Bentornati a “Buona la prima?”, cari lettori, e
questa volta parliamo di un’invasione, ma non di alieni. E’ Tarkovskij,
infatti, ad invadere un campo che proprio non gli appartiene. SOLARIS, la sua
opera del 1972, dura ben 115 minuti, quanto basta per far passare l’insonnia,
addormentarsi e risvegliarsi di nuovo alla fine del primo tempo. Potremmo
inserire questa pellicola nella rubrica “Come complicarsi la vita”, quando
sarebbe tanto semplice realizzare un film su una trama più che decorosa senza
ricorrere a superflui, scontati, odiosamente dotti cerebralismi. “Non è dai
prodigi della crudele tecnologia che nasce la vita, ma solo dall’amore
dell’uomo”, ecco il messaggio, ovvero, primo classificato alla fiera
dell’ovvio, nobel per il buonismo. E poi ci si lamenta di Star Trek.
Kris Kelvin, sociopsicologo, viene inviato (da
solo!) sulla piattaforma orbitante attorno al pianeta Solaris, per indagare su
strani fenomeni che preoccupano gli scienziati a bordo. Il capo della missione
si è ucciso e gli altri due membri rasentano la pazzia. Solaris, infatti, è
stato bombardato con i raggi X (quelli per le radiografie. In confronto,
Goldrake era puro neo-realismo) e ha reagito inaspettatamente, promanando
radiazioni in grado di produrre la materializzazione dei ricordi e delle
ossessioni di chi abita la piattaforma. Presto anche Kelvin rivede la moglie,
morta suicida dopo un aborto, e tenta di liberarsene, dando per scontata la sua
irrealtà. Ella torna, però, e non ricorda nulla, ma esiste. E’ solo una visione,
un ologramma della mente, oppure è vera e tangibile almeno quanto chi la
osserva? Uno dei due scienziati, materialista convinto, inizia a citare tutto il citabile, e ci viene il sospetto lo
faccia solo per puro esibizionismo, mentre l’intento di distruggere tutti i
ricordi materializzati sia solo un pretesto per finire a discorrere su
Dostoewskij. Il più malandato dei tre manifesta seri dubbi, Kelvin si innamora
per la seconda volta di sua moglie, o di ciò che è tornato alla vita. Quando la
donna senza ricordi decide di tentare il suicidio, come già fecero molte altre
creature involontariamente rievocate, lo psicologo sceglie di non lasciare mai
più Solaris, e di far rivivere tutto il suo mondo perduto dell’infanzia.
Dunque, uno spunto ottimo per un bel film di fantascienza. Peccato che
l’elitarismo culturale di Tarkovskij rovini davvero tutto nel tentativo di
elevare a vette sublimi una tematica già rispettabile. La filosofia nella
fantascienza è quasi necessaria, ma bisogna saperla usare. Non basta citare
Nietzsche o Platone per inserire concetti morali. Non c’è un solo fotogramma
che si salvi dall’assurda idea di render stupidamente complesso ciò che un B
movie avrebbe in modo eccellente messo in scena. Scenografie da Magazzini
Generali, uno squallore che solo gli intellettuali impenitenti sanno concepire
e ritmi da Sergio Leone. Per dirla in breve, ciò che v’è di più lontano dal
genere fantascientifico. Imbarazzante il doppiaggio italiano. Sconsigliato se
siete tristi, sconsigliato se siete allegri, sconsigliato anche se siete
malinconici: quello che comunica è il nulla!
Il Remake, invece: stesso
problema. La trama c’è ma anche Steven Soderbergh palesa eccessive velleità.
Pellicola patinatissima, sulla falsariga di una concezione del futuro superata
dai tempi di “Alien”, ma almeno le spettatrici possono vedere George Clooney
(come a dire: so benissimo che “Specie Mortale” è un filmetto, ma hai visto
Natasha Henstridge?). Quantomeno gli ambienti rispecchiano quelli che
potrebbero essere in una base spaziale, nell’originale sarebbero stati indegni
di un camper. La storia non prevede le complicazioni di Tarkovskij, l’arrivo di
Clooney è inverosimile ma più efficace. Del resto, quale psicologo non sa
pilotare una navetta spaziale oltre il nostro sistema? Bandite le dissertazioni
puramente filosofiche, si ricorre ad un più stabile “new age”, e si dibatte sul
valore della vita, dell’amore, ma almeno non sembra di vedere Romher. Più
sentimento e meno ragione. Purtroppo, i tempi non cambiano, non si velocizza il
prototipo narrativo e le distanze dall’originale non sono sempre giustificabili
poiché non migliorano il lavoro. In ogni caso, siamo di fronte ad un film più
che degno, guardabile e, se pur distante dal capolavoro, non alieno da spunti
di interesse. La regia avrebbe dovuto reclamare completa indipendenza dal
“mattone” di Tarkovskij, invece ha finito col soffrire un assurdo e quantomai
inspiegabile senso di inferiorità. Meglio la seconda.