Incubi dall'altrove

16/05/2008

E’ spesso la sorte dei geni dar vita al meglio e al peggio di un genere. Accade a Lovecraft, e alla cinematografia che da lui si ispira. Il solitario di Providence, di certo inconsapevolmente, fu il primo a dare dignità letteraria al puro incubo, all’ horror non basato su figure mitologiche o mostri della tradizione classica, ma sul tenebroso e informe flusso di coscienza. Creature vagamente antropomorfe, fluidi maleodoranti e baratri innominabili di vita crepuscolare e gorgogliante, antiche divinità cieche e corrose da secoli di dannazione scaturiscono dalla sua fantasia malata per poi alimentare tutto l’immaginario horror di serie z così come per ispirare indiscussi capolavori. Pochi punti cardine stanno alla base del pantheon lovecraftiano: la consapevolezza che il genere umano sia solo l’ultimo anello pensante di un crepuscolo di vita antichissima e relegata negli spazi più remoti del cosmo e l’ancor più tragica ossessione del diverso come fonte di oscura minaccia, dal cielo come dalle profondità della terra, dove esseri che un tempo strisciavano hanno imparato a camminare, durante la loro stagione di gloria, per poi essere costretti a fuggire negli abissi marini o nelle cavernose profondità del pianeta per ripararsi da una non ben identificata minaccia. Difatti, cosa abbia costretto i leggendari “Grandi Antichi” e le divinità successive nell’ombra resta un mistero insondabile, ma, e questo è il terzo punto, qualcosa dev’essere accaduto, molto prima che comparisse la nostra razza, quando ancora le costellazioni estinte brillavano nella notte. Il cinema intuì che i prodotti di più largo consumo, dopo aver abbondantemente attinto dalla tradizione romanzesca che potremmo definire nobile, dovevano necessariamente cambiare rotta e trarre linfa vitale da un terreno fino a pochi decenni fa quasi lasciato incolto. Lo “Splatter” e l’ “Horror Trash” non esisterebbe senza il maestro de “Il richiamo di Cthulhu” e “Alle montagne della follia”. Prendiamo spunto anche noi da quest’ultimo, poco conosciuto racconto per menzionare, fra tutti, il film forse più lovecraftiano, quello che abbia saputo manifestare alta qualità registica e fedeltà alle nuove tendenze: “La Cosa” di John Carpenter. Molto liberamente tratto da “La cosa da un altro mondo” (1951) di Christian Nyby, frettoloso b-movie con qualche bella idea ma una trama più che risibile, la pellicola di Carpenter narra di dodici uomini, fra scienziati e tecnici, chiusi nel gelo di una base antartica e costretti a lottare contro il fossile tornato in vita di una creatura, si presume, originariamente amorfa, ma in grado di assumere le sembianze di qualunque essere che le sia possibile assimilare mediante disgustosi tentacoli, tratti indefinibili di fibra e liquidi stomachevoli. La Cosa sembra dipendere del tutto dal suo ospite, esattamente come un virus, altrimenti non avrebbe forma. E’ inoltre difficile stabilire quale sia la sua struttura, se organica oppure del tutto inconoscibile. Nell’originale si faceva cenno alla probabilità che, su altri pianeti, potessero essersi evolute creature che, sulla terra, erano invece rimaste quasi allo stadio primitivo, come le piante. Il mostro da cui deve guardarsi l’equipe del film di Nyby è, difatti, antropomorfo ma di origine vegetale. I lettori appassionati di Lovecraft avrebbero solo l’imbarazzo della scelta nell’individuare i racconti nei quali il solitario indaga questa ipotesi. Carpenter tralascia i dettagli scientifici e mira a creare un effetto del tutto estraniante. La sua “Cosa” è completamente esterna, non ha alcuna attinenza con la materia conosciuta e, pertanto, tradisce anche le più elementari leggi della fisica, altra ossessione del nostro autore.

“Alien”, di Ridley Scott, percorre l’ispirazione più evoluta, rintraccia le medesime paure e le adatta ad una nuova concezione della tecnologia. Il suo “estraneo” proviene da remote galassie, attende nel silenzio e nel freddo che qualcuno lo risvegli, tenta di portare morte e ridar vita alla sua specie. L’alieno ha una forma definita, ma sembra essere parte organico e parte macchina, lo si evince da alcune inquadrature del primo fra i quattro capitoli. Non induce semplicemente alla paura, ma anche allo sgomento di fronte a qualcosa che non ha precedenti nel nostro immaginario.

Lunghissimo sarebbe l’elenco dei film ispirati allo scrittore americano, abbiamo citato il più vicino e il più distante. Purtroppo, uno sterminio di prodotti degeneri e imbarazzanti sta fra i due. E’ di quest’anno l’abominevole “Dagon”, pateticamente tratto dal racconto “L’ombra su Insmouth”. Tremendo nella sceneggiatura e nella trama, si elenca tra i lavori direttamente tratti dai testi dell’ignaro precursore e, come tutti, sarebbe stato assai saggio non girarlo mai. Lovecraft non poteva scrivere pensando al cinema, è dunque un terribile errore pretendere che le sue storie siano adattabili alla narrazione visiva. Il cosmo che descrive è, al contempo, troppo caotico e troppo complesso perché un’opera cinematografica lo possa contenere, e senza l’ampiezza orrorifica del “Necronomicon”, l’orrido grimorio per anni ritenuto esistente, gli indimenticabili racconti che hanno dato vita ad una nuova essenza di paura risultano quasi comici e puerili.

Meglio fingere che non sia mai esistito anche “The Creature”, indegno anche del peggiore Ed Wood. Strano che per comprendere un genio tanto problematico e terrorizzato dovesse cimentarsi alla macchina da presa un uomo così diverso nello spirito come John Carpenter, autore anche di “Fuga da New York” e “Le brigate della morte”.

Carlo Baroni