Colin Firth, finalmente Miglior Attore

13/09/2009

Strano destino quello di Colin Firth. Per 25 anni ha calcato con decoro palcoscenici, set televisivi e cinematografici, ed è sempre rimasto relegato a secondi ruoli, senza poter esprimere al meglio il proprio talento. Alla prima vera occasione – il ruolo di protagonista in “A single man”, applaudito esordio alla regia dello stilista Tom Ford, tratto dal toccante romanzo di Christopher Isherwood sull'elaborazione del lutto – eccolo vincere, meritatamente, la Coppa Volpi quale miglior attore all'ultima edizione della Biennale Cinema di Venezia. Ma chi è Colin Firth? Per farlo identificare dai più sprovveduti bisogna dire “Lo stronzo di Shakespeare in love” o, in alternativa “il rivale di Hugh Grant in Bridget Jones”. Ma nonostante una carriera forse non esaltante, per gli esperti di cinema questa sua vittoria non è troppo una sorpresa (anche se aveva un avversario agguerrito in Viggo Mortensen). Perfetto gentleman inglese, nato nell'Hempshire il 10 settembre 1960, figlio di professori universitari, dopo un'infanzia trascorsa in Africa coi nonni missionari, si avvicina giovanissimo al teatro e, poco più che ventenne, ottiene un buon successo col dramma “Another Country”, accanto all'altrettanto giovane ed esordiente Rupert Everett. Il testo diventa un film, presentato a Cannes nell'84. Noi lo notiamo subito, ma è Everett, che ha il ruolo di maggior spicco e il giusto fascino buca-schermo, a far carriera. Continua così a far teatro, alternato a film per la televisione inglese e ad alcune pellicole poco distribuite (almeno in Italia): tra queste spiccano “Un mese in campagna”, dove dà una buona prova di sé nel ruolo di un reduce della grande guerra, accanto ad un altro giovane astro nascente, Kenneth Branagh; “Valmont” di Milos Forman, dove ha il ruolo del titolo e dove conosce Meg Tilly, che gli darà il suo primo figlio, ma che risulta fortemente penalizzato dalla precedente distribuzione del più eclatante “Le relazioni pericolose” di Frears; e “Amiche”, gentile commedia sentimentale irlandese. Finalmente arrivano, sul finire degli anni '90, due pellicole di successo planetario, “Il paziente inglese” e “Shakespeare in love”: peccato solo che nel primo abbia il ruolo del cornuto, mentre tutte le attenzioni vanno allo straordinario Ralph Fiennes, e nel secondo il ruolo principale vada ad un altro Fiennes, il più sciapo Joseph. E' invece protagonista di una delicata commedia very english, “Febbre a 90°”, tratta da Nick Hornby, ma è un film più per intenditori che per le masse. Tuttavia la sua vita vira per il meglio, dato che sposa la produttrice Livia Giuggioli, dalla quale ha due figli e con la quale vive tra Roma e Londra (i nostri giornalisti impazziscono a sentirlo parlare, perché il suo italiano è semplicemente perfetto). Anche la carriera va bene, sebbene gli capiti il curioso destino, ad eccezione che per “La ragazza dall'orecchino di perla”, in cui è un convincente Vermeer di oscuro fascino, di essere sempre “il secondo uomo”: ne “Il diario di Bridget Jones” (probabilmente il suo successo personale più significativo) divide la donna e lo schermo con Hugh Grant; nel bellissimo “False verità” (a nostro giudizio, la sua interpretazione migliore) con Kevin Bacon; in “Un matrimonio all'inglese” con Ben Barnes; in “L'importanza di chiamarsi Ernest” ancora con l'amico Rupert Everett ; “Love Actually” è addirittura un film corale, e in “Mamma mia” non solo è il secondo, ma addirittura il terzo uomo (gli altri sono Stellan Skarsgaard e Pierce Brosnan). In mezzo, delle commedia tra l'insignificante e il disastroso quali “Una ragazza e il suo sogno”, “Nanny McPhee” e “St. Trinians”. Perché questo ritardo nel trovare il ruolo giusto nel film giusto? Probabilmente per un destino comune a molti attori inglesi (pensate a un Michael Gambon, che per tutta la vita ha fatto “solo” teatro e dopo i 60 anni lo si trova in praticamente tutti i film albionici): l'essere, cioè un attore-luna, che scompare dietro il proprio ruolo, al contrario degli attori-stella, che impongono la propria personalità ai caratteri che interpretano. Un pregio, quello di essere “irriconoscibile”, che diventa un'arma a doppio taglio quando si tratta di raggiungere la celebrità. Siamo ancora pronti a scommettere che neppure ora Colin Firh riempirà le pagine dei giornali scandalistici o sarà chiamato a Hollywood a suon di dollari (a meno che non gli propongano un ruolo da cattivo in 007...), ma intanto si è portato a casa un premio quale migliore attore protagonista al Festival di Venezia: un onore che tocca a pochi, e che potrebbe addirittura porlo all'attenzione degli Oscar. Complimenti Colin, te lo sei meritato.

Elena Aguzzi