Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann

16/05/2013

Notissimo il romanzo, noto il film predecessore, anno 1974, col meno noto Jack Clayton alla regia ma con Coppola alla sceneggiatura e, soprattutto, con la coppia bella, bionda e struggente Robert Redford-Mia Farrow che a lungo è rimasta nel ricordo. Eppure questa nuova versione cinematografica del Grande Gatsby, prodotta quasi 40 anni dopo, ha ancora qualcosa di nuovo da dire. Perché alla regia è lo straripante, geniale, visionario, irrefrenabile Baz Luhrmann e perché a dare il volto a Gatsby non si poteva trovare attore più perfetto di Leonardo Di Caprio, splendido come le sfolgoranti feste che il protagonista inscena per amore, magico come il loro anfitrione che le osserva nell’ombra.
Due ragioni per dire dunque “Buona la Seconda”. La Prima, infatti, quella di Clayton, è un’operina calligrafica che, non fosse stato per un giovane Redford, non avrebbe lasciato un gran segno ed ha unicamente trasferito allo schermo le pagine di Francis Scott Fitzgerald. La Seconda ha una sua impronta: criticabile per alcuni, a partire dalla scelta della colonna sonora che traduce l’era jazz con l’era hip-hop con una “modernizzazione” paragonabile a quella che il regista fece con “Romeo+Juliet”, ma sicuramente personale ed incisiva.

Baz Luhrmann resta fedele al romanzo di Fitzgerald, citandone addirittura intere pagine (tanto che a lungo siamo stati in dubbio se fosse più appropriato inserire queste nostre considerazioni nella Rubrica “Dal Libro al Film” o in questa sede) e, sotto forma di confessione al proprio medico, Nick Carraway racconta l’intera storia a se stesso e a noi, mentre le lettere fluttuano nell’aria come fiocchi di neve componendo agitatamente parole, sopra il ticchettìo dei tasti della macchina da scrivere. Al tempo stesso il regista inventa immagini e suggestioni dando sfogo alla sua sfrenata fantasia.
Ecco dunque accelerare nella profondità del 3D le atmosfere dei ruggenti Anni Venti; ecco le sfavillanti feste di Gatsby che tanto ricordano la festa mascherata di Romeo + Juliet, un caleidoscopio variopinto davanti all’assurdo castello costruito sulla baia, di fronte alla luce verde dei suoi sogni; ecco il degrado della Valle delle Ceneri custodita dai giganteschi occhi di un manifesto pubblicitario, a metà strada tra lo scintillio delle feste e la calura di New York. Nella parte finale Luhrmann spinge con forza nel cuore del melodramma, rivelando la sua indole più forte (ma si concede anche una parentesi teneramente comica nel primo goffo appuntamento tra Gatsby e Daisy), e come affastella guizzi pirotecnici così si abbandona al precipitare degli eventi. Dal colossale parco giochi di Long Island, dove la magione di Gatsby domina come un castello disneyano, guida in folle verso la città, dove la vicenda si colora di sangue.
Lurhmann gioca pazzamente con le immagini, i colori, le invenzioni scenografiche, ma lascia tutta la forza poetica alla parola di Fitzgerald, a quel sogno che Gatsby tenta di continuo di afferrare, mentre gli è già alle spalle.

E lascia la forza al fascino di quel misterioso personaggio che nasconde diverse verità e insegue un grande amore al quale ha eretto un gigantesco monumento, ma innamorato soprattutto dell’idea della propria grandiosità. Per la prima parte del film lo si attende, e null’altro. E’ una figura invisibile dietro i vetri, che tutto osserva e gestisce, e su cui tutto si mormora, fino a quando non irrompe e si rivela col suo sorriso incantatore. Simili suspense precedono l’ingresso di attori quali Marlon Brando o Orson Welles. Leonardo Di Caprio ha in sé parte di quel carisma e in più la bellezza elegante e gentile di un giovane Gatsby.
Raccontato attraverso la visione che di lui ha Nick Carraway, quindi mai protagonista ma fantasma idealizzato, contrappone il proprio charme misterioso all’anonimia del suo devoto osservatore, ruolo in cui Tobey Maguire si cala con altrettanta perfezione relegandosi a silenzioso voyeur abbagliato dalle illusioni di quel mondo di ricchi di cui si è trovato, impacciato, a far parte. Carey Mulligan incarna il sogno del “great” Gatsby, la “ragazza dorata” che è la sua romantica ossessione, magica eppure alla fine frivola e inutile, come tutti preoccupata a guardare soltanto se stessa. Perché tutti non sono quello che appaiono e, spente le luci, mostrano il loro squallore, come le feste alla fine.

Gabriella Aguzzi