Tarantino: dai fast food anni ‘90 alla leggendaria Seconda guerra mondiale
29/09/2009
“Ve lo dico io di cosa parla Like a virgin: parla di una ragazza che rimorchia uno con una fava così. Tutta la canzone è una metafora sulla fava grossa”. Quello che avevamo imparato con il cinema di Quentin Tarantino anni ‘90, Le iene (1992) prima e Pulp Fiction (1994) poi, era che il killer non costituisce una vocazione, ma soltanto un’occupazione. I Mister Pink e Mister White, i Jules Winnfield e Vincent Vega losangelini uccidevano per mestiere, nell’orario di lavoro, soltanto se costretti (con la significativa eccezione del sadico Mister Blonde). Il resto del tempo lo passavano a riempirsi lo stomaco di junk food e la bocca di parole. Nel 1996 Bruno Fornara pronunciava perfettamente tutto ciò, scrivendo: “In Tarantino, il gangster è lavoratore salariato, piccolo impiegato. Non è neanche il “professionista” del cinema anni Sessanta: è il manovale che va ad ammazzare e parla di hamburger” (“Polpa e macinato - Il cinema in un film”, in Cineforum n. 359, novembre 1996, p. 27). Tarantino cortocircuitava la tradizione del film noir e d’azione calando i suoi gangster in una serie di situazioni quotidiane da “uomo della strada” e facendo delle scene d’azione l’eccezione piuttosto che la regola. Con un tocco innato per i dialoghi che, grazie anche al turpiloquio reiterato (“cazzo”, “merda”, “negro”, “brutto figlio di puttana”), rappresentavano delle perle di fluidità e affabulazione, da ascoltare, riascoltare, mandare a memoria e ripetere agli amici.
Fatta salva la parentesi Jackie Brown (1997), film decisamente a sé nell’epopea tarantiniana, a partire dalla sceneggiatura tratta da un romanzo di Elmore Leonard (ma la favella gangsteristica del trafficante di armi Ordell Robbie, alias Samuel L. Jackson, era ancora una volta miele per le orecchie degli spettatori), con il nuovo millennio Kill Bill (2003-2004) buttò all’aria le carte con le quali spettatori e fan di Tarantino avevano imparato a giocare e capovolse l’assunto iniziale, costruendo intorno a una squadra di killer professionisti una vera e propria mitologia, una sorta di sistema epico. Nel revenge movie spezzato in due volumi c’era ben poco che non avesse il sapore del mito e della leggenda: ridotti al minimo o eliminati del tutto i logorroici dialoghi da tavola calda che avevamo tanto amato nelle prime due pellicole, Kill Bill non lasciava spazio a digressioni gastronomiche o di cultura pop. Le scene che vedevano i protagonisti impegnati a parlare e/o masticare si potevano contare sulle dita di una mano sola; lo stesso Bill (David Carradine), nell’esprimere il proprio disprezzo verso la gente “comune”, “normale”, cioè tutte quelle persone che non sono dei killer professionisti, se la prendeva in qualche modo con cibi e bevande, spiegando a Beatrix (Uma Thurman), verso la fine della storia, al momento della resa dei conti: “Ma tu non sei un’ape operaia; sei un’ape killer ribelle. E puoi bere tutta la birra che vuoi, mangiare hamburger… e ingrassare il culo a dismisura, ma… niente al mondo cambierà tutto questo”. Il killer, ci diceva Tarantino in Kill Bill, è un eroe, e gli eroi non indulgono in occupazioni tanto prosaiche come mangiare, bere o andare in bagno. Anzi: se non ce n’è bisogno, neanche parlano. Con Kill Bill la figura del killer subiva quindi un ribaltamento radicale, passando dall’essere il “piccolo impiegato” di cui scriveva Fornara all’eroe, anzi “supereroe” celebrato dal monologo di Bill alla fine del Volume 2: “Prendi il mio supereroe preferito, Superman. Non un grandissimo fumetto, la sua grafica è mediocre. Ma… la filosofia, la filosofia non è soltanto eccelsa; è unica. […] Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere. Superman non diventa Superman; Superman è nato Superman. Quando Superman si sveglia al mattino, è Superman. Il suo alter ego è Clark Kent. […] Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole; non crede in se stesso; ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana”. Ma la mitizzazione della figura del killer passava anche attraverso elementi visivi quali la fotografia di Robert Richardson, che illuminava d’oro la soffitta del maestro di spade giapponesi Hattori Hanzo, trasformandola in un vero e proprio tempio dedicato alla katana, o i brillanti colori primari del Capitolo Cinque, “Resa dei Conti alla Casa delle Foglie Blu”. Nonché attraverso la ripresa, il riciclo (una delle costanti del cinema tarantiniano) di personaggi cinematografici leggendari, sebbene di serie B, quali Hattori Hanzo e Pai Mei: inevitabile per un esteta del pop qual è Quentin Tarantino.
A prova di morte (2007) ha rappresentato un excursus: l’assassino qui non era né un impiegato né un supereroe. Stuntman Mike (Kurt Russell) era, semplicemente e banalmente, un pazzo, uno squilibrato, un misogino maniaco omicida che prendeva di mira donne sconosciute, mai viste prima in vita sua, per poi ucciderle sulla strada. Sadico per divertimento, discendente ideale del Mister Blonde (Michael Madsen) de Le iene, che spiegava al poliziotto che si apprestava a torturare: “Allora, io non ti voglio prendere per il culo, ok? Non me ne frega un beneamato cazzo di quello che sai, di quello che non sai… Tanto ti torturo lo stesso! Eh, eh, eh! Comunque sia: non per avere informazioni; il fatto è… che mi diverte, torturare uno sbirro. Ah, puoi dire quello che vuoi, tanto non mi fa nessun effetto. Tutto quello che puoi fare… è invocare una morte rapida; cosa… che tanto non otterrai”. Eppure, in un certo senso, era proprio questa gratuità della violenza, in entrambi i personaggi, a renderla così intrigante. A prova di morte può essere considerato lo sviluppo dell’ “intuizione Mister Blonde”. Allo stesso tempo, in A prova di morte Tarantino ha cercato di rispolverare quei dialoghi in stile Pulp Fiction che nel decennio precedente avevano contribuito a renderlo un regista di culto, senza però stavolta riuscire nell’intento, probabilmente per mancanza di freschezza e spontaneità, sebbene non manchino accenni sia al cibo che alla cultura pop.
Con Bastardi senza gloria, in uscita il 2 ottobre nelle nostre sale, Tarantino riprende la posizione “filosofica” introdotta e sviluppata in Kill Bill: alle prese per la prima volta con un film di ambientazione non contemporanea, il regista sceglie come periodo la seconda guerra mondiale. E, se si vuole girare un film di ambientazione storica, cosa c’è di più epico, in un certo senso, del conflitto 1939-1945? Insieme alla guerra del Vietnam, la seconda guerra mondiale rappresenta probabilmente la dimensione più gravida di epicità per l’età contemporanea, per il XX e XXI secolo.
Esempio: Tarantino omaggia alcuni dei suoi personaggi con i fermi immagine e le didascalie a caratteri gialli già utilizzati in Kill Bill, come a volerli consegnare all’immortalità della memoria (se la storia a scuola si studiasse così, sarebbe meno rigorosa ma rimarrebbe un po’ più impressa). Ma gioca anche con lo spettatore quando, nel Capitolo Cinque, nel cinema gremito di nazisti identifica alcuni personaggi con dei nomi e delle frecce sovraimpressi a mo’ di appunti sulla lavagna, riprendendo il vezzo che in Pulp Fiction faceva tracciare a Mia Wallace (Uma Thurman) un rettangolo nell’aria con la sola forza delle dita. Nell’un caso e nell’altro, comunque, la grafia rafforza l’esistenza del personaggio; cosa a cui un Mister Pink o un Vincent Vega non avrebbero mai potuto aspirare. Altro esempio: la colonna sonora di Bastardi senza gloria, come il Volume 2 di Kill Bill, viene eretta soprattutto sulle fondamenta del Morricone western. Il western, non a caso, è uno dei generi cinematografici più carichi di epicità: negli anni ‘60 la rivoluzione di Sergio Leone e degli altri maestri dello spaghetti western fu quella di invertire la rotta fin lì tracciata dai colleghi americani portando per la prima volta sullo schermo dei non-eroi, degli antieroi, che lungi dal rappresentare e perseguire il Bene, non facevano altro che i propri interessi, più o meno egoistici e utilitaristici: ladri, bounty killer, uomini in cerca di vendetta… Eppure le pellicole di Sergio Leone sono la quintessenza del sentimento epico, grazie in larga misura all’accompagnamento musicale, in grado di evocare una dimensione, un’atmosfera da leggenda. Ma la genialità di Tarantino per gli abbinamenti musicali va come sempre oltre la calligrafia morriconiana: all’inizio del Capitolo Cinque il David Bowie di “Cat People (Putting Out the Fire)” esalta la “vestizione” di Shosanna (Mélanie Laurent) sprigionando una potenza paragonabile, in termini cinematografici, a quella degli Urge Overkill di “Girl, You’ll Be a Woman Soon”, quando in Pulp Fiction Mia Wallace ballava di ritorno dal Jack&Rabbit Slim’s, inebriata dalla serata trascorsa insieme a Vincent (John Travolta). O analoga all’entrata in scena, in Kill Bill Volume 1, di O-Ren Ishii (Lucy Liu) e del suo seguito alla Casa delle Foglie Blu, sulle note scolpite nella pietra di “Battle without honor or humanity” di Tomoyasu Hotei. Tutte scene accomunate da un fortissimo senso di attesa generatore di tensione; ma se Mia Wallace si dimenava in maniera scomposta e O-Ren e i suoi fedelissimi camminavano al rallentatore lungo un corridoio, Shosanna è quasi immobile, bellissima e statuaria, appoggiata di spalle alla parete. Si tratta di una delle scene migliori di Bastardi senza gloria, seducente per l’occhio non meno che per l’orecchio: i toni scarlatti del vestito e del rossetto della bionda riverberano il colore dei vessilli nazisti pendenti dalle pareti del cinema, ormai pronto per la prima del film “Nation’s Pride”; ciliegina sulla torta, il velo nero che cala sul volto della donna.
Terzo: la storia dei personaggi di fantasia, i Bastardi e Shosanna, si intreccia e si scontra con la Storia dei nazisti realmente esistiti, Goebbels e Hitler in primis: e cosa c’è di più epico di un gruppo di soldati e di una ragazza sfuggita alle SS, tutti ebrei, che tramano un attentato a Hitler e alle più alte sfere del nazismo? Un argomento affrontato, l’anno scorso, anche dal film Valkyrie di Bryan Singer (questo però tratto da una storia vera); una tematica dall’attrazione irresistibile, visto che un esito positivo di una simile impresa, più di sessant’anni or sono, avrebbe significato uno sconvolgimento della Storia europea e mondiale e quasi sicuramente un presente molto diverso da quello che oggi viviamo. Dal canto loro, i nazisti del film celebrano, proprio con la prima di “Nation’s Pride”, l’eroe di guerra (e di fantasia) Fredrick Zoller (Daniel Brühl), che da solo ha difeso per quattro giorni un’intera città assediata, abbattendo centinaia di nemici, come Black Mamba contro gli 88 folli in Kill Bill Volume 1. Dunque, se la guerra tende naturalmente a fare di chi la combatte degli eroi, Tarantino cavalca in Bastardi senza gloria questa tendenza per proiettare nella dimensione del mito e della leggenda i suoi Bastardi. Che sono ben consapevoli di cosa stanno facendo, e senza dubbio lo fanno anche un po’ per quella gloria che, a dispetto del titolo del film, sanno benissimo che gli pioverà addosso: “I tedeschi avranno la nausea di noi; parleranno di noi; e avranno paura di noi”. Parola del sornione tenente Aldo Raine (Brad Pitt). In Bastardi senza gloria di parole ce ne sono molte di più che in Kill Bill, ma come in A prova di morte, purtroppo, manca quel tocco magico che rendeva certi mono/dialoghi dei capolavori di retorica musicalità. La macchina da presa torna tuttavia a indugiare su cibi e bevande, suscitando stavolta il compiacimento di noi europei: non più hamburger e frappè da cinque dollari, ma uno strudel con panna al ristorante, un fiasco di vino e boccali di birra all’osteria francese.
Eroi, miti e leggende sullo schermo, ma anche dello schermo. Tra le tante virtù di Tarantino, innegabile è quella di scoprire o rilanciare attori grandi e meno grandi, sdoganandoli spesso dalla serie B alla serie A, almeno per qualche istante di gloria. Se dici “Pulp Fiction” pensi subito a Uma Thurman e John Travolta. Jackie Brown ci fece scoprire Pam Grier, attrice di blaxploitation anni ‘70. Quanti avrebbero pianto, o anche solo notato, la morte di David Carradine, nel giugno scorso, se qualche anno fa non avesse legato per sempre il suo nome a quello di (Kill) Bill? A prova di morte è stato il tentativo (finora non riuscito, in verità) di dirci che Kurt Russell è ancora vivo. Per Bastardi senza gloria un grandissimo “in bocca al lupo” va a Christoph Waltz e Mélanie Laurent, degli autentici fenomeni di cui l’Europa deve andare orgogliosa, che purtroppo per i prossimi mesi non avremo modo di vedere nelle sale italiane: il primo, al momento, è impegnato soltanto sul set di The Green Hornet (chi rammenta la colonna sonora di Kill Bill sentirà tintinnare un campanellino) di Michel Gondry, la cui uscita è prevista per la fine del prossimo anno (ma almeno significa che, finalmente, anche il “grande cinema” si è accorto di lui); per Laurent Le concert di Radu Mihaileanu (Train de vie, 1998, è probabilmente il suo film più conosciuto), una commedia in cui interpreta la violinista Anne-Marie Jacquet, uscirà il 4 novembre prossimo... ma soltanto in Francia. Così vicini, eppure così lontani, nell’Europa del XXI secolo; in mancanza di meglio, possiamo almeno sbirciare il trailer d’oltralpe: http://www.leconcert-lefilm.com/. Augurandoci che Tarantino la voglia di nuovo per il suo prossimo film, magari per farla accapigliare in una furiosa cat fight con Uma Thurman: Quentin, come Bill, ha un debole per le bionde…
Giulio Brillarelli