Ricordo che quando a 16 anni lessi “Il Ritratto di Dorian Gray” rimasi un poco delusa perché, dalla trama che mi era stata annunciata, mi prefiguravo un romanzo misterioso e di genere romantico, fitto di delitti e paure soprannaturali. Non sapevo apprezzare, al tempo, una storia di dannazione narrata attraverso l’estetismo puro e l’eleganza diabolica del cinismo di Lord Henry che guida alla tentazione attraverso l’aforisma.
Sembra che il regista Oliver Parker (che ha già firmato uno sciapo “Othello” e un poco incisivo “L’Importanza di chiamarsi Ernest”) abbia riletto il libro di Oscar Wilde con la stessa ingenuità superficiale, facendone un dramma avventuroso che tradisce lo spirito del suo autore. E se nel suo primo incontro con Wilde non aveva lasciato grande impronta, qui pecca in senso inverso, reinterpretando malamente il testo.
Passi pure quando concretizza il cammino di Dorian Gray nella perdizione del vizio e del peccato, col bellissimo viso angelico mai intaccato dal Male e dagli anni che lo rende una diabolica leggenda, anche se riduce il tutto a un carosello di incontri lascivi e convegni orgiastici (d’altra parte il libro glissava eccessivamente traducendo gli anni dell’orrore in un dettagliato elenco di meravigliosi oggetti d’arte di cui Dorian Gray si circonda grazie ai suoi peccati, scegliendo un estetismo traboccante anziché sondare gli abissi della dannazione, come antitesi volontaria). Ciò che veramente fa raccapricciare è la scelta di fare del romanzo di Oscar Wilde un horror di serie C.
Il quadro, specchio dell’anima marcia di Dorian Gray, che assorbe la sua mostruosità lasciandolo nell’eterna giovinezza, diventa nel film una cosa semovente che si riempie di smorfie e di vermi, ringhiando e sibilando come una creatura lovecraftiana imprigionata nella soffitta, e in un pirotecnico finale si sprigiona fuori dalla cornice ribellandosi alle fiamme che Lord Henry gli appicca, mentre Dorian Gray si sgretola assumendone l’orrido sembiante. Inutile ricordare che Oscar Wilde aveva scritto ben altro finale: Dorian invecchia e muore pugnalando il quadro che gli rinfaccia il suo vero volto, il cadavere viene riconosciuto dagli anelli.
A parte questo raccapricciante espediente, il regista ha poi pensato di indugiare in una lunga storia di redenzione, con rimorsi e voci da fantasmi shakespeariani che perseguitano Dorian Gray, che il contrastato amore proprio per la figlia di Lord Henry ha contribuito a cambiare e volgere al pentimento, con l’inutile aggiunta di alcuni tormentati flash back sull’infanzia di Dorian e lo scenografico arricchimento di un inseguimento nei meandri della metropolitana.
D’altronde, la scelta di iniziare il film con la cruenta uccisione del pittore Basil indica già il proposito di raccontare una storia d’orrore e di sangue, una sorta di patto demoniaco in cambio della bellezza eterna (e l’innamoramento frustrato di Basil per il suo modello è ampiamente sottolineato). Gran parte dell’ironia di Lord Henry, più evidente nel sofisticato distacco di George Sanders nel pur modesto film del 45 diretto da Albert Lewin, si perde nel presentare la figura di questo malefico demiurgo più come un antagonista che istiga alla vita che non ha il coraggio di vivere, e l’affascinante Colin Firth è forse troppo sensuale per il ruolo. Resta tuttavia una catena di godibili epigrammi che si incidono nell’animo di Dorian plasmandolo come creta, e la prima parte del film fa leva sul contrasto fra i tre protagonisti: l’ironico cinismo amorale di Lord Henry, la passionalità di Basil (un efficace Ben Chaplin), l’ingenua e ancora candida bellezza di Dorian che si fa via via più smaliziata e affascinante, cui il viso giovane e pulito di Ben Barnes (“Le cronache di Narnia”) si adatta perfettamente. Ma per un degno film tratto da “Il Ritratto di Dorian Gray” (oltre al già citato film di Lewin contiamo perfino una versione nella Londra dei tardi Anni 60 di Massimo Dallamano con Helmut Berger nel ruolo del protagonista, “Il dio chiamato Dorian”) dobbiamo ancora attendere.