
Graham Greene e il cinema: un tema per cui ci vorrebbe un intero libro, non un articolo. Nato nel 1904 in un paesino dell’Hertfordshire, Greene fu amante generoso, scrittore prolifico, viaggiatore indefesso e agente segreto. Il che, da un lato, giustifica i vuoti e le contraddizioni della sua eccitante biografia (arrivò al punto di scrivere due differenti diari intimi), dall’altro spiega la sua abilità nel confezionare romanzi spionistici mozzafiato. Sono libri di suspense scritti con una prosa asciutta, realistica, che con uno straordinario uso degli aggettivi rende le descrizioni paesistiche e psicologiche perfette ed essenziali, secondo un gusto letterario che affonda le radici nella tradizione ottocentesca (Dickens, Stevenson, l’amato Conrad) e si ispira altrettanto a una forma popolare tipica del novecento: il cinema. Era ovvio che questo non rimanesse indifferente allo scrittore inglese, sia per una questione di contenuti che di forma. Se le trame e i personaggi (uomini mediocri e meschini, ma che nel fondo hanno qualcosa che li porterà a trasformarsi in eroi) sono infatti una tentazione irresistibile per un produttore, lo stile suggerisce al regista una sorta di sceneggiatura. Greene ama molto il cinema (come critico dello “Spectator” scriverà oltre 400 recensioni), e leggendo i suoi libri è impossibile non immaginarsi il film: le parole sono inquadrature, le scene contengono già un preciso montaggio, i momenti forti sono sottolineati da primi piani, i dialoghi son scritti per essere recitati. Così, tra sue sceneggiature e film tratti da suoi romanzi, si possono contare non meno di 30 titoli firmati Greene.
Qui ci limiteremo a ricordare i più famosi, in ordine cronologico letterario.
“Una pistola in vendita” divenne film nel ’42 (titolo italiano Il fuorilegge). È un classico noir, crudo e romantico, che, fedelmente al testo di Greene, presenta un eroe-antieroe, un assassino più “onesto” dei suoi mandanti, duro con gli uomini e tenero coi gatti, psicologicamente disturbato. Un ruolo perfetto per Bogart, e che invece servì da trampolino di lancio per Alan Ladd. E qui sta il primo errore e infedeltà al testo: Raven è un personaggio fisicamente sgradevole, perseguitato dal labbro leporino, dal ricordo della madre che si è cinicamente suicidata davanti ai suoi occhi bambini e dalla giovinezza spesa in uno squallido e sadico riformatorio cattolico, che lo ha reso ateo. Nel film Ladd è carino sotto tutti gli aspetti, con giusto un incubetto legato a una zia violenta. Aggiungiamoci che la storia è trasportata dall’ Inghilterra all’America; che il legame di timido amore diventa una convenzionale love story; e che gli sceneggiatori (tra cui l’ottimo W. R. Burnett) hanno acrobaticamente trasformato la trama fantapolitica (un ministro socialista vien fatto uccidere da un industriale per far scoppiare la guerra, in modo da alzare il prezzo dell’acciaio) nella vendita di pericolose formule chimiche ai giapponesi, e il gioco è fatto. Restano positive le suggestive luci “di taglio” e l’aver trasformato l’impermeabile in un indumento feticcio per i film di genere. Fu rifatto goffamente da James Cagney col titolo “Scorciatoia per l’inferno”, mantenendo gli stessi errori e abolendo i pregi.
“Missione confidenziale” (o “Agente confidenziale” che è anche il titolo del film), fu portato sullo schermo nel 1945 dall’incolore H. Shimlin, in una versione letterariamente corretta e priva di estro. Un film piacevole, con una bella fotografia che crea atmosfera e un cast indovinato (ottimo Charles Boyer), ma al quale non presteremmo attenzione se non fosse per il fatto che proprio l’autore lo considerò l’unico film americano decente tratto dalle sue opere, probabilmente apprezzando la rispettosa fedeltà al testo.
Fedeltà che non si trova in “The fugitive” (“La croce di fuoco”), ispirato al bellissimo “Il potere e la gloria”, un romanzo “serio” e non di intrattenimento, alla cui composizione lo scrittore dedicò molto tempo con toccanti risultati. Cosa abbia spinto un americano tradizionalista e bigotto come John Ford a confrontarsi col cattolicesimo problematico e l’anarchismo di Greene resta un mistero. La preoccupazione, poi, per la censura dell’epoca fece il resto, e così il misero prete vigliacchetto e ubriacone con una figlia bastarda diviene un santino con la bella faccina pia dello spaesato Henry Fonda. Furono tali i tradimenti sia formali che di fondo (per es. la figlia illegittima è ovviamente attribuita al cattivo),che il nome di Greene nemmeno appare nei titoli di testa, e all’inizio una voce fuori campo afferma addirittura che la storia “si svolge in un Paese immaginario” (il romanzo è imprescindibile dalla sua ambientazione nel sud del Messico)! Nuocciono poi al film il ritmo lento e pesante, i dialoghi da fotoromanzo e una musica pomposa in modo insopportabile, anche se figurativamente resta stupendo, con una fotografia suggestivamente ispirata all’Ejzenstein di “Que viva Mexico” e con l’immagine della croce che torna ossessivamente.
“Quinta colonna”, invece, fu tradotto per lo schermo (“Il prigioniero del terrore”) da Fritz Lang, il regista preferito di Graham Greene, a sua volta grande ammiratore dello scrittore. Quando Lang lesse la sceneggiatura di Selton I. Miller (anche produttore, quindi intoccabile) rimase orripilato e volle ritirarsi dal progetto: le parti più belle del libro (tipo quelle del manicomio – senza le quali, tra l’altro, la storia non sta in piedi) erano tagliate, il finale mutato, i personaggi semplificati, tutto a vantaggio della pura trama spionistica, ignorando i temi di fondo cari a Greene (e a Lang) sull’ambiguità umana e il senso di colpa. Per fortuna, però, il contratto firmato imprudentemente costrinse il regista a dirigere il film, perché Lang lo salvò col suo gusto espressionistico, i giochi di ombre e nebbie e un senso unico per il montaggio: così, se non fu il capolavoro che ci si poteva aspettare, “The Ministry of Fear” risultò comunque un ottimo prodotto di suspense.
I capolavori tanto attesi si hanno grazie alla felice collaborazione con Carol Reed: “Reed – sostiene Greene - è l’unico a possedere un particolare calore nella comprensione umana(....), precisione di taglio e di montaggio e, cosa di non poca importanza, la capacità di capire le preoccupazioni di uno scrittore e l’abilità di guidarlo” . La coppia Greene-Reed iniziò con un piccolo classico, “Idolo infranto”. Qui la tipica trama avventurosa è abbandonata a favore di un thriller psicologico che guarda, con cinismo e pietà, all’infanzia. Sebbene l’adattamento addolcisca in qualche modo la pillola (il maggiordomo non è colpevole della morte della moglie - e anzi è forse proprio la sua innocenza a disamorare il fanciullo), Reed esprime con un montaggio esagitato il senso di smarrimento e claustrofobia del bambino, creando atmosfere da incubo su piccoli dettagli quotidiani e sottolineando con efficacia il mondo morboso e distorto di segreti e bugie in cui vive. Meno “cult” del “Terzo uomo”, non gli è però inferiore, anzi.
Per quest’ultimo Greene scrisse il soggetto espressamente per lo schermo, anche se il trattamento base per la sceneggiatura si rivelò un avvincente romanzo breve che fu in seguito dato alle stampe. Per una volta un produttore, Alexander Korda, ebbe un’idea geniale, e fu quella di ambientare la storia nella Vienna post bellica divisa in quattro settori. Greene scrisse la prima stesura a Capri, poi si recò a Vienna, dove con Reed, per tre settimane, non fece altro che bere e lavorare. Il regista poi, particolarmente ispirato, impose uno stile allucinato, nero, con mitiche inquadrature sghembe e luci fortemente contrastate, e mise la ciliegina sulla torta rifiutando come protagonisti Cary Grant e Robert Mitchum (che avrebbero trasformato il film in un incrocio tra il primo Hitchcock e i noir RKO) e contattando invece Orson Welles – il quale contribuì almeno in tre modi: suggerendo Joseph Cotten (perfetto) per il ruolo di Martin, inventando il monologo dell’orologio a cucù, e regalando una splendida e seducente interpretazione di Harry Lime.

Di “Un americano tranquillo” furono fatte due versioni, quella del ’58 di Joseph Mankiewicz, con Audie Murphy e l’ottimo Michael Redgrave, e il recente (2002) “The Quiet American” di Phillip Noyce. Pur calligrafico e semplicistico, con un attore (Brendan Fraser) troppo patata persino per il ruolo di Pyle e un altro (il comunque fascinoso Michael Caine) che imita se stesso, il secondo è in ogni caso un solido e professionalissimo prodotto di intrattenimento, molto ben ambientato, con almeno un paio di sequenze notevoli, e se non rende profondamente la complessità di Greene, gli sarebbe comunque piaciuto più del film di Mankiewicz. Questi, infatti, ribalta la morale come un guanto e fa di un romanzo di denuncia antiamericano un manifesto della serie “amo e rispetto gli USA”, trasformando i moventi morali in motivazioni sentimentali (cioè, Fowler non è scandalizzato per la strage, ma è geloso della piccola Phuong) e l’imbecille e pericolosamente idealista Pyle in un eroe. Greene ovviamente si arrabbiò a morte, e poco gli importò che il regista, che non è un belìn qualsiasi, abbia confezionato un film formalmente valido ed emozionante, con dei dialoghi semplicemente straordinari, e assolutamente greeniani nella loro ambiguità. Comunque, quello che proprio non si capisce è perché nel ruolo di Phuong sia stata presa Giorgia Moll: una scelta che danneggia la pellicola assai più del suo ribaltamento ideologico.
Anche “La fine dell’avventura” è stato reso meglio al secondo tentativo. Il film di Neil Jordan (“Fine di una storia”)è anodino, noiosetto e con una protagonista insopportabile, ma, come tutte le illustrazioni diligenti, è gradevole da vedere, mentre quello di Dmytrick è di una mediocrità desolante. A sua discolpa c’è da dire che il povero regista aveva concepito il film come tutta una serie di flashback che si intersecavano e spiegavano, ma i produttori lo hanno massacrato montandolo in ordine cronologico! Comunque, per una volta, per entrambi i film il difetto sta nel manico, ossia nel romanzo di Greene, uno dei suoi più fiacchi: infatti lo scrittore ha voluto erroneamente cimentarsi con un melodramma d’amore, e per di più attingendo dalla realtà, che lo faceva soffrire, mancando così della necessaria distanza da vicenda e personaggi. E l’unico spunto di interesse – la sua “rivalità” con Dio – viene a mancare in entrambi gli adattamenti.
“Il nostro agente dell’Avana” è invece il terzo centro di Carol Reed. Anche se è un film in un certo senso minore, c’è ritmo, divertimento, e un efficace passaggio dalla comicità della partenza alle atmosfere quasi da incubo della seconda parte:così il tema costante di Greene dell’uomo qualsiasi coinvolto in grandi imprese ha qui la sua marca più hitchcockiana. Impensabile, comunque, con un attore diverso dal grande Alec Guinness, a cui va molto merito della riuscita del film.
Come è stupenda Maggie Smith in “In viaggio con la zia”(anche se G. avrebbe voluto per il ruolo Katharine Hepburn). George Cukor tradisce il romanzo tagliando tutta la parte finale e cambiando episodi, caratterizzazione dei personaggi e addirittura senso ultimo della storia, ma riesce a farlo senza troppo offendere, grazie al suo tocco particolare che garantisce un risultato estremamente simpatico e piacevole, così come lo è il libro.
A questo punto però occorre una riflessione finale. Abbiamo visto i motivi dell’attrazione del cinema per Greene, ma anche che i risultati – a parte 2-3 eccezioni – sono piuttosto deludenti ( e abbiamo sorvolato sulle operine para televisive irrimediabilmente mediocri, o sui grossi scivoloni come “L’incubo dei Mau-Mau”, “I commedianti”, “Il console onorario”, “Il fattore umano”). Perché?
Ci convince pienamente la spiegazione che Paolo Bertinetti dà nell’introduzione alle opere di Graham Greene su “i Meridiani”, che citiamo testualmente facendola nostra: “Forse perché il cinema riusciva a far propria la storia, la trama, ma non riusciva a trascrivere in immagini (...) i conflitti e i dubbi che la sostanziavano. Al punto da far pensare che Greene sia autore cinematografico solo in apparenza, per la tecnica del racconto e il clima che lo avvolge”, mentre il senso profondo dei suoi romanzi sta nelle infilmabili “contraddizioni dei personaggi e [nello]sguardo comprensivo con cui Greene li osserva e li accetta”