La Letteratura secondo Hitchcock: Psycho e Marnie

24/07/2014

Delle fonti letterarie da cui Sir Alfred Hitchcock traeva ispirazione per i suoi capolavori cinematografici molto si è detto, di come le tradisse, volontariamente, per carpirne l’idea e trasformarla in Cinema anche. Ed è su questo interessante spunto che si focalizza la nuova collana de “Il Saggiatore” curata da Matteo Battarra e Giuseppe Girimonti Greco intitolata appunto “La Letteratura secondo Hitchcock”. Lo scopo è quello di “andare all’origine” e pubblicare i romanzi che il Cinema di Hitchcock ha reso noti e lasciare ai lettori il gioco di mettere a confronto opera letteraria e film. Una guida, tuttavia, è messa a disposizione. Al termine di ogni romanzo è pubblicato un saggio in cui si analizzano differenze e passaggi da libro a film e stralci della celeberrima intervista di François Truffaut a Hitchcock dedicati al titolo in oggetto. La collana è partita dal romanzo di Robert Bloch, Psycho, che ha dato origine al film simbolo di Hitchcock, e da Marnie  di Winston Graham, tradotti rispettivamente da Bruno Tasso e Anna Ferruta, che si presentano con due accattivanti, simboliche, copertine (una doccia sanguinante per Psycho e uno specchio lacerato per Marnie). Di prossima pubblicazione saranno Rebecca di Daphne Du Maurier, che verrà pubblicato nel 2015,  Caccia al ladro di David Dodge e  The House of Dr Edwardes di Francis Beeding, da cui è tratto il film Io ti salverò. E’ curioso notare come tre titoli su cinque abbiano in comune materia di psicoanalisi, tema su cui l’interesse del regista era rivolto. Anche noi, quindi, li metteremo a confronto in un’ analisi letterario-cinematografica.

“In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche; quello che mi importa è che il montaggio, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico possano far urlare il pubblico” dichiarava Hitchcock a Truffaut. Il film “in cui si ottiene il massimo del terrore con il minimo indispensabile di sangue” è tuttora, a 54 anni dalla sua realizzazione, esempio di pellicola che utilizza ogni espediente per terrorizzare, tanto che la sua classificazione risulta difficile. Psycho è un giallo, un noir, un horror, un thriller? Ogni definizione gli si addice. Ha dato origine a sequel e remake che lo omaggiano in modo calligrafico. E’ entrato nella storia del Cinema con sequenze cult come quella della doccia, con la musica che risuona come un urlo agghiacciante, con il suo bianco e nero abbacinante, con un nevrotico Anthony Perkins da antologia. Tanto che oscurò la fama del romanzo. E si tiene scarso conto che il libro di Robert Bloch serpeggia di inquietudini ed è ugualmente, se non maggiormente, disturbante. Hitchcock, si sa, edulcorava gli orrori: era il Maestro del Brivido a tutti gli effetti, ma nella sua rappresentazione emotiva ed astuta, che restava alla superficie e non scavava a scuotere gli animi nel profondo.
Bastino due esempi a dire come il romanzo di Bloch sia teso a turbare, mentre il film a terrorizzare. Non sono solo le tematiche (ossessione omicida, matricidio, complesso edipico, necrofilia, dissociazione della personalità), ma il fatto che tutto il romanzo sia narrato, seppur in terza persona, dal punto di vista dello psicopatico e quindi il lettore ne assume la soggettiva. Inoltre Norman Bates è rappresentato fisicamente come un uomo sgradevole, repulsivo, mentre sullo schermo l’accattivante, nervoso, fragile, psicolabile Anthony Perkins conquista l’occhio dello spettatore.
Il film, dicevamo, fu ed è tuttora un tale successo che privò Bloch dei suoi meriti. L’espediente narrativo di uccidere inaspettatamente la protagonista ad un terzo della vicenda, la scena stessa della doccia sono elementi del libro. Che poi Hitchcock vi aggiunga indovinatissime intuizioni tecniche, quali le coltellate che non toccano mai il corpo e il montaggio convulso e serrato dell’uccisione, è indiscusso. Così come è innegabile l’identificazione inconscia con un personaggio negativo: la tensione con cui Norman Bates guarda affondare nella palude l’auto con il cadavere e la sospensione dell’auto prima di sprofondare non fa forse pensare per un attimo “speriamo che vada a fondo”?
Di Bloch nel film resta l’anima nera, l’impronta horror che fa di Psycho uno dei film più marcatamente orrorifici (insieme forse a Gli Uccelli) della filmografia hitchcockiana. Allievo ideale di Lovecraft, col quale durante l’adolescenza ebbe una lunga amicizia epistolare, Bloch improntò i suoi primi scritti ad un’atmosfera gotica mirando a trascinare il lettore in un tunnel di paura e tensione. Fu negli Anni Cinquanta che lasciò le ambientazioni sovrannaturali per trasferire le sue storie nell’orrore quotidiano e “banale” della provincia americana e Psycho si inserisce in questo clima di ordinario terrore.

Diverso il discorso per Marnie, in cui la maggior differenza è a livello di plot narrativo e sta proprio nel trauma che determina tutto il comportamento della protagonista. Marnie è ladra, frigida, bugiarda e vive molte identità e fin qui libro e film vanno di pari passo. Le narrazioni si discostano, è vero, in parecchi punti, ma ciò accade per qualunque trasposizione cinematografica: ad esempio nel film non figurano personaggi come quello dello psichiatra (è il marito stesso a tentare di psicanalizzare Marnie) o del rivale Terry, che nel libro ha un ruolo chiave, l’ambientazione è spostata dall’Inghilterra (Torquay diventa Baltimora) e, soprattutto,  il marito Mark Rutland  nel romanzo di Winston Graham è più volte descritto come un uomo dall’aspetto delicato e fragile, mentre il casting decretò per il ruolo l’aitante Sean Connery, dominatore e rassicurante anche sotto il profilo psicologico. Ma è sul finale che il film cambia direzione e, non solo offre una versione sostanzialmente diversa dell’evento traumatico che condizionerà la vita di Marnie, ribaltando completamente la figura della madre, ma risolve il tutto in maniera molto sbrigativa e semplificata.
Hitchcock era attratto dal tema della psicanalisi, ma ad un pubblico allora prematuro forniva soluzioni che oggi appaiono ingenue. Si pensi a “Io ti salverò”, così altamente suggestivo nella celebre sequenza del sogno disegnata da Salvador Dalì, la cui rapida interpretazione porta alla soluzione del mistero facendo riemergere il trauma e guarendo di conseguenza il protagonista. Si può dire che Hitchcock trovasse nella psicanalisi spunti filmicamente affascinanti e li usasse quindi a pretesto delle sue fantastiche intuizioni visive, che poi erano ciò che realmente lo interessava. La cosa si replica con Marnie. Gli incubi della protagonista si risvegliano all’angoscia destata dal colore rosso, ossessione del tutto assente nel libro, ma di sicura efficacia sullo schermo. Ma non appena si ritrova durante un temporale sul luogo che generò tutti i suoi problemi il ricordo riaffiora, rivive la scena ed il trauma è rimosso. Viene, almeno, da sorridere per la conclusione.
Nel romanzo di Graham è tutto più graduale e segue un accorato processo psicologico. E determina una precisa scelta stilistica. La storia è infatti narrata in prima persona dalla protagonista, senza giudizi esterni o tentativi di ispezionarne i meandri mentali. E i primi capitoli si susseguono freddi, veloci, con lo stesso distacco emotivo che Marnie ha per ogni cosa. E’ uno stile telegrafico, quasi da appunti di un diario. Marnie ha tante personalità e nessuna, nella sua fretta di lavarsi via – anche materialmente – ogni nuova identità prima di restare toccata da qualunque tipo di emozione. Lo stile narrativo ne eredita la fretta. Ma nella parte finale Marnie si trova, suo malgrado, al centro di una tempesta di emozioni. Ogni avvenimento l’ha condotta lì. L’introspezione si fa quindi più accurata, la narrazione più partecipe, le pagine più cariche di sentimento e il lettore avverte palpitare la sua confusione.
Un libro da leggere, anche per chi non volesse fare l’inevitabile paragone col film.

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Gabriella Aguzzi