Omaggio a Lucio Dalla

01/03/2015

A colloquio con Roberta Maiorano, autrice del volume L’uomo che sussurrava al futuro. Lucio Dalla in cento pagine (Aereostella 2012): in chiusura, un contributo di Pupi Avati.

Lucio iniziò come clarinettista jazz e in seguito fece parte del gruppo dei Flippers: come furono questi suoi inizi?
Tutto cominciò quando mamma Iole regalò a Lucio – appena tredicenne – un clarinetto, assecondando così la sua passione per la musica e, quasi inconsapevolmente, il suo feeling per il jazz. Negli anni Cinquanta a Bologna il jazz fermentava grazie all’attività di numerose formazioni, cosa che non era certo sfuggita al giovane Dalla, nel frattempo diventato vero e proprio cultore del genere.
Nel giro dei jazzofili bolognesi Lucio era entrato grazie a quel suo modo di suonare del tutto inconsueto, attraente e non certo affinato dallo studio dello strumento. Era un autodidatta, tutto istinto e creatività.
Prima di approdare alla corte dei Flippers di Edoardo Vianello, Lucio era passato attraverso l’esperienza con formazioni dai nomi bizzarri (Rheno Jazz Gang e Second Roman New Orleans Jazz Band), acquisendo notevole esperienza.
Ed è proprio con i Flippers che, nell’allegra bolgia del Cantagiro 1963, Lucio Dalla esordisce ufficialmente nel panorama musicale italiano. Un’avventura fortunata, perché proprio durante i giorni del Cantagiro Lucio incontra Gino Paoli - stella della canzone d’autore - che s’invaghisce letteralmente di quest’omino sopra le righe, virtuoso del clarinetto, con doti vocali fuori dai canoni.
È proprio Paoli che convince Dalla a mollare i Flippers per tentare la carriera solista. Lucio ha soli ventun anni quando firma un contratto con la ARC (etichetta distribuita dalla RCA italiana) e pubblica il suo primo 45 giri intitolato Lei (non è per me).
Il Cantagiro del 1964 vede Lucio nuovamente protagonista, ma è un passo falso: il suo modo di cantare e di porsi alla gente, in stridente contrasto con quello offerto dagli artisti allora in voga - quasi perfetti e tutti bellocci - sconvolge il pubblico. Succede di tutto: Lucio viene fischiato e deriso, colpito in pieno petto da un frutto.
Gino Paoli, che nel frattempo è diventato suo produttore a tutti gli effetti, non si lascia scoraggiare e propone a Lucio di partecipare al Festival di Sanremo nel 1966 (con Paff…bum!) e nel 1967 (con Bisogna saper perdere). Risultati ancora una volta deludenti. La gente non riesce ad afferrare il suo talento e Lucio, non certo aiutato dalla sua scarsa prestanza fisica, sembra essere prigioniero di un personaggio.
La strada verso il successo sembra essere tutta in salita.
Cosa spinse Lucio, nel corso della metà degli anni Sessanta, a iniziare a scrivere le sue prime canzoni, tra cui Occhi di ragazza portata al successo da Gianni Morandi?
Il talento narrativo di Lucio Dalla si espresse mirabilmente, in realtà, dalla metà degli anni Settanta, all’indomani del divorzio artistico dal poeta bolognese Roberto Roversi. Da quel momento in poi l’artista bolognese sfornò enormi successi con la sua sola firma, per sé e per altri. Ma prima di allora - durante gli anni Sessanta – Lucio stava ancora tentando la scalata verso un successo che tardava ad arrivare. La stesura dei testi era compito dei fidati Gianfranco Baldazzi e Sergio Bardotti; a Lucio toccava la composizione della parte musicale. Anche Occhi di ragazza, traccia appartenente al secondo long playing Terra di Gaibola (1970), era stata scritta da Baldazzi e Bardotti e musicata da Lucio ma pensata inizialmente per un giovane talentuoso che Dalla aveva notato al Folk Studio di Roma, Rosalino Cellamare. Il ragazzo – che dopo il ’70 cominciò a farsi chiamare Ron – avrebbe dovuto portare il brano in gara a Sanremo nel 1970, ma si rifiutò e Occhi di ragazza venne regalata a Gianni Morandi che, all’apice della carriera, ne fece un successo clamoroso.
Nel 1971 si impose come cantautore con 4 marzo 1943, una delle sue canzoni più celebri: come nacque questo brano?
La delusione patita all’indomani dell’insuccesso dell’album Terra di Gaibola (il secondo in carriera) torna utile a Lucio per comprendere che il genere ‘beat’ non gli appartiene. Occorre una scrittura diversa, concetti nuovi, una nuova immagine. Lucio non ha ancora messo a fuoco il suo talento narrativo – cosa che, invece, gli riuscirà splendidamente dal 1977 in poi, dopo la formativa esperienza al fianco del già citato Roberto Roversi – quando, inaspettatamente, viene contattato da una giovane poetessa e illustratrice di libri per bambini, Paola Pallottino. Lei, figlia di un etruscologo e sposata con un architetto urbanista, è innamorata della canzone d’autore francese e delle opere di Fabrizio De Andrè e non nasconde una certa velleità di autrice di testi per possibili canzoni. Il trasferimento a Bologna, proprio all’inizio degli anni Settanta, le risulta fatale. Alcuni amici le suggeriscono di contattare proprio Lucio Dalla – che è alla ricerca di nuovi autori – per sottoporgli alcune delle sue composizioni. Durante l’incontro, Lucio le propone di scrivere testi pensando a lui e al suo modo di mostrarsi al pubblico. È così che nasce un sodalizio destinato a raccogliere i primi succosi frutti del successo. La Pallottino gli porta, dunque, il testo di Gesù Bambino e in una manciata di minuti Lucio ne compone la musica, senza l’aiuto di un pianoforte, canticchiandola e basta.
Ci sono due differenti versioni circa la genesi di questa canzone: Dalla ha sempre raccontato di trovarsi nella sua casa alle Isole Tremiti assieme alla poetessa, mentre quest’ultima afferma che i due erano assieme a Bologna.
Indipendentemente dal luogo, Dalla e la Pallottino si rendono conto ben presto di aver scritto qualcosa di forte. Una volta proposto il pezzo ai discografici, Lucio viene rispedito nuovamente al Festival di Sanremo, edizione 1971. Il brano proposto in gara s’intitola appunto Gesù Bambino e narra di una ragazza che concepisce un figlio con un soldato e presto abbandonata.   
Presto, però, il pezzo di Lucio si scontra con le perplessità della commissione artistica, che lo ritiene blasfemo. Con un colpo di genio, la canzone viene riproposta con un titolo diverso – 4/3/1943 - e con qualche aggiustamento al testo (“e ancora adesso che bestemmio e bevo vino/per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino” viene modificata così:”E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino/per la gente del porto mi chiamo Gesù bambino”). Mossa vincente: Dalla si piazza al terzo posto.
Da Il gigante e la bambina (1971) a Piazza Grande (1972), da Nuvolari (1976) a Com'è profondo il mare (1977), da L’anno che verrà (1979) a Caruso (1987), da cos'ha tratto ispirazione Lucio per le sue canzoni di maggior successo?
Uno dei tratti distintivi del talento poliedrico di Lucio Dalla è indubbiamente la fantasia. Il suo sguardo attento ha saputo posarsi su ogni singolo dettaglio dell’esistenza, trasfigurandosi e regalando all’ascoltatore veri e propri dipinti sonori. Eventi di cronaca, figure femminili o maschili incontrate nel tempo, celebri o semplicemente immaginate nei suoi sogni ad occhi aperti: tutto diventa ispirazione. L’esempio più chiaro di quanto detto sta tutto in Com’è profondo il mare, primo brano scritto da solo, che segna indelebilmente il suo passaggio da semplice interprete a cantautore di rango. Tra le righe del brano lo sguardo di Lucio non ha filtri: canta e parla, osserva senza pietà una realtà spesso brutale, fatta di depressione, di solitudine, perdita di fiducia in Dio, di pessimismo e desiderio di rivincita (“siamo gatti neri/ siamo i cattivi pensieri/non abbiamo da mangiare/ma com’è profondo il mare”). Esorcizza, attraverso una rara ironia, perfino il suo aspetto fisico non proprio gradevole (“un aviatore inventò la commozione/e rimise d'accordo tutti/i belli con i brutti/con qualche danno per i brutti/che si videro consegnare un pezzo di specchio, così da potersi guardare”). Come dimenticare, poi, il meraviglioso ritratto di quei “cinquanta chili d’ossa” di Nuvolari, campione di Formula 1 (tra le grandi passioni dell’artista bolognese), cantato da Lucio nel 1976? O la commovente dedica a un senzatetto di Bologna in Piazza grande (che altro non è che la celebre Piazza Maggiore di Bologna, dove tante volte Lucio s’era ritrovato con gli amici), brano scritto a quattro mani con Ron e che gli valse una nuova partecipazione (non proprio trionfale, però) al Festival di Sanremo nel 1972? La scandalosa Il gigante e la bambina (presto regalata a Ron), canzone di punta dell’album Storie di casa mia del 1971, prende spunto da un episodio di violenza, realmente accaduto. Il gigante è infatti un uomo grande e grosso innamorato di una bambina, ma questo amore malato non porta che morte: della bambina, uccisa dal gigante, e poi di quest’ultimo, linciato dalla gente.
Indimenticabile, poi, lo struggente ricordo dell’ultima notte di vita di Enrico Caruso, celebre tenore napoletano cui Dalla dedica una delle sue canzoni universalmente più amate. L’ispirazione del brano nasce subito dopo la fine del tour americano negli USA assieme agli Stadio. Un tour concluso nel migliore dei modi, documentato dalle registrazioni del concerto newyorkese. All’inizio dell’estate tutto è pronto per dare alle stampe il primo doppio disco live, ma manca giusto il brano inedito che – come tradizione degli anni Ottanta – accompagna sempre un lavoro simile. Lucio prende tempo e parte per una piccola vacanza in barca nel Mediterraneo. Al largo di Sorrento l’imbarcazione si guasta ed è costretto a fermarsi in un albergo: la camera che gli assegnano è la stessa che, tanti anni prima, aveva ospitato Caruso durante gli ultimi giorni di vita. Suggestionato dall’atmosfera, Dalla si siede al pianoforte, lo stesso usato dal maestro, e scrive la canzone destinata a diventare il suo capolavoro assoluto. Nell’Anno che verrà – la celebre missiva che Lucio immaginava di scrivere al suo amico immaginario, sul finire del 1979 – l’ispirazione arriva da quel terribile periodo vissuto dall’Italia durante gli anni bui segnati dal terrorismo. Nella sua lettera, Lucio dà libero sfogo alla sua immaginazione, ai suoi desideri più reconditi, alle utopie, all’ironia come antidoto contro il malessere degli anni di piombo.
Come nacque l'idea della fortunata tournée Banana Republic, che Lucio fece con Francesco De Gregori e Ron?
Il successo – quasi inaspettato – dell’album omonimo del 1979, si traduce in una serie di concerti trionfali, talmente affollati da riempire i palasport. A Lucio però quella dimensione non piace, preferisce i teatri, dove si respira un’aria più rilassata, e il contatto con il pubblico è più intimo e meno isterico. C’è qualcuno, però, che lo convince a cambiare idea: Francesco De Gregori, con cui Dalla aveva già avuto occasione di esibirsi nel luglio del 1978, al Flaminio di Roma per un esclusivo concerto organizzato dalla FGC, che riportò De Gregori a suonare dal vivo dopo le drammatiche contestazioni ricevute anni prima. Da quest’esperienza condivisa al Flaminio nasce il 45 giri Ma come fanno i marinai – con un lato B straordinario, Cosa sarà - che si rivela uno dei successi più forti dell’inverno 1979.
Come non riproporsi, dunque, al grande pubblico in un nuovo e più grande live fianco a fianco? L’occasione è ghiotta e stavolta sul palco con Dalla e De Gregori saliranno Ron e gli Stadio – nella loro prima formazione, con Fabio Liberatori alle tastiere, Marco Nanni al basso e Ricky Portera alla chitarra, oltre che Gaetano Curreri e Giovanni Pezzoli alla batteria - destinati per lungo tempo ad essere la band di supporto dello stesso Dalla.   
Cosa spinse Lucio a collaborare spesso con il poeta Roberto Roversi?
La collaborazione tra Lucio Dalla e il poeta bolognese Roberto Roversi, non fu né casuale né sporadica, ma pensata e voluta fortemente dal produttore di Lucio, Renzo Cremonini, all’indomani dell’insuccesso sanremese del 1972. Quelli che seguono sono giorni difficili: la delusione festivaliera crea una fase di stallo nella carriera di Dalla: Lucio si rende conto che si può essere interpreti della canzone popolare senza per questo restare prigionieri di schemi politico-ideologici, ma anche senza cadere nel più banale cliché della canzonetta e il successivo incontro con Roversi - fondatore negli anni Cinquanta, insieme a Pasolini, della rivista “Officina” – offre a Lucio l’opportunità di leggere qualche suo testo sperimentale, ed è proprio da un verso della Canzone di Orlando che ne resta letteralmente folgorato (“nevica sulla mia mano”).
I due cominciano a collaborare, ma sono agli antipodi: Dalla è un istintivo, un animale da palcoscenico, Roversi è schivo, rigoroso, metodico. Rapporto non facile, eppure da questa nuova squadra nasceranno tre album seminali, affascinanti, determinanti per la crescita artistica del cantautore bolognese: Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride solforosa (1975) e Automobili (1976).
Dopo la fortunata collaborazione con Morandi (1988), Lucio proseguì la sua carriera da solista con altri album di grande successo quali Cambio (1990), il live Amen (1992), Canzoni (1996), Ciao (1999), Luna Matana (2001) e Lucio (2003): ciò nonostante una certa critica musicale parlò di suo rifugio in una sorta di altissimo mestiere atto a nascondere una qualche mancanza d'ispirazione. Cosa ne pensi tu in merito?
Riascoltando con estrema attenzione gli album composti dal 1990 in poi, non si può essere totalmente d’accordo con quella parte di critica che vide in quei lavori una mancanza d’ispirazione. Lo trovo un giudizio quanto meno affrettato: basti pensare a brani come Le rondini o Apriti cuore del 1990 (a parte la scherzosa e celebre Attenti al lupo, peraltro scritta dall’amico Ron), testimonianza della crescita narrativa di un Dalla più riflessivo e pacato, mai sentito fino a quel momento. O a un brano immenso come Henna del 1993, che Lucio canterà davanti a un commosso Papa Giovanni Paolo II.
È un Lucio Dalla relativamente più maturo, quello degli anni Novanta e Duemila, un uomo che affronta l’età che avanza con equilibrio – nonostante la sua verve eccentrica e ironica non venga mai meno, come nel caso di Canzone del 1996 o Ciao del 1999 – e con una serenità probabilmente data dalla sua incrollabile fede cattolica, di cui non ha mai fatto mistero.
La sua è un’ispirazione che cambia, si modifica, che prende spunto più dai sentimenti che dalle visioni oniriche. Come ad esempio Tu non mi basti mai (1996) o Non vergognarsi mai (1999) che Lucio stesso definì come la sua nuova Anna e Marco.
Inutile, d’altro canto, negare che con il passare degli anni anche il più cristallino dei talenti possa appannarsi e subire qualche battuta d’arresto. Gli album Luna Matana (2001) e Lucio (2003) – forse troppo ‘moderni’ o semplici esercizi di stile - lo testimoniano.
Oltre che essere stato autore di colonne sonore di film e programmi televisivi, Lucio registrò con i Solisti Veneti la favola sinfonica Pierino e il lupo di Prokofev, condusse con Sabrina Ferilli La Bella e la Besthia (2002), programma andato in onda su Raiuno, si avvicinò all'opera con una rivisitazione in stile musical della Tosca di Puccini (2003) e curò la regia di Pierrot Lunaire di Schönberg e di Arlecchino di Busoni (2006): ma cosa spinse Lucio a diversificare così la sua attività secondo te?
Qualche critico, nel recensire il mio libro su Lucio Dalla, mi definì – a torto – una ‘fan’, non comprendendo appieno né quanto io avevo cercato di raccontare su Lucio nelle mie 100 pagine né quello che era lo stesso Dalla. E cioè un camaleonte vero e proprio, grazie a un talento poliedrico e alla curiosità che da sempre lo aveva contraddistinto. Dunque molte delle cose che faceva gli riuscivano particolarmente bene. Appassionato di musica classica e lirica, istrionico animale da palcoscenico, instancabile divoratore di musica, studiata e reinterpretata in maniera personale e arguta. Non occorre, dunque, essere semplicemente ammiratori di un artista come Lucio Dalla: basta approfondire la sua arte per comprendere che nulla, al mondo, riusciva ad annoiarlo.
Negli ultimi anni Lucio tornò in tournée con De Gregori (2010) e apparve per l'ultima volta in televisione al Festival di Sanremo del 2012, come direttore d'orchestra, per la canzone Nanì di Pierdavide Carone: come mai secondo te fino alla fine ci fu quest'alternanza in lui di collaborazioni con suoi conclamati colleghi e amici ad altre con giovani agli inizi?
In fin dei conti Lucio era un Peter Pan: per lui l’età anagrafica era un dettaglio. L’arte, la voglia di stupire e di stupirsi, il misurarsi continuamente con nuovi progetti, il desiderio di scoprire nuove frontiere della comunicazione: tutto questo lo rendevano sempre giovane. Talvolta anche a costo di sembrare eccessivo, Lucio era sempre alla ricerca di una novità. Ecco spiegato semplicemente il perché di quelle collaborazioni con giovani di talento. A lui si deve l’ascesa di artisti come Luca Carboni o Samuele Bersani, fino a quel Pierdavide Carone, lasciato proprio all’inizio di una carriera che sembrava tutta in discesa. Anche il ritrovarsi con Francesco De Gregori fu una sfida, un modo forse per dimostrare che, nonostante il tempo trascorso, si poteva continuare a fare dell’ottima musica anche a dispetto dell’età.
A quasi tre anni dalla scomparsa, cosa rimane secondo te Lucio come uomo e come cantautore?
Ho sempre pensato che Lucio Dalla fosse immortale. Fa sorridere, ma è così. Eppure quel beffardo attacco di cuore che il primo marzo del 2012 ce l’ha portato via, mi costringe oggi a parlare di eredità artistica e umana, di parlare di Lucio irrimediabilmente al passato. Manca l’artista: sornione, senza filtri, immensamente creativo, eccessivo, mai noioso e mai annoiato, sensibile e strafottente nei confronti di certa stampa severa e spesso limitata, commovente e osceno, coraggioso e oltraggioso. Manca l’uomo, certo. Privilegiati coloro che hanno avuto a che fare con lui. A me manca il Dalla credente e coraggioso nell’ammettere di essere un grande divoratore di Vangelo e Bibbia; manca il Dalla benefattore e gaudente, uomo discreto che non ha mai fatto della sua esistenza un reality, che con caparbia pulizia d’intenti non ha mai voluto dare in pasto al gossip le sue scelte di vita. È anche questo il Dalla che mi manca.

Chiudiamo questo pezzo con il contributo di Pupi Avati: “Il mio primo incontro con Lucio Dalla è avvenuto quando lo vidi da bambino - lui avrà avuto sette-otto anni, mentre io ne avevo cinque di più - al Teatro San Giuseppe di Bologna, dove lui si esibiva: era già un bambino prodigio e suonava una piccola fisarmonica indossando un frac con un cilindro e cantando e ballando le claquette. Era delizioso: era tra l’altro un bambino bellissimo e proporzionatissimo, e aveva un successo enorme. Poi l’ho reincontrato molti anni dopo, quando io suonavo il clarinetto in una jazz band che faceva concerti in tutta Europa: lui provava a sua volta a suonare il mio stesso strumento, dopodiché entrò a far parte del nostro complesso come secondo clarino e lo portammo in giro per l’Europa. Dormivamo nella stessa stanza: la mia amicizia con lui è stata profonda e consistente, anche se poi ho avuto il problema di scoprire il suo talento.
Lucio, a un certo punto, ha cominciato a manifestare una duttilità e una creatività musicale che io non avevo: allora è insorta un invidia da parte mia nei suoi riguardi sempre più crescente, nel senso che - malgrado io mi applicassi tantissimo, studiassi, facessi gli esercizi e ascoltassi i dischi - lui mi surclassava. Essendo la musica jazz fortemente competitiva, io a un certo punto mi sono reso conto che non avevo il talento sufficiente per diventare un grande jazzista: è stato Lucio a farmelo capire. Io mi sono pertanto ritirato dalla musica: la sua responsabilità in questo senso è esplicita, ma non era colpa sua se lui era talentuoso. Nel film Ma quando arrivano le ragazze? io racconto proprio questa storia.
Nel frattempo, dopo aver lasciato la musica e aver fatto il venditore di surgelati, ero riuscito a fare il mio primo film: quando riuscii a fare un film importante con Tognazzi, La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, il fatto di poter chiamare Lucio a fare una particina mi sembrò una specie di vendetta e di risarcimento dalla vita, anche se fu una cosa simpatica. Molti anni dopo, quando l’invidia e la rivalità erano ormai accantonate, io ho pensato che Lucio - che apprezzava molto il mio cinema - potesse essere un compagno ed un complice straordinario: allora gli ho commissionato la colonna sonora di due film, Gli amici del Bar Margherita e Il cuore grande delle ragazze, e così siamo tornati a condividere un progetto e a parlarci. Siamo tornati amici, forse molto più di quello che fummo quando eravamo ragazzini.
Secondo me Lucio ha raccontato Bologna in modo poetico e affettivo molto pungente: l’amore di Lucio per Bologna era di una qualità tale per cui lui, pur rimanendo in una città di provincia, non l’ha mai lasciata. Le occasioni per andarsene le ha avute: ha provato a venire a vivere anche a Roma, ma poi si è pentito ed è tornato a Bologna. Lucio era assolutamente coincidente con Bologna, con quel modo di vivere e con gli amici che aveva lì.
L’ultima volta in cui l’ho visto eravamo andati a presentare al cinema Fossolo di Bologna Il cuore grande delle ragazze. Quella sera lui mi portò il suo ultimo disco e mi disse: “Mi raccomando, ascolta questa canzone: ascolta bene le parole”. Lo ridisse tre volte: si raccomandava che io ascoltassi bene le parole di questa canzone, che riguardava il passare del tempo e il fatto che il tempo non si cancella. Ero sul set di Un matrimonio e stavo girando, quando arrivò una telefonata agghiacciante di mia moglie che mi disse che alla radio avevano detto che Lucio era morto: io mi ricordo che mi sono venute in mente immediatamente le parole di quella canzone, e in qualche misura le ho ricollegate come se ci fosse, se non una premonizione, comunque il senso che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro.
Io di Lucio amo praticamente tutte le canzoni, ma ce n’è una che preferisco a tutte le altre: L’anno che verrà. Mi sembra infatti che abbia un sentimento tale nei riguardi di quello che sta accadendo nel nostro presente da risultare una canzone di una poesia unica”.

Alessandro Ticozzi