di mio padre, in quanto era un ennesimo modo di esibirsi e di confrontarsi con i suoi amici, e anche la scusa per invitarli ogni volta ad assaggiare la sua nuova invenzione. Era per lui un modo di creare diverso da quello del cinema”.

Eppure Ugo Tognazzi questa sua passione per la cucina l’ha portata molto spesso anche nei suoi film, tant’è che quando la RAI trasmise quelli più rappresentativi in una serie di serate a lui dedicate nei primi anni Ottanta – pertanto all’apice della sua carriera – essa s’intitolava proprio Risotto amaro,  rifacendo pertanto ironicamente il verso al capolavoro neorealista di Giuseppe De Santis Riso amaro.
È solo attraverso metafore culinarie che il suo italiano medio capisce il significato di parole come “fascismo” e “democrazia”: nel primo caso, infatti, il commilitone camerata Vittorio Gassman in La marcia su Roma (1962, di Dino Risi) davanti a una bella polenta versata “alla contadina” sulla tavola del soggiorno di casa gli spiega “Qua per esempio ce sta ‘sta polenta che non è mia e nessuno se la magna: arriva il fascismo e me dice ‘magnate ‘sta polenta prima che se fredda’, io dico ‘ma non è roba mia’ ‘e che ti frega magnate ‘sta polenta’ dice il fascismo. L’afferri l’ideologia? E poi dici che uno non deve esse fascista!”; nel secondo caso, ne Il federale (1961) di Luciano Salce, davanti al fuoco dove hanno appena arrostito e consumato un pollo arrosto in aperta campagna, il professore antifascista Bonafé gli risponde che se uno ha fame un dittatore gli dà pane e formaggio mentre un democratico dei soldi affinché possa comprarsi quel che vuole, mentre la giovanissima ladruncola Stefania Sandrelli in fase pre-Germi aggiunge che se non gli viene data né l’una né l’altra cosa uno ruba come fa lei.
Allo stesso modo ne I mostri (1963), sempre di Risi, Tognazzi  in pasticceria insegna al piccolo Ricky a “farsi furbi nella vita” pagando meno paste di quelle che hanno mangiato, chiede all’amico Lando Buzzanca di fargli preparare le fettuccine dalla moglie mentre in camera sua ha la di lui consorte nel letto  e davanti a un piatto di pasta consumato al tavolo di un ristorante in spiaggia convince il pugile suonato Gassman a tornare sul ring unicamente per il proprio misero tornaconto: la mostruosità sociale negli anni del boom economico per il grande attore cremonese non può non misurarsi sin dal piano gastronomico. È il caso anche del viscido impiegato ministeriale da lui ottimamente reso in Venga a prendere il caffè da noi (1970, di Alberto Lattuada), che, deciso a sistemarsi nella casa di tre sorelle zitelle poco attraenti ma ricche, con una scusa prima si fa invitare lì per bere il caffè del titolo, poi per sempre più lauti pasti: è in cantina che ottiene la mano di una delle tre, col volto incorniciato da salsicce e salumi vari (tra cui il Nostro mostra di prediligere particolarmente il “violino: cosciotto di capra essicato al sole dei duemila metri del Gran Paradiso”), anche se andrà a letto pure con le altre due (emblematica in tal senso la scena in cui a tavola con loro, al momento della frutta da tre mele parzialmente marce che gli vengono servite lui, eliminando gli scarti, ne ottiene un intera buona: così anche le tre donne hanno ciascuna una parte del corpo eccitante – i capelli, le gambe, le mani – e quando le possiede a letto lui pensa a quelle, tralasciando il resto), si nutre con loro abbondantemente di ogni ben di Dio – soprattutto di carni e vini rossi rinomati – per i suoi tour de force sessuali (“Le sorelle Tettamanzi: gioia, amore e grandi pranzi!”), finché un colpo apoplettico non lo costringerà alla sedia a rotelle e alla pace dei sensi, pur concedendosi ogni tanto nell’abituale passeggiata con le tre sorelle di farsi comprare un cono gelato (il simbolo fallico non può non passare inosservato) di cui assaporare qualche leccata.

Ma la tavola riesce a mettere a nudo anche le debolezze dei personaggi più umani interpretati da Ugo: davanti a un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino di notte a casa di una sua ex, un avvocato donnaiolo confessa di aver perso la testa per La bambolona (1968, di Franco Giraldi), con la quale pranza sempre a casa dei di lei genitori senza riuscire a combinare niente a causa della sua reticenza, mentre davanti alla cotoletta alla milanese che aveva cucinato per cena la moglie bambina Ornella Muti racconta tra le lacrime al marito operaio sindacalista di averlo tradito con il più giovane questurino Michele Placido in Romanzo popolare (1974, di Mario Monicelli); è invece davanti a un piatto di polenta e baccalà servitogli in casa dall’anziana domestica che Il commissario Pepe (1969, di Ettore Scola) si ritrova a dover decidere del futuro della sua inchiesta su un giro di prostituzione di minorenni che coinvolge anche nomi “che contano” nella città veneta dove vive e opera, così come ne I giorni del commissario Ambrosio (1988, di Sergio Corbucci), durante una cena a casa della compagna Athina Cenci a base di salmone e roastbeef, comprati dalla di lei figlia Amanda Sandrelli durante il viaggio appena fatto a Londra, il protagonista si trova a dover decidere della sorte del violinista Carlo Delle Piane, giunto per confessarsi colpevole di un delitto solo per coprire la figlia; mentre in Ultimo minuto (1987, di Pupi Avati) un avvocato, quando il giovane presidente della squadretta di provincia per cui lavora gli dà il benservito per le troppe tresche fatte per tenerla in piedi, nel suo sfogo gli confessa tra le altre cose che, avendo sacrificato tutto se stesso e i suoi affetti personali alla squadra, conduce una grama vita in alberghi di seconda categoria mangiando solo bistecche ai ferri con acqua minerale.
Per Ugo Tognazzi la cucina ha una funzione ben precisa persino nel divertissement goliardico che ha dato vita ai suoi maggiori successi commerciali: infatti nella trilogia di Amici miei (1975, 1982, 1985) egli verrà messo a nudo in un tema scolastico del figliolo dell’amico Philippe Noiret per quel conte in miseria che è proprio anche in base alla misera cena (“una frittatina di due uova, nove olive di numero, un pezzetto di stracchino e un quarto di vino sfuso”) consumata nello scantinato in cui vivono, però con gli amici si rifarà in un viaggio d’aereo al Polo Nord fingendo di mangiare l’insalata russa che aveva appena vomitato – suscitando per questo comprensibili reazioni di disgusto da parte dei vecchietti dell’ospizio loro compagni di viaggio – e soprattutto durante una cena in casa a base di sformato (“più sformato di così: sembra un aborto”) mettendo in ginocchio con le loro critiche e battute serafiche Gastone Moschin, che li aveva abbandonati per una donna pusillanime, per spingerlo a lasciare questa e a tornare insieme a loro; così come nella trilogia di Il vizietto (1978, 1980, 1985) è sempre durante  una cena in casa che i bacchettoni coniugi Charrier scoprono, dopo esilaranti equivoci (valga per tutti quello in cui il Nostro si sbriga a servire in piatto la “zuppa paesana alla Martinica” preparata dal domestico Jacob, per evitare che essi si accorgano dei disegni ellenici sul fondo), che stanno per diventare generi di una coppia di omosessuali, dopo il fallito tentativo di virilizzare l’effeminato Michel Serrault cercando di insegnargli in un bistrot come imburrare le fette biscottate da vero uomo (“la fetta va tenuta come un macellaio, l’imburramento dev’essere fatto come un facchino e il tè va bevuto come un bracciante del Sud: anche se hai rotto il biscottino, è proprio di fronte a un dramma del genere che bisogna saper reagire da uomo”) – e non sembra un caso che nel corso della serie i due protagonisti spesso si ritrovino a discutere e a riappacificarsi durante raffinate colazioni a base di succo di pompelmo, caffè e croissant, in casa o fuori.

Dei riti della cucina emiliana – e non poteva essere altrimenti, del resto – sono invece impregnati i film che il cremonese Tognazzi ha interpretato sotto la regia dei parmensi Bernardo Bertolucci e Alberto Bevilacqua: La tragedia di un uomo ridicolo (1981), che non riesce a spiegarsi il misterioso rapimento del figlio, profuma infatti del prosciutto crudo e delle forme di parmigiano che il protagonista produce nella sua fabbrica, così come l’amore dell’industriale per La califfa (1971) trova il suo apice in una trattoria in aperta campagna davanti a un piatto di fettuccine al pesto (a tal proposito rimane indimenticabile la sua lezione gastronomica a Romy Schneider: “Il basilico del pesto non va ucciso, non bisogna triturarlo, bisogna metterlo nel mortaio e pestarlo, pestarlo, pestarlo: bisogna tramortire il pesto, perché quando va sopra la pasta bollente ha un urlo, e quest’urlo tu lo devi mandare giù”), dopo essere cominciata sempre seduti insieme al tavolo di un ristorante assediato all’esterno dagli operai della sua fabbrica, che manifestano contro di lui, cenando con un antipasto di affettati, tortelloni come primo e quaglia arrosto per secondo – la stessa selvaggina cacciata in aperta campagna con i colleghi durante battute che servono loro in realtà per rinnovare le loro spartizioni di potere e cancellare la tracce delle loro tresche.
Ed è sempre durante una partita di caccia che un avvocato matura i sospetti che la moglie Edwige Fenech lo tradisca (s’immagina infatti di emergere dal mare dopo aver pescato “una cernia di tre chili” e di trovarla mentre fa l’amore con il giovane riccone Luc Merenda) in Cattivi pensieri (1976), uno dei cinque film dei quali Ugo Tognazzi è stato regista di se stesso, lavori nei quali egli esprime le sue personali inquietudini, spesso critiche nei confronti della società dei consumi, soprattutto in una proiezione futuribile dai toni neri e catastrofici, anche attraverso metafore legate al mangiare (preambolo a questo passo mi appare un altro brano tratto dalla prefazione dell’Abbuffone, dove scrivendo del suo rapporto d’amore con la cucina sosteneva di essere “il creatore della scena e il suo esecutore, il demiurgo che trasforma le inerti parole d’una ricetta in una saporita e colorata realtà, armonizzando e proporzionando gli ingredienti, percependo, anche emotivamente, il giusto punto di cottura”): in Il fischio al naso (1966) il deperimento della sua salute, man mano che sale di piano in piano nella lussuosa clinica in cui è ricoverato, è evidenziato anche dalla sua mancanza di appetito e dai cibi che gli vengono prescritti dai medici (dal risotto di tartufi al brodino, per intenderci) e nel fantapolitico I viaggiatori della sera (1979) in un bar si lamenta che il cameriere non serva a lui e alla moglie femminista Ornella Vanoni il caffè di persona al tavolo. “Sedersi ad un tavolo e ordinare un caffè è un piacere irrinunciabile” pare infatti essere l’ultimo richiamo ai piccoli piaceri della vita quotidiana in un’ immaginata società che non tollera la presenza di persone anziane come loro, che per questo vengono soppresse in patinati villaggi turistici realizzati apposta per i cinquantenni: il sogno dei Sessantottini una decina di anni prima, per i quali in Sissignore (1968) l’Avvocato Gastone Moschin (vi ricorda qualcuno quest’appellativo?) aveva ideato la Piper Cola, “la bevanda della protesta, la bibita giovane per i giovani, la contestazione in bottiglia”, che però aveva fatto presentare al suo autista tuttofare affinché continuasse ad essere il fantoccio delle sue malefatte (essa infatti era un prodotto-truffa, fatto per essere venduto alla concorrenza). Quasi preveggendo quest’orrore sociale, alla fine il Nostro non poteva non buttare giù tutti gli scaffali del cibo in scatola – simbolo per eccellenza della moderna società dei consumi – presenti nel supermercato gestito da Marisa Merlini, dopo aver sentito i pettegolezzi di un paio di clienti che lo bollavano come Il mantenuto (1961).

Già da questi pochi spunti dovrebbe risultare evidente che queste pellicole sono state ispirate ad Ugo Tognazzi dal forte sodalizio artistico ed umano con Marco Ferreri, bizzarro regista di allegorie grottesche ferocemente critiche nei confronti della moderna civiltà consumistica, impregnate di humor negro tipicamente spagnolo e surrealismo buneliano, che non poté non servirsi in tal senso anche della passione culinaria del suo attore-feticcio: in L’ape regina (1963) egli infatti, durante il pranzo pasquale in casa con la moglie Marina Vlady e la di lei famiglia (tutti cattolici rigorosamente osservanti), preso da parte il loro prete di fiducia gli chiede di benedire le sue uova fresche di gallina, dopo che aveva benedetto quelle sode, in quanto le mangia sempre per sottostare a quei tour de force sessuali cui lo sottopone la moglie ai fini di avere da lui un figlio che, dopo il lieto evento, lo porteranno al deperimento e alla morte; al contrario, in La donna scimmia (1964) si lamenta che l’irsuta moglie Annie Girardot – che sfrutta abominevolmente costringendola ad esibirsi in pubblico come fenomeno da baraccone – sappia solo fare il minestrone, quello che preparava anche nella cucina del convento di suore dove l’aveva casualmente incontrata per la prima volta; nella Marcia nuziale (1966) invece tradisce la moglie con una conoscente occasionale preparando la sangria nella cucina della casa di un professore dove si è recato con la consorte per una terapia di gruppo anti-crisi matrimoniale. Ma il film che raggiunge l’apice di questo connubio tra l’amore per la cucina di Tognazzi e le cineree metafore anticonsumistiche di Ferreri è il celeberrimo capolavoro "La Grande Abbuffata" (1973), che infatti, ci racconta Gian Marco, “parte da un idea che nasce a Ferreri sulle svariate cene interminabili che mio padre faceva anche con lui, per cui, vedendo la maniacalità e l’ossessività di Ugo nel preparare, nel mangiare e nel godere dei piaceri della vita, gli venne l’idea di enfatizzare tutto ciò nella storia di quattro amici (gli altri tre sono Marcello Mastroianni, Michel Piccoli e Philippe Noiret - ndr) che si chiudono in una casa mangiando fino a morire, e non a caso infatti il cuoco e il preparatore dei piatti della Grande abbuffata è proprio Ugo”, che alle ricette dei cibi protagonisti della pellicola ha dedicato il capitolo conclusivo dell’Abbuffone, affermando nell’introdurle che è stata “[…] l’esperienza più ‘diversa’, più ‘fuori dalle righe’, più fantastica che io abbia mai fatto in campo cinematografico, sia per l’atmosfera che si è venuta a creare durante la lavorazione, sia per il tipo di film, uno fra i più ‘particolari’ mai girati, dove il cibo entrava nelle interpretazioni di noi attori, così come le nostre interpretazioni erano strettamente legate al cibo, se non addirittura determinate da esso”.

Riprende Gian Marco: “Come per piacere suo personale e per avere i figli più vicino, visto che ce li aveva a casa e lui stava sul set, se c’era il ruolo di un figlio di quell’età in un suo film cercava di mettere a turno me, Ricky o Thomas, perché Maria Sole non ha mai avuto l’estensione del gioco della recitazione; così tanto valeva per la cucina, nel senso che quando ne aveva la possibilità faceva correggere il tiro per poter essere identificato anche sullo schermo con la sua passione nella vita, come nei film cui tu hai fatto prima riferimento”.
Più in generale, a  vent’anni dalla scomparsa, cosa ti piace di più ricordare di Ugo, come padre innanzitutto e poi anche come artista?
“Passato il periodo del dolore, la fortuna di avere avuto un padre così è quello che in qualche modo, pur essendoci un’ assenza fisica, c’è una presenza continua, e anche la fortuna di avere avuto un padre che ha significato qualcosa di importante per la gente, che, come se fosse ancora vivo nonostante siano passati vent’anni da quand’è venuto a mancare, te lo ricorda continuamente con grande affetto e ammirazione, e quasi rimpianto per quei tempi e quel modo di vivere la vita, accettare i propri difetti e infrangere certi tabù – che ormai non lo sono più, ma negli anni passati invece lo erano eccome. Quindi abbiamo un tale riscontro continuo sulla presenza di Ugo attraverso i film e le testimonianze spontanee che tutti i giorni le persone ci manifestano che in qualche modo l’assenza è sopperita da questa grande voglia da parte della gente di comunicarti l’affetto che ha ancora per lui, e che cosa ha significato in alcuni casi averlo come punto di riferimento anche per dei giovani che magari non l’hanno conosciuto in vita ma attraverso i film si sono fatti un’ idea di chi era Ugo, perché credo che questa sua dedizione al lavoro e questa sua trasparenza e onestà intellettuale sui suoi difetti e debolezze, che poi sono quelle umane di tutti gli italiani che lui ha sempre rappresentato anche nei film, lo abbiano fatto entrare nel cuore della gente, e penso che siano queste cose che continuamente ci tornano. È la presenza fisica che ti manca, quella del confronto, perché tutti avremmo voluto avere più tempo per farci vedere anche nella nostra crescita, però tutto questo è compensato come dicevo dalla grande riconoscenza che traspare tuttora da parte della gente nel parlarci di lui, magari nel raccontarci aneddoti che non conosciamo, situazioni che ignoriamo dei posti in cui è stato. Le persone hanno voglia di questo: per esempio, anche il suo sito ufficiale www.ugotognazzi.com  che son riuscito a varare l'anno scorso, sulla continua richiesta di informazioni o di notizie magari anche per assenza da parte istituzionale,  è stato creato affinché ci fosse un punto di riferimento dove approfondire la figura di Ugo in tutti i suoi aspetti. È un progetto che si è potuto realizzare grazie all’IMAIE, che fortunatamente ci ha pienamente sovvenzionato in parte quello che serviva per costruirlo, e che diventa un modo anche per i giovani di conoscere Ugo più approfonditamente: è una casa virtuale, con un mezzo così raggiungibile da tutti com’è oggi Internet, che mi sembrava doveroso fare come minimo".
Quest'anno invece Maria Sole, affermata regista  cinematografica sorella di Gian Marco, presenta il documentario Ritratto di mio padre, nell'ambito dell'omaggio che la Festa del Cinema di Roma ha deciso di dedicare ad Ugo Tognazzi nel ventennale della scomparsa: "È stata un esperienza bellissima: come regista avevo tantissime curiosità in merito e ho cercato di capire come raccontare Ugo, perché potevano esserci tanti modi. Il film è fatto al 70% di super 8 inediti che ho trovato in casa: alcuni sono dei filmati di lavoro sui set di film come La marcia su Roma e Il federale, altri sono dei filmati personali con momenti di vita di mio padre, dai bellissimi viaggi che ha fatto con Marco Ferreri e Luciano Salce all’incontro con mia madre, quando si sono conosciuti. Attraverso tutti questi filmati e le interviste che ho girato con tanti registi e attori che hanno lavorato con lui – come Bertolucci, Monicelli, Avati, Scola, Lizzani, Placido, Michel Piccoli, la Morante e la Golino – , ho cercato di ricostruire la figura di mio padre, mostrando i film che secondo me hanno rappresentato una parte importante della carriera di Ugo. Non potevo in un film di poco più di un ora raccontare la sua intera carriera, e non era neanche mio desiderio, perché erano già stati fatti altri film e speciali televisivi in cui si narrava il suo percorso artistico dall’inizio alla fine: io ho cercato di fare un film più personale e particolare, e di raccontare un padre dal mio punto di vista di figlia, andando allo stesso tempo ad analizzare delle parti di cinema che m’interessavano, come i film di Marco Ferreri e i cinque che Ugo ha fatto da regista, ma anche quando è stato chiamato in Francia per fare i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello con la Comèdie-Française e poi tutti i tornei di tennis che si facevano a Torvaianica, la cucina e la sua vita unita al suo lavoro, che poi erano la stessa cosa".

Ancora dalla prefazione di Ugo Tognazzi al suo L’abbuffone: “Dopo aver preparato una cena, la mia più grande soddisfazione è l’approvazione degli amici-commensali. E in questo, tutto sommato, non faccio ciò che mi accadeva a teatro e che ora, col cinema, mi viene a mancare: il contatto diretto col pubblico”.
Probabilmente è anche per questo che nei suoi ultimi anni di vita – quando il cinema in crisi non riusciva a offrirgli più ruoli che potessero soddisfare la sua ormai raggiunta maturità artistica – egli è tornato sulle tavole del palcoscenico, ma non più con le farse che negli anni Cinquanta ha portato con successo anche in televisione e al cinema in coppia con Raimondo Vianello, prima di affermarsi a partire dal decennio successivo come “mattatore” della commedia all’italiana insieme a Sordi, Gassman e Manfredi; bensì con testi di Moliére e Pirandello recitati persino alla Comèdie-Française.
Il cerchio così si chiude per quello che forse è stato il più naturale dei già citati “mattatori” del genere più popolare della nostra cinematografia: per questo - come affermò lo studioso Tatti Sanguineti quando curò una retrospettiva a lui dedicata nell’ambito del Festival di Taormina del 1991, a un anno quindi dalla sua scomparsa - “nessuno come Tognazzi sapeva fare un personaggio e il suo opposto: il vizioso e il moralista, il donnaiolo e l'omosessuale, il vitalista e l'autodistruttivo, il dilapidatore e lo strozzino”, riuscendo ad essere sempre straordinariamente convincente. Era il suo modo di mettersi a nudo per costringere anche lo spettatore a fare la stessa cosa, riuscendo così a spiazzare le nostre false sicurezze e preconcetti. Anche per questo ci manca.

Alessandro Ticozzi