“Il
diverso non verrà mai accettato veramente. Per quanto la società faccia il
possibile per promuovere programmi di integrazione… il suo destino è quello di
restare per sempre solo.”
Sono parole di Tim Burton, pronunciate in occasione
dell’uscita di “Edward Mani di Forbice” con Johnny Depp, alla sua consacrazione
cinematografica, nella parte di una miserabile creatura partorita dalla mente
malata di uno scienziato, rinchiuso nella tetra solitudine del suo castello,
che aveva avuto la dabbenaggine di morire prima di aver compiuto, a vantaggio
del nostro piccolo Frankenstein, le parti somatiche più umanamente
significative per il genere umano: le mani, lasciandogli in loro luogo delle
gelide, taglienti forbici. Una favola gotica impreziosita da straordinarie
trovate scenografiche (l’intera vicenda è una novella raccontata, si arguisce
nell’incipit, da una vecchia nonna nella tristissima stanza della sua
intimorita nipotina) e da humor nero che molti potrebbero trovare stucchevole,
ma che, in verità, motteggia l’ipocrita perbenismo del ceto medio americano.
Dopo esser stato accolto con timore, Edward diventa un’attrazione circense,
fino ad assurgere a oggetto del desiderio di una attempata parrucchiera della
cittadina. Il rifiuto di “lui”, o meglio, la sua ovvia incapacità di rendere
pertinenti le proposte, causano l’ira funesta della vegliarda, altri incidenti
e la definitiva cacciata di “Mani di Forbice” dal consorzio umano. Con l’aiuto
di una ragazzina, riuscirà a far perdere le sue tracce nell’antico maniero, e
per il resto della sua vita, forse eterna, il nostro mostro indifeso si
dedicherà all’unica cosa che sapeva fare egregiamente: potare artisticamente le
siepi con i suoi arti sintetici e scolpire il ghiaccio, ricavando da un gelido
blocco le forme della sua salvatrice tanto amata ma naturalmente mai raggiunta.
E quando nevica, racconta la nonna, Edward è lassù, che scolpisce il suo
ghiaccio, per sempre. Un finale da brivido, una morale raggelante e una
tristezza che fatica a lasciare lo spettatore, ma questo è Tim, un genio.
Non meno funereo è il primo capitolo di Batman, con
Michael Keaton e Jack Nicholson, quest’ultimo il Joker. “Danzi mai col diavolo
nel pallido plenilunio? Dico così a tutte
le mie vittime, forse perché… mi piace il suono!” E’ solito sentenziare il
malvagio prima di far fuoco, e per questo dettaglio si rivela a Batman come
l’assassino dei suoi genitori, ovvero colui che aveva causato il suo stato di
trauma, l’uomo che lo aveva costretto a vivere da solo l’intera infanzia, a
crescere con un adorabile maggiordomo e a catartizzare l’atroce perdita
travestendosi da topo volante e combattendo il male (non per missione, non per
amore di giustizia, per dimenticare), in pratica, suo padre! Resta il fatto che
il Joker, cioè Jack Napier, criminale, non sarebbe diventato il Joker senza
Batman, che causa la sua deformità gettandolo in una vasca di acidi. E allora
chi è il padre di chi? Non è, per caso, che il bene e il male siano due lati di
una stessa medaglia?
Film stranamente non amato dalla critica è invece
Batman II, con Keaton, Danny De Vito nel ruolo del Pinguino, Christopher Walken
alias Max Schreck, spietato uomo d’affari, e una splendida, affascinante,
iper-sexy, tormentata e triste Micelle Pfeiffer nella parte di Cat Woman. La
scena in cui Michelle rotea agilmente fuori da un supermercato, di notte, pochi
istanti prima che l’esplosivo da lei innescato salti in aria e si rivolge agli
attoniti agenti di guardia fissandoli da dietro la maschera e apostrofandoli
con un “Miao!” varrebbe il doppio del biglietto. Ma la pellicola è caldamente
sconsigliata ai minori di ventun’anni e a chi fa uso di psicofarmaci per
l’estremo pessimismo e la desolata solitudine che comunica. Disperata e deprimente
l’esistenza del pinguino, anonima e delirante quella di Batman, schizoide
e frustrata quella di Cat Woman. Il
finale è tutto per lei: “Io vorrei fuggire con te… - dice a Batman – ma non
potrei mai fuggire da me stessa! Non fingere che sia un lieto fine!” Difficile
non innamorarsene, insomma, e il tenero sentimento che anche il più cinico
spettatore è portato dal genio di Burton a provare per lei resta in parte
illuso dall’apparizione dell’eroina, al confine fra inferno e redenzione, sopra
una fosca luna invernale, dopo l’annientamento dei malvagi, sempre che Batman
rappresenti il bene, non dimentichiamocelo.
Insomma, la tormentata epoca moderna, il crollo
degli ideali e il nichilismo profetizzato non poteva trovare miglior cantore.
Tim Burton non è solo un regista di talento, è uno dei più grandi “artisti
globali” contemporanei. Ogni cosa, nei suoi film, ha un fine, ogni cosa è
strumentalizzata per fomentare una “ideologia dark”.
Allontanato dalle grandi produzioni dopo lo scarso
successo di pubblico di Batman II, per molti troppo angosciante, prima
confeziona “Nightmare Before Christmass” e recentemente “Il mistero di Sleepy
Hollow”, con un nosferatu come Christopher Lee!
Big Fish:
Quando il pesce è troppo grosso per lo stagno della vita
“La
cosa importante non è come vivrete la vostra vita, ma ciò che conta è come la
racconterete, a voi stessi e agli altri”. Così recitava il finale di un film di
Ozpetek. E così sembra modulare la propria esistenza il protagonista di “Big
Fish”, l’ultimo visionario film di Tim Burton, doppiamente interpretato da Ewan
McGregor, nei racconti di gioventù, e da Albert Finney, nella fine della sua
vita. Film che procede su questo magico equilibrio tra realtà e finzione, dove
tutto si mescola e si colora e mostra doppiamente la sua doppia faccia, dove
forse la verità vera è quella che uno si sa inventare. Un film popolato di
freaks, nani e giganti, grottesche creature fuori luogo che costituiscono da
sempre l’universo cinefilo di Tim Burton. Pesce troppo grande per la pozza dov’è nato, cresciuto troppo
rapidamente e a dismisura (nel fisico, dice il racconto, nella mente,
nell’animo, nel desiderio dice la realtà quotidiana) Big Fish s’incammina in
una serie d’avventure dove regna l’immaginario, dove si capita in paesi
perfetti, ma sempre troppo presto o troppo tardi, dove si diventa lupi mannari
se si è troppo soli ed incompresi, dove per amore si può compiere qualunque
cosa e le streghe predicono la tua fine. Proprio come aveva i colori della
favola “Edward mani di forbice”, una favola che i diversi dovevano vivere
secondo il loro modo.
Se nel regno della fantasia il film di Tim Burton dà
il suo meglio, scatenando l’immaginazione fuori da ogni confine e con un
caleidoscopio di richiami cinefili (non ultimo Fellini), in quello della
realtà, inevitabile e persistente specchio di paragone, mostra qualche limite
lasciando sempre la lacrimuccia in agguato e una spiegazione di troppo. “Big
Fish” resta tuttavia uno dei più originali ed interessanti film di questa prima
metà del 2004, godibile ed al contempo toccante nel mostrare la ricerca di un
modo di vivere in un mondo deforme dove l’anelito ad essere diversi, più
grandi, più sognatori, continua a sospingerti, come Tim Burton ha sempre
raccontato, da Batman a Ed Wood, e come forse è egli stesso.
Gabriella Aguzzi