I gangster

03/07/2008

Il cinema è stato spesso affascinato dalla figura del gangster, sia per l’alone di eroe-antieroe, contro tutte le regole tranne le proprie, sia per il mondo “morale” che costituisce queste norme, che lo stesso cinema ha amplificato e reso leggendario. Quello dei gangster è infatti un mondo a parte, chiuso in clan con proprie regole di legge e d’onore, che mostra marche di distinzione dal resto del consorzio umano con un proprio linguaggio e modo di vestire. Fulcro del loro mondo è la “Famiglia”, intesa sia in senso improprio di clan, sia in senso stretto di sangue. È proverbiale il loro attaccamento e rispetto per la madre e il padre (e il padrino), ma sul grande schermo ci si è spinti anche oltre, mostrando la morbosità di vincoli famigliari che non escludono l’incesto o l’omicidio all’interno del proprio gruppo.
Prototipo del gangster che pone la famiglia avanti tutti, rischiando per questa la propria pelle, è lo Scarface di Howard Hawks, interpretato da Paul Muni, legato alla sorella da un rapporto sottilmente incestuoso. Se il genuino affetto per la madre lo spinge ad accumulare soldi spietatamente, quello morboso per la sorella è la sua rovina: per lei commetterà un omicidio di troppo, per stare con lei si farà braccare e, con lei assediato e da lei incoraggiato, preferirà farsi ammazzare che arrendersi (v. foto). Curiosamente, la censura dell’epoca si avventò contro questo film massacrandolo (ancora oggi siamo ben lontani dal veder il director’s cut), non per l’ambiguo rapporto tra i due, ma perché il protagonista era sì un infantile irresponsabile, ma anche bello e fascinoso, col rischio di spingere gli spettatori ad emularlo!
È del ‘49 un capolavoro sul tema “gangster e madre”, La furia umana, di Walsh. Il protagonista è un vecchio delinquente ancora molto energico e sagace, interpretato brillantemente da James Cagney che però dipende patologicamente  dall’amatissima madre, al comando di tutte le sue operazioni. Quando, in una pausa in galera, viene a sapere della sua morte, ha un leggendario sfogo di rabbia impotente e dolore; dopodiché perderà la direzione, crederà nell’amico sbagliato, un infiltrato ( si potrebbe aprire una lunga parentesi su altri due temi-cardine del cinema gangsteristico, l’amico traditore, e il rapporto padre-figlio che spesso si instaura tra anziano gangster e giovane infiltrato), e morirà epicamente in un’impresa “larger than life”.
Il padrino, specie la parte seconda, ci mostra poi una famiglia sottomessa alle regole d’onore ancor più che a quelle del sangue, dove i protagonisti, pur difendendo il nucleo famigliare con le unghie e coi denti, non esitano a spacciare gli elementi che, al loro interno, rischiano di indebolire il clan: è quasi commovente come il fratello idiota (John Cazale) viene “necessariamente” soppresso dal rampante Pacino. E gli esempi di film gangster che si svolgono in famiglia, dai matrimoni alle uccisioni, potrebbe seguitare a lungo, con esempi eccellenti come Quei bravi ragazzi, o il quasi dimenticato L’onore dei Prizzi, una commedia noir al vetriolo dove marito e moglie sono killer professionisti, con l’ordine di eliminare il coniuge.
Non è invece un film strettamente “gangster”, ma va citato in questo contesto anche “La caduta degli dei” di Visconti: l’ascesa e caduta di una famiglia che si macchia di delitti per ottenere soldi e potere, e i legami pericolosi e omicidi tra i membri della famiglia, sono tipici del genere, e degno di un Cagney o di un Muni è il Martin di Helmut Berger, psicopatico e affascinante, che seduce la madre spingendola alla follia e poi l’uccide per prenderne il posto al comando della ditta.

Punte di diamante su questi temi sono, infine, “Il clan dei Barker” di Roger Corman e “Luna rossa” di Antonio Capuano. Quest’ultimo racconta, tra parodia, tragedia greca e versi shakespeariani, delitti e nemesi di una cosca di camorristi. Stare dietro a tutti gli intrighi, intrecci e assassinii in poche righe è pressoché impossibile, ma va citata almeno Licia Maglietta nel ruolo di ape regina seducente e un po’ camp, che verrà castigata proprio dall’amato figliolo. Il film di Corman, invece, vede Shelly Winters indimenticabile Bloody Mama, matriarca, al tempo della Depressione, di un gruppo di ragazzi un po’ deficienti che lei domina e spinge a imprese criminose, organizzando piani, decidendo chi devono uccidere e chi no, difendendoli. Nei momenti di pausa, trova il tempo di andare a letto col ragazzo di uno di loro, e coi figli stessi. Alla fine, scoperta la gang grazie all’unica disobbedienza di un figlio, li vedrà, con indicibile strazio, cadere uno a uno sotto i colpi della polizia e finirà a sua volta crivellata mentre urla “i miei bambini!”. Da una storia rigorosamente vera. 

Elena Aguzzi