E’ spesso la sorte dei geni dar vita al meglio e al
peggio di un genere. Accade a Lovecraft, e alla cinematografia che da lui si
ispira. Il solitario di Providence, di certo inconsapevolmente, fu il primo a
dare dignità letteraria al puro incubo, all’ horror non basato su figure
mitologiche o mostri della tradizione classica, ma sul tenebroso e informe
flusso di coscienza. Creature vagamente antropomorfe, fluidi maleodoranti e
baratri innominabili di vita crepuscolare e gorgogliante, antiche divinità
cieche e corrose da secoli di dannazione scaturiscono dalla sua fantasia malata
per poi alimentare tutto l’immaginario horror di serie z così come per ispirare
indiscussi capolavori. Pochi punti cardine stanno alla base del pantheon
lovecraftiano: la consapevolezza che il genere umano sia solo l’ultimo anello
pensante di un crepuscolo di vita antichissima e relegata negli spazi più
remoti del cosmo e l’ancor più tragica ossessione del diverso come fonte di
oscura minaccia, dal cielo come dalle profondità della terra, dove esseri che
un tempo strisciavano hanno imparato a camminare, durante la loro stagione di
gloria, per poi essere costretti a fuggire negli abissi marini o nelle
cavernose profondità del pianeta per ripararsi da una non ben identificata
minaccia. Difatti, cosa abbia costretto i leggendari “Grandi Antichi” e le
divinità successive nell’ombra resta un mistero insondabile, ma, e questo è il
terzo punto, qualcosa dev’essere accaduto, molto prima che comparisse la nostra
razza, quando ancora le costellazioni estinte brillavano nella notte. Il cinema
intuì che i prodotti di più largo consumo, dopo aver abbondantemente attinto
dalla tradizione romanzesca che potremmo definire nobile, dovevano
necessariamente cambiare rotta e trarre linfa vitale da un terreno fino a pochi
decenni fa quasi lasciato incolto. Lo “Splatter” e l’ “Horror Trash” non
esisterebbe senza il maestro de “Il richiamo di Cthulhu” e “Alle montagne della
follia”. Prendiamo spunto anche noi da quest’ultimo, poco conosciuto racconto
per menzionare, fra tutti, il film forse più lovecraftiano, quello che abbia
saputo manifestare alta qualità registica e fedeltà alle nuove tendenze: “La
Cosa” di John Carpenter. Molto liberamente tratto da “La cosa da un altro
mondo” (1951) di Christian Nyby, frettoloso b-movie con qualche bella idea ma
una trama più che risibile, la pellicola di Carpenter narra di dodici uomini,
fra scienziati e tecnici, chiusi nel gelo di una base antartica e costretti a
lottare contro il fossile tornato in vita di una creatura, si presume,
originariamente amorfa, ma in grado di assumere le sembianze di qualunque
essere che le sia possibile assimilare mediante disgustosi tentacoli, tratti
indefinibili di fibra e liquidi stomachevoli. La Cosa sembra dipendere del
tutto dal suo ospite, esattamente come un virus, altrimenti non avrebbe forma.
E’ inoltre difficile stabilire quale sia la sua struttura, se organica oppure
del tutto inconoscibile. Nell’originale si faceva cenno alla probabilità che,
su altri pianeti, potessero essersi evolute creature che, sulla terra, erano
invece rimaste quasi allo stadio primitivo, come le piante. Il mostro da cui
deve guardarsi l’equipe del film di Nyby è, difatti, antropomorfo ma di origine
vegetale. I lettori appassionati di Lovecraft avrebbero solo l’imbarazzo della
scelta nell’individuare i racconti nei quali il solitario indaga questa
ipotesi. Carpenter tralascia i dettagli scientifici e mira a creare un effetto
del tutto estraniante. La sua “Cosa” è completamente esterna, non ha alcuna
attinenza con la materia conosciuta e, pertanto, tradisce anche le più
elementari leggi della fisica, altra ossessione del nostro autore.
“Alien”, di Ridley Scott, percorre l’ispirazione più
evoluta, rintraccia le medesime paure e le adatta ad una nuova concezione della
tecnologia. Il suo “estraneo” proviene da remote galassie, attende nel silenzio
e nel freddo che qualcuno lo risvegli, tenta di portare morte e ridar vita alla
sua specie. L’alieno ha una forma definita, ma sembra essere parte organico e
parte macchina, lo si evince da alcune inquadrature del primo fra i quattro
capitoli. Non induce semplicemente alla paura, ma anche allo sgomento di fronte
a qualcosa che non ha precedenti nel nostro immaginario.
Lunghissimo sarebbe l’elenco dei film ispirati allo
scrittore americano, abbiamo citato il più vicino e il più distante. Purtroppo,
uno sterminio di prodotti degeneri e imbarazzanti sta fra i due. E’ di
quest’anno l’abominevole “Dagon”, pateticamente tratto dal racconto “L’ombra su
Insmouth”. Tremendo nella sceneggiatura e nella trama, si elenca tra i lavori
direttamente tratti dai testi dell’ignaro precursore e, come tutti, sarebbe
stato assai saggio non girarlo mai. Lovecraft non poteva scrivere pensando al
cinema, è dunque un terribile errore pretendere che le sue storie siano
adattabili alla narrazione visiva. Il cosmo che descrive è, al contempo, troppo
caotico e troppo complesso perché un’opera cinematografica lo possa contenere,
e senza l’ampiezza orrorifica del “Necronomicon”, l’orrido grimorio per anni
ritenuto esistente, gli indimenticabili racconti che hanno dato vita ad una
nuova essenza di paura risultano quasi comici e puerili.
Meglio fingere che non sia mai esistito anche “The
Creature”, indegno anche del peggiore Ed Wood. Strano che per comprendere un
genio tanto problematico e terrorizzato dovesse cimentarsi alla macchina da
presa un uomo così diverso nello spirito come John Carpenter, autore anche di
“Fuga da New York” e “Le brigate della morte”.