
So che
la mia critica ad un mostro sacro come Kubrick susciterà scandalo, eppure
niente mi rimuoverà dalla convinzione che il celeberrimo film abbia ridotto
(nel senso letterale del termine) “Shining” imponendo la visionarietà del regista
su quella del libro di King. Differenza sostanziale: “Shining” libro è un
romanzo psicologico che gradualmente si trasforma in horror, prima della mente
ed infine concreto (forse troppo concreto, ed è questo il suo unico limite);
“Shining” film è un horror e basta. Nulla resta dell’orrore dell’anima, dei
complessi di colpa e conflitti edipici tra padre e figlio (che risalgono ancora
più in là nel percorso delle generazioni e dei fallimenti) e, a contatto con la
solitudine glaciale del malefico Overlook Hotel, scatenano il nido di vespe
delle forze del male che vi si nascondono. Un passato perenne di fantasmi e
mostruosità che lentamente prende vita attorno a loro fino ad impossessarsene.
Un crescendo d’angoscia in cui si dibatte Jack Torrance, coi suoi trascorsi di
alcolista e la speranza di un riscatto, gradualmente afferrato da un incubo
dove gli spettri dei rimorsi si trasformano in spettri reali. Come spesso
accade, King commette però l’errore di non riuscire a mantenere la tensione
impalpabile per tutto il libro e sul finale scade in alcune scene imbarazzanti
come quella della festa lasciva. Del libro nel film rimangono proprio questi
quadri più grotteschi che vanno a mescolarsi in un finale enigmatico. Se da un
lato Kubrick inventa visioni indimenticabili che al romanzo non appartengono
(il labirinto nella neve, i corridoi deserti percorsi dal bambino, l’ascensore
rigurgitante sangue, l’incubo ricorrente delle sorelline assassinate),
dall’altro spreca altre immagini terrificanti che avrebbero fatto accapponare
la pelle anche mantenendo il film nei semplici confini dell’horror. King ha un
linguaggio estremamente cinematografico, descrittivo, e il leggerlo evoca di
per sé allucinazioni orrorifiche che sarebbero un invito a nozze per qualunque
regista del brivido: si pensi alla prima incredula sensazione davanti alle
siepi di animali che sembrano acquistare movimento (oh, se King, più avanti
nelle pagine, non si fosse lasciato andare la mano facendole realmente
camminare!), all’altra sensazione di terrore nel parco giochi, quella di una
“cosa” in agonia nel labirinto di cemento e neve, all’ascensore che si avvia
cigolando mostruosamente pieno di coriandoli di una festa di anni prima, il
crescente brusìo di voci sorgenti dal passato, l’orologio sotto la campana di
vetro che va riempiendosi di sangue suggerendo l’orrore del delitto. E si
pensi, soprattutto i terrificanti incubi premonitori del bambino dotato di
shining. Qui Kubrick butta via proprio un’occasione d’oro: la “luccicanza” si
riduce ad una vocina nel dito del bambino, come accadeva all’Orso Fozzie nei
“Muppets nell’isola del tesoro”. E tutto il film ruota attorno al ghigno
satanico di Nicholson, urlante ed armato di scure. Ma il libro, lasciatemelo
dire, è molto molto di più!