Nell’Inghilterra vittoriana, un uomo di nome John Merrick, sofferente
di una orrenda forma di neurofibrosi che gli aveva colpito il corpo e,
soprattutto, il cranio fu salvato dallo sfruttamento come fenomeno da
baraccone da un medico, Sir Frederick Treves, che gli dedicò attenzione
umana oltre che medica (ma, bisogna dirlo, maggiormente la seconda),
anche se non poté impedirgli di morire anzitempo, né tantomeno curarlo.
Dalle
sue memorie David Lynch realizzò, nel 1980, uno dei film più belli e
terribili mai visti, “The Elephant Man”, dal soprannome che era stato
dato al povero Merrick, Uomo-Elefante.
Le ragioni per amare questo
film sono tante: estetiche (la bellissima fotografia in bianco e nero
di Freddie Francis, la recitazione, alcune sequenze da antologia come
quella della fuga dal circo effettuata con l’aiuto di nani ed altri
esseri deformi), metacinematografiche (i rimandi all’espressionismo e
ad un altro terrificante film sui mostri di natura, il “realistico”
“Freaks” di Todd Browning), emozionali (impossibile non piangere o
inorridirsi di fronte al patetico destino di John Merrick),
intellettuali (il cinema è voyeurismo che mette alla berlina la
crudeltà insita nel voyeurismo), psicologiche (l’effetto dirompente
della diversità fisica non solo in chi la soffre, ma anche in chi la
testimonia, con le diverse reazioni possibili:curiosità, orrore,
commiserazione, vampirismo).
Tuttavia, uno degli aspetti più
originali della pellicola è il “significato” di questa elefantiasi: non
lato oscuro di ognuno di noi, come la deformità nel già citato
“Freaks”, ma specchio del nostro inconscio, non necessariamente
inquietante, ma semplicemente “diverso” dal nostro conscio e dal nostro
involucro esteriore. E’ come se l’Uomo-Elefante vivesse “rivoltato
all’esterno”, con la parte più strana e sensibile dell’essere umano a
contatto col mondo; i veri mostri sono gli altri, e non per demagogia:
superato il primo impatto con la vista dell’essere informe, lo
spettatore a poco a poco si abitua e finisce col trovarlo meno
“brutto”, per esempio, del suo viscido aguzzino.
Se in “Freaks” – e
nel comune modo d’intendere gli Uomini-Elefante – la diversità fisica è
un castigo per i malvagi (la scena in cui i mostri strisciano nel fango
per fare giustizia dei due artisti circensi che li avevano sbeffeggiati
è una delle più impressionanti che siano mai state girate), qui è solo
il veicolo per un’ingiusta umiliazione, come potrebbe esserlo una
diversità psichica o sessuale. Non c’è nulla di crudele o violento in
questo film anti-horror se non il modo in cui John Merrick viene
trattato dagli altri, “buoni” compresi. E la coscienza che è una storia
ve