Luigi Zampa, il regista proletario vicino alla gente comune
20/11/2009

“Luigi Zampa era un grande regista e un vero signore, molto carino, gentile ed educato: sapeva fare molto bene il suo lavoro e spiegava le scene in modo molto dettagliato, soprattutto quando aveva ammirazione e stima per l’attrice o l’attore con il quale lavorava. Con me è stato sempre molto delizioso, e devo dire che ho lavorato molto bene con lui: era un regista che non andava mai fuori dei limiti, era molto semplice e bravo”.
Così Silvana Pampanini ricorda il regista romano, la cui opera completa lo scorso ottobre alla Festa del Cinema di Roma è stata oggetto di una personale curata da Mario Sesti, in quanto, come egli stesso spiega, “Zampa, al di là della complessità, degli spessori e della complicazione originale del suo profilo di autore e filmaker, è forse l'ultimo dei ‘ricostruttori’ del cinema italiano (da Visconti a Germi), su cui la critica, e i festival, non avevano ancora posato un occhio attento e autorevole”.

La celebre attrice, popolare “maggiorata” degli anni Cinquanta, con Zampa ha avuto uno dei suoi ruoli di maggior rilievo, quello di Liliana Ferrari, intrattenitrice in una casa di appuntamenti la cui canzone eseguita durante un interrogatorio collettivo, Tradimento, sarà la chiave di risoluzione di un delitto d’onore maturato negli ambienti della camorra napoletana di inizio secolo scorso che coinvolge un ampia fetta della società bene locale, che l’integerrimo giudice Spicacci (Amedeo Nazzari in uno dei suoi ruoli più complessi e meno manichei) non esiterà a rinviare a giudizio: e appunto “Processo alla città” (1952) è il titolo di questo vigoroso dramma giudiziario – ispirato al realmente accaduto caso Cuocolo – che per diversi aspetti anticipa il cinema di denuncia civile che sarà di là a venire (non a caso il soggetto è firmato anche da Francesco Rosi, che sarà il regista più rappresentativo del genere). “Un monile di compattezza ma anche di chiaroscuri noir” lo definisce Sesti, che però, circa il complesso della sua opera, ci tiene a precisare: “Credo che più di denuncia civile, nel caso di Zampa sia più giusto parlare di vera e propria etica della giustizia. Ciò che muove l'indignazione e il cuore dei suoi film più personali è infatti una profonda reazione al torto, alla radicale intollerabilità dell'impossibilità di equità, imparzialità, sanzione dei crimini e dei soprusi: anche in modo immediato e quasi naif, ma sempre così accorato da contenere in sé sfumature di scetticismo, e (quasi) disperazione”.

Elementi infatti presenti sin dalle commedie popolaresche d’ispirazione neorealista che gli hanno dato il successo: “Vivere in pace” (1946) e “L’onorevole Angelina” (1947), rispettivamente interpretate dai due attori simbolo del genere che aveva rilanciato il nostro cinema in tutto il mondo, Aldo Fabrizi e Anna Magnani, nei panni di due personaggi del popolo destinati a venire travolti da eventi più grandi di loro (la repressione nazista nel primo caso, gli intrighi della politica nell’altro), scrutati però con quello sguardo bonario ma al tempo stesso attento ai loro problemi quotidiani che rimarrà il tratto costante dell’opera di Zampa, non a caso egli stesso d’estrazione proletaria (era figlio di un ferroviere socialista).

L’apice della sua ispirazione creativa lo raggiungerà però realizzando in collaborazione con Vitaliano Brancati un ideale trilogia di costume – ambientata in quella Sicilia cara allo scrittore in quanto sua terra natìa – con cui intendeva inquadrare in toni satirico-grotteschi il fascismo, per poi constatarne amaramente il prosieguo negli intrallazzi del dopoguerra. Anche qui a pagarne lo scotto è sempre la gente comune: in “Anni difficili” (1948) l’onesto impiegato municipale Piscitello (Umberto Spadaro), che alla caduta del regime verrà epurato proprio da colui che, quand’era podestà, gli aveva imposto di tesserarsi; in “Anni facili” (1953) il professor De Francesco (Nino Taranto alla sua migliore interpretazione, giustamente premiata col Nastro d’Argento), destinato a venir travolto dalla corruzione di certa burocrazia romana e a pagare lui solo con il carcere per personalità ben più in alto di lui. Mentre chi riesce sempre a rimanere a galla, traendo vantaggi da qualunque contesto politico, sono coloro che sono pronti a passare da una parte all’altra, a seconda di dove tira il vento, come Sasà Scimoni, il protagonista di “L’arte di arrangiarsi” (1955): Alberto Sordi in uno dei suoi primi folgoranti ritratti di italiano medio opportunista.
Come del resto conferma lo stesso Sesti, “il sodalizio con Brancati è un momento chiave nella filmografia di Zampa. Un sodalizio così ravvicinato tra uno scrittore ed un regista che hanno traiettorie, personalità, tecniche e formazioni così diverse, è davvero raro: mi viene in mente, in un contesto straordinariamente diverso, il sodalizio tra Losey e Pinter. Si tratta, in ogni caso, di un pratica prolungata e sorprendente, durante la quale un uomo di cinema attinge a piene mani dall'universo e la narrazione di uno scrittore, pur rimanendo con i piedi ben piantati nei valori produttivi del suo cinema e nell' efficacia, a volte anche sbrigativa, della sua regia”.

Questa trilogia avrà un appendice nel 1962: “Anni ruggenti”, liberamente ispirato all’Ispettore generale di Gogol, con Nino Manfredi nei panni di un ingenuo assicuratore che, in una cittadina meridionale, viene erroneamente scambiato per un gerarca in incognito, mentre un medico antifascista (Salvo Randone) gli aprirà gli occhi sugli intrallazzi che si consumano all’ombra del fascismo in cui tanto credeva. Ma, nonostante il gradevole risultato, reso tale anche dalla valenza degli interpreti (oltre a Manfredi e Randone, sono da menzionare anche Gino Cervi nei panni del podestà della cittadina, Michèle Mercier – la futura Angelica dell’omonima serie di film avventurosi – in quelli della figlia e Gastone Moschin in quelli del segretario politico), si sente la mancanza degli umori acri di Brancati, scomparso improvvisamente nel 1954: questo drammatico evento segnerà una crisi nella migliore vena satirica di Zampa, che, dopo un discreto adattamento da Moravia (“La romana”, 1954), si divise tra quella commedia all’italiana ormai definitivamente sbocciata e il dramma sociale.

E se nel primo campo riuscirà a dare ancora esiti apprezzabili – specie negli anni Sessanta, regalando due grandi successi ad un Sordi nella sua forma migliore (“Il vigile”, 1960; “Il medico della mutua”, 1968), mentre trascurabile rimane il suo ultimo film, la mediocre commediola ad episodi “Letti selvaggi” (1979) – nel secondo titoli quali “Il magistrato” (1959), “Bisturi la mafia bianca” (1973), “Gente di rispetto” (1975) e “Il mostro” (1977) segnano un accentuarsi della sua vena polemica, che però al contempo si arrozzisce, cadendo purtroppo sovente in facili effetti melodrammatici, e rimanendo pertanto lontano dagli ottimi esiti di quello che rimane il suo capolavoro, il già citato “Processo alla città”.
E pur tuttavia rimane impressa in chi ha amato il suo cinema, come Mario Sesti, “quella grande comunicatività che Zampa possedeva in maniera naturale qualsiasi genere frequentasse: commedia, dramma sociale, satira, noir. In questo, credo sia tra i pochi registi del dopoguerra a possedere quella plasticità e quella versatilità nell'ideazione e nell'esecuzione della lingua del cinema, che erano tipici dei registi hollywoodiani almeno fino alla metà degli anni Sessanta. Non ha mai fatto un film per il pubblico che non contenesse qualcosa che, innanzitutto, facesse riflettere o indignare o sorprendere lui per primo. Non si è mai preso sul serio come artista, se non come tecnico affidabile, regista colto, filmaker adattabile ricco di sensibilità nei confronti del mondo degli altri. Ho incontrato una volta sola Zampa, credo nel 1980. Avevo poco più di 20 anni, non ero nessuno e mi accolse nel suo salotto per una chiacchierata amabile e affettuosa come se ci fossimo conosciuti da anni: aveva un modo di temperare le sue amarezze e di trasmettere senza solennità la sua intelligenza che, credo, sia anche stato il segreto del suo modo di abitare il cinema italiano, con humour e sobrietà”.
Da mercoledì 9 Dicembre la Cineteca Spazio Oberdan di Milano dedica una rassegna a Luigi Zampa
Alessandro Ticozzi