“Mio padre Vittorio, una vita da mattatore dietro le spalle”: incontro con Paola Gassman
29/06/2010

Vittorio ha esordito ventenne e fu subito primo attore, spaziando dal teatro classico (Amleto, Edipo, Otello, Adelchi) a quello moderno (Betti, Sartre, Zardi, ecc.): secondo Lei, che impronta ha lasciato in entrambi i settori?
“Io penso un’ impronta considerevole: mi sembra che nel teatro abbia portato veramente fino in fondo tutta la sua capacità, anche se fu una scoperta un po’ casuale, perché lui in realtà avrebbe voluto fare più lo scrittore che l’attore, e sua madre, iscrivendolo all’Accademia, gli ha fatto fare questo mestiere, che però poi gli è riuscito molto bene. Il teatro sembrava quindi essere la sua natura predominante, perché gli permetteva di usare una fisicità molto estroversa, forte e ginnica, nonché di modificare la propria voce e di fare tanti miglioramenti. Il cinema venne molto più tardi perché, pur avendolo fatto fin da subito, lo ha scoperto con un po’ di ritardo, comprendendo come doveva affrontare questo mezzo: però anche lì si è alfine affermato, con l’aiuto di grandi registi. Quindi direi che è stato un attore a tutto tondo: dove ha lavorato, ha portato avanti il suo discorso.”
Appunto al cinema, Vittorio è ricordato soprattutto – insieme a Sordi, Tognazzi e Manfredi – come “mattatore” della commedia all’italiana, nella quale ha colto i suoi maggiori successi diretto da Mario Monicelli (I soliti ignoti, 1958; La grande guerra, 1959; L’armata Brancaleone, 1966), Dino Risi (Il sorpasso, 1962; I mostri, 1963; Profumo di donna, 1974; Anima persa, 1977; Caro papà, 1979; Tolgo il disturbo, 1990) ed Ettore Scola (C’eravamo tanto amati, 1974; La famiglia, 1987; La cena, 1998): secondo Lei, ciascuno di questi tre registi cos’ha saputo cogliere meglio di Suo padre?
“Monicelli è stato il vero scopritore del Gassman cinematografico, cioè ha capito che questo suo fisico così imponente non riusciva ad essere giusto per il cinema, e quindi lo ha modificato fisicamente e gli ha fatto scoprire la comicità e la caratterizzazione del personaggio, permettendogli di conquistarsi le simpatie di un pubblico sempre più largo: sicuramente a lui va la gratitudine per aver fatto questa scoperta che gli ha permesso poi di amare il cinema e quindi di fare questa professione in tutti i sensi, non solo da caratterista. Risi è stato il regista del periodo migliore, quello del Sorpasso e degli altri film da mattatore, quindi lui, già appunto confortato da questo nuovo successo cinematografico, ha espresso al meglio un lato un po’ forzato del suo carattere, che è quello dell’essere molto estroverso e gigione, costruito talmente bene da sembrare vero, anche se in realtà la sua natura non era questa: ecco quindi il grande attore che si manifesta anche nel saper essere diverso da come in realtà nella natura sarebbe stato. Scola è stato quello che invece nella maturità, in alcuni film che secondo me sono fra i più belli, gli ha permesso anche una certa dolcezza, cioè lo ha descritto esattamente come Risi lo aveva in qualche modo esaltato, accompagnandolo però fino alla malinconia, alla depressione e alla tristezza del declino umano: pur triste, è però un qualcosa che ad un attore dà modo di esprimersi in una gamma di sentimenti molto profondi.”

Sempre per il cinema, Suo padre diresse sporadicamente sé stesso in alcuni film (Kean, 1957; L’alibi, 1969; Senza famiglia, 1972), però non riuscì a crearsi una carriera di regista cinematografico che avesse una certa continuità, al contrario di quanto avvenuto per lui con successo sulle scene: come mai, secondo Lei?
“Io direi che anche sulle scene non ha raggiunto questo: credo che, se c’era – come ci deve essere – una piccola cosa che si fa meno bene perché meno adatta al tuo carattere, per lui era proprio la regia. Papà aveva infatti bisogno non tanto di essere guidato – ma quando si è guidati da grandi registi è sempre un bene – quanto di essere dall’altra parte. Nel momento in cui doveva orchestrare le cose, usciva infatti una certa impazienza da parte sua: lui non ha mai sopportato molto i tempi lunghi, le pause, le meditazioni… aveva bisogno di avere subito il prodotto, e questa sua fretta mascherava una certa insicurezza e non lo non lo aiutava a creare un lavoro omogeneo e meditato fino in fondo, mentre questo lo poteva fare da attore, perché veniva costretto in tempi adatti alla lavorazione. Ciò in teatro traspariva meno, perché chiaramente sulle scene il ritmo è qualcosa di molto ferrato e può funzionare; il cinema ha dei tempi molto diversi, e lì lui perdeva un po’ la pazienza di condurre fino in fondo il suo pensiero.”
Dopo una prima sfortunata trasferta hollywoodiana, a seguito del clamoroso successo ottenuto nel 1949 con Riso amaro di De Santis, dalla fine degli anni Settanta Vittorio è riuscito a farsi apprezzare anche all’estero lavorando con registi quali Altman (Un matrimonio, 1978), Mazursky (La tempesta, 1982), Delvaux (Benvenuta, 1983), Resnais (La vita è un romanzo, 1983), Camino (Il lungo inverno, 1991) e Levinson (Sleepers, 1996), eppure non è mai riuscito ad affermarsi appieno sul piano internazionale: come mai, secondo Lei?
“Intanto bisognerebbe domandarsi chi dei nostri attori, o comunque degli europei, è riuscito in questo intento al cento per cento: sono sempre momenti sporadici, occasioni, situazioni, perché il cinema americano ci tiene molto alla lingua, si fonda sui propri attori e non dà poi tutto questo spazio. Insomma, è qualcosa di molto difficile: in realtà, per alcuni film che hanno avuto successo, lui era piuttosto famoso in alcuni Paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra. Però papà non era una persona estremamente paziente ed era anche molto ironico e critico: per esempio, quel suo periodo hollywoodiano della prima metà degli anni Cinquanta lui non lo sopportava molto. La mentalità della cinematografia americana non lo coinvolgeva fino in fondo e non ha avuto la pazienza di sopportare determinate cose, anche se magari in nome di un successo più grosso, e quindi ha preferito tornare indietro: poi le occasioni ci sono state e le ha sempre sfruttate al meglio, ma è quando tu sei in loco che fai una carriera a tutto tondo, ed è molto difficile per noi italiani sopportare dei meccanismi che tutto sommato non ci riguardano molto, anche a scapito di quello che può essere il grande successo internazionale.”
Come mai, infine, dagli anni Ottanta Vittorio intensificò la sua carriera teatrale (Affabulazione, 1984; Ulisse e la balena bianca, 1992; Camper, 1994; Parole fedeli e infedeli e Anima e corpo, talk show d’addio, 1996) e iniziò persino un attività letteraria (Memorie del sottoscala, 1990; lo stesso Ulisse e la balena bianca e Mal di parole, 1992; Lettere d’amore sulla bellezza, 1996), tralasciando sempre più il cinema, dopo che nei due decenni precedenti era avvenuto l’esatto contrario?
“Sicuramente credo che nel teatro mio padre vedesse un po’ la sua origine, il suo essere a tutto tondo un attore, e anche una certa libertà che lui appunto agognava molto – quella di poter fare le proprie scelte, di poter interpretare i personaggi che preferiva, di esprimersi al meglio facendo un po’ tutto lui, nel senso delle decisioni, dei tempi e di tutto quello che comporta il teatro. Sicuramente lui era un animale da teatro: il cinema lo aveva scoperto ed amato, ne sapeva l’importanza, però i tempi, le burocrazie, le situazioni e i compromessi facevano sì che solo se era una vera e propria occasione lui accettava. Per la scrittura è diverso: in realtà papà ha sempre detto che avrebbe voluto fare solo lo scrittore, era la sua professione perché gli permetteva di approfondire il suo pensiero e di essere solo con sé stesso. Lui in realtà era un introverso, e, per fare la professione dell’attore, ha dovuto modificare di molto il suo carattere – cosa che negli ultimi anni ha un po’ pagato, perché questa trasformazione nel suo carattere gli è costata poi una certa depressione che lo ha colto nella maturità e che, come tutti sappiamo, è stata una malattia che lo ha accompagnato fino alla morte. Nella depressione lui trovava un enorme conforto nello scrivere, perché lo scrivere è un po’ un viaggio psicanalitico in cui tu riesci ad affondare la lama anche molto in profondità, e quindi lui ha sentito il bisogno di accostarsi alla scrittura, arrivando addirittura alla poesia, e la poesia è l’essenza di tutto questo, e devo dire che ha lasciato delle opere niente male.”

Parafrasando nel titolo la pubblicazione forse più celebre di Vittorio, l’autobiografia Un grande avvenire dietro le spalle, tre anni fa Lei ha pubblicato con Marsilio Una grande famiglia dietro le spalle, con la quale ha voluto raccontare “la straordinaria storia di tre generazione d’attori”: cosa Le ha lasciato questa storia?
“Ho sentito proprio l’esigenza di farlo perché, come scrivo all’inizio del libro, lo avevo promesso a mio padre tanti anni fa quando uscì la sua biografia. Lui mi disse che dovevo farlo, per raccontare anche di tutti gli altri miei illustri avi che vengono dalla parte materna che lavorarono solo in teatro, non avendo quindi quella fama più duratura (si sa, in teatro si scrive un po’ sull’acqua), e pertanto mi sentivo quasi in dovere di farlo. Devo dire che è stato un viaggio meraviglioso, in cui ho capito molto perché papà amasse tanto la scrittura, giacché, se poco a poco hai la possibilità di poterti sperimentare, ti dà modo di rivalutare tante cose, di rimettere ordine nei tuoi ricordi e forse di realizzare quello che la psicanalisi cerca di fare attraverso delle sedute: io l’ho fatto invece con la piacevolezza di scrivere quello che inizialmente era solo per me e per la mia famiglia. Per bontà della Marsilio, è poi diventato un libro, perché forse è bene lasciare una testimonianza di una famiglia abbastanza anomala: forse non la si potrebbe definire tale – perché è del tutto diversa, molto allargata e piena di problematiche – ma in fondo, come scrivo alla fine, è veramente una grande famiglia che ci lega tutti. A tutti ha dato molti dolori, ma soprattutto tanta gioia nell’aver avuto la possibilità di fare un mestiere che ci ha accomunato.”
A dieci anni dalla scomparsa, cosa Le manca di più di Vittorio come padre e come artista?
“Come padre mi manca tutto della sua presenza, anche se in realtà ho spesso detto che lui era abbastanza negato per fare il padre, soprattutto nei miei riguardi, giacché mi aveva avuta a ventitre anni – un’ età in cui non si può essere un padre maturo – e poi all’inizio della sua sfolgorante carriera. Quindi il nostro è stato un rapporto che abbiamo dovuto riguadagnare nel tempo, ma che alla fine abbiamo recuperato: non era portato a fare il padre, ma alla fine – e questo è stato il libro che me lo ha fatto capire al massimo – è stato un grande padre, perché con ognuno di noi – siamo quattro figli di madri diverse – ha creato un rapporto così particolare ed unico che ci ha accomunato e ha fatto sì che il nostro legame, al di là del frequentarci o meno, fosse veramente concentrato, e probabilmente concentrato soprattutto su di lui. Come uomo di spettacolo mi manca la sua onestà intellettuale, il suo essere coraggioso, sempre molto generoso ma allo stesso tempo critico nel capire i cambiamenti sociali e volerli affrontare, ma anche criticarli e non esserne schiavo. Insomma, mi manca il suo talento, che è abbastanza unico e che non ritrovo in molti: era un enorme punto di riferimento per tutti noi che facciamo questo mestiere.”
Alessandro Ticozzi