Gli Spettri di Stephen King, tra Apocalisse e Business

20/01/2010

“Signore, sono pronta a seguire il tuo cammino, come sempre, ma, ti prego, non chiedermi di esserne troppo felice.”
(Mamma Abigale, L’ombra dello scorpione)


Se dovessimo dare un nome all’horror moderno, che ci piaccia o no, quel nome sarebbe King. Le ragioni sono fondamentalmente tre: King è universalmente conosciuto, anche da chi non legge horror o da chi non legge affatto, pronto subito a dire qualcosa come: “King? Troppo commerciale, non lo leggerei mai.” Ma il succitato stereotipo, a dire il vero, non legge neanche Dostoewskij. King ha scritto più di chiunque altro, il numero dei sui best seller è traumatizzante e destinato a crescere, grazie a giovani e non, memori della grande suggestione che comunicavano i suoi primi romanzi. King è lo scrittore in assoluto meglio adattabile al cinema, lo è sempre stato, più che mai ora, dato che scrive romanzi e racconti proprio in vista della loro rilettura cinematografica. Insomma, King è un grande uomo d’affari, con uno straordinario intuito per il gusto del suo sterminato pubblico, ed è un bravo scrittore, anche se non ci spingeremmo a definirlo “genio” o “maestro”, chiudendo subito con l’abusato luogo comune a lui riferito de: “il re del brivido”.
Non è il re, non è un fenomeno. Lo si dica senza paura o reverenza, i fenomeni sono diversi, i geni lo sono ancora di più. E’ lo scrittore che ci vuole in questo momento, e che sia bravo anche grazie a questo momento è, per lui, sia un merito che una fortuna. Fortuna perché l’horror è richiestissimo, sia dai lettori che dai consumatori di home video, merito perché King ha saputo cogliere l’attimo, e nel modo più epicureo che si possa intendere. “Evitate le emozioni troppo forti, evitate quello che potreste avere con difficoltà”, diceva il filosofo della scuola succitata, e, nello steso modo, Stephen King sa di dover fare paura, ma non troppo, sa di dover essere un po’ morboso, ma non quanto l’amico-rivale Clive Barker, sa che l’inquietudine è alla base del suo successo, purchè non porti alla follia. Un horror moderato, il suo, che quasi tutti possano sopportare e che diventi mito presso i giovanissimi, agile lettura per i più grandi, ritorno al passato per gli ormai molto adulti che, tra un classico e un apocalittico di John Grisham, desiderino riprendersi con una lettura magari standardizzata, però mai del tutto priva di interesse. “I suoi romanzi sono fatti con lo stampino”, altra frase poco lusinghiera ma assai ripetuta quando si parla dell’ autore originario del Maine, e forse anche vera. Ma se lo si legge fra le righe, se si presta attenzione alla dinamica invero troppo proposta fra padre non immacolato, moglie più amata che desiderata e figlio ad un bivio, si possono scoprire cose nuove, oppure il tema che da sempre ossessiona King: il riscatto, la crescita, l’ascensione, il senso della vita, l’eternità. Con questo Dio che va e viene, che sarebbe meglio ci fosse, benché tutto faccia pensare al contrario.
Dio è uno dei punti cardine della narrativa Kinghiana, ed i suoi rimandi alle Sacre Scritture sono presenti quasi in ogni suo lavoro. Dio o il Non-Dio, ovvero l’ipotesi anti-satanica che un Grande Architetto proprio non ci sia, o lasci perdere tutto, a vantaggio di esseri subdoli, potenti ma non invincibili, giunti fin qui a minare le nostre speranze, a tentarci, anche ad ucciderci. Alla fine, tuttavia, è sempre la purezza a sconfiggere il male, all’interno di quell’ottica para-religiosa che va dalla fede autentica al semplice essere buoni, facendo vera la regola secondo la quale è il peccato a causare la rovina di un personaggio, peccato che in King non si concretizza con la colpa carnale, come in quasi tutti i film di serie b americani e non, il nostro autore è troppo moderno per cedere così passivamente alla regola, ma con l’allontanarsi dall’armonia, dall’innocenza, col cedere alla tentazione del nichilismo e della disillusione. Muore chi non crede più, anche se importa poco in chi si creda, perché King ha una grande fede nel credere, ma in cosa gli interessa assai meno.

Paradossalmente, “Shining”, trasposto da Stanley Kubrick nel grande film con Jack Nicholson e Shelley Duvall, è una delle migliori opere di King, ed al contempo una di quelle che meno lo rappresenta, se non altro nel suo aspetto commerciale, così come poco lo rappresentano i racconti, a giudizio di chi scrive forse il suo lato più interessante. “Il romanzo è una lunga storia d’amore, il racconto è un’avventura”, dice l’ideatore del recente “The Mist”, diffuso con successo in dvd e al centro di parecchie critiche per nulla apologetiche, e ci sono tanti tipi di avventure: alcune rimangono dei pallidi ricordi, e qui si rammentino i tentativi del nostro di rivivere le atmosfere di Edgar Allan Poe o di Howard Phillips Lovecraft, conclusisi tutti con clamorosi insuccessi, (un insuccesso annunciato, dal momento che nessuno è mai riuscito a farsi emulo di Poe o di Lovecraft, neppure autori superiori a King), altre sono, invece, la nostra vera essenza, quella che viviamo per poco tempo, che vorremmo fosse eterna ma che, invece, dura poche pagine, tutte bellissime, ma propedeutiche solo al lungo e abbastanza monotono romanzo che vale una vita. In tal senso si leggano le raccolte “Spettri” e “Stagioni Diverse” per veri brividi e vere suggestioni.

Uno di primi scritti a diventare film fu “Unico indizio la luna piena”, ricavata dal breve e omonimo romanzo. Il panorama è quello tanto odiato da Stephen King: la piccola provincia americana, da sempre teatro di indicibili orrori, o, almeno, così amano presentarcela gli statunitensi. Nonostante la banalità della narrazione, che tutti pensiamo abbiano intuito si indirizzi verso la licantropia, una delle suddette peculiarità fra le righe risalta purtroppo solo al lettore, ovvero l’analisi del fenomeno “licantropico.” E’ una malattia che si propaga per contagio tramite il morso, questo lo sappiamo bene, ciò che non sappiamo è come nasca. Nell’antichità si credeva all’innatismo, ovvero alcuni venivano al mondo semplicemente così: dei mutaforma, nell’era moderna il licantropo già esiste, ma come lo sia diventato resta un mistero. Per King è il profumo dei fiori a far sì che un sacerdote perda la grazia e diventi un lupo mannaro, il profumo delle viole, il profumo che, da sempre, si associa a Satana. Viole che il sacerdote desidera annusare, che non evita, nonostante il loro profumo sia tremendamente forte, ed è in quel momento che l’uomo di chiesa compie la sua scelta, ovvero rinnega l’abito che porta: per una coincidenza che poi diventa libero arbitrio, ed è un peccato che il film non si curi di questo passaggio fondamentale.

Tentazione di seguire il male, dunque, tema ampiamente trattato in “Salem’s Lot” (titolo del romanzo: “Le notti di Salem”) con i carismatici Rutger Hauer e Donald Suttherland nei panni di un maestro della notte alla guida dei suoi discepoli vampiri e di un complice umano dall’aria mefistofelica. C’è il solito romanziere in crisi, i soliti ragazzini che devono crescere e affrontare la paura, contrapposti al mondo degli adulti: banale e corrotto. Ed ecco la differenza fra i bambini che King tanto ama e i grandi: un uomo vede un vampiro nella propria stanza e cade a terra vittima di un infarto, un bambino lo vede traverso la finestra, prende la croce che sta nel presepe, lo caccia via e si rimette a dormire, ecco la grande forza dell’innocenza, non ancora costretta da una visione rigida e positivista della vita, ecco l’energia che richiama il bene. Ed è sempre grazie alla naturale volontà di vita di un bambino che Ben Mears, il protagonista, affronta il suo incubo peggiore, lo sconfigge, rinasce tornando all’infanzia, ne esce distrutto ma libero.

I bambini, che tanti autori mostrificano, per King rappresentano spesso la salvezza, sia essa relativa alla vita terrena, oltremondana o fatta di entrambe le dimensioni. Nessuno, in effetti, ha la fede di un bambino, come si evince da “Desperation”, che è il nome di una cittadina ma anche lo stato d’animo di chi la fede l’ha ormai persa. “Qui Dio non c’è, piccolo prete, come non c’era quando Cristo morì sulla croce con le mosche negli occhi!” Urla un Vaisin (demone della terra) incarnatosi nel corpo dello sceriffo (il memorabile Ron Perlman, l’eretico dolciniano de “Il nome della rosa”), e tutti, benché vittime, sembrano dello stesso parere, tutti tranne il “piccolo prete”, ragazzino adolescente dalla fede profonda e complessa, che guida gli adulti traverso un percorso di redenzione, dato che nessuno, davvero nessuno, può dirsi innocente.

E’ la considerazione che sta alla base de “La tempesta del secolo”, film immerso in una neve perenne che cade come una maledizione e porta con se uno dei più antichi demoni della storia. “Il mio nome è Legione, perché siamo una moltitudine” (Luca, 8, 30) E Linoge, il nome dell’uomo giunto con la tempesta, è l’anagramma di Legione. E se dice bene il protagonista: “Nella vita si paga tutto”, gli abitanti dell’isola sopra la quale si scatena la bufera hanno molto da farsi perdonare, Andrej Linoge lo sa, conosce ogni colpa, la rivela più come un angelo sterminatore che come una creatura del male. Non sempre la redenzione è dietro l’angolo, e, comunque, mai giunge senza un prezzo. Questa volta il prezzo è altissimo, perché Andrej Linoge, alla fine, ottiene ciò che vuole. In altre parole, vince.

Vittoria di un male necessario che non prevede cammino formativo, a differenza di quel che accade in “It”, davvero il più classico King che si possa trovare, cioè quello che narra di amicizia, patti infantili da rinnovare una volta adulti, legami forti contro ogni avversità, e un mostro lovecraftiano da affrontare che altri non è che la fine della giovinezza, la fine delle illusioni. Perdere la fede nel bene significa già la vittoria del male, essere neutrali non è consentito. Una compagnia di amici si riunisce trent’anni dopo gli orrendi fatti che avevano segnato la loro infanzia, e l’orrore è rimasto ad attenderli nel buio, pronto a colpirli nel’attimo in cui fossero diventati vulnerabili. E’ sempre una prova di forza, quella che si gioca contro il male, e non è necessario vincerla, talvolta si è costretti al sacrificio estremo. L’importante, per King, è non lasciare nulla insepolto. Volendo usare una frase ad effetto: meglio morire che vivere nella paura.

Una vita è sempre legata ad altre vite, anche nel tempo dell’apocalisse. “Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte, e lo seguiva l’inferno.” (Apocalisse, 6, 8) “L’ombra dello scorpione” non è l’unico romanzo apocalittico di King, ma di certo è quello che ha generato il film più lungo, in attesa che qualcuno metta su pellicola “Cell”. Opera simbolica, come lo è l’ Apocalisse, ricca di personaggi e circostanze deliranti, conduce il genere umano sull’orlo dell’estinzione a causa di un virus diffusosi da un centro di ricerca militare segreto. Ancora una volta il coraggio salvifico decide chi meriti di vivere e chi no. I codardi, quelli che si fanno cogliere dallo sconforto e non aiutano il prossimo divengono presto vittime di un male che parte dall’anima e si propaga al corpo, gli altri restano miracolosamente sani, quasi sfidando le leggi che governano le diffusioni delle malattie, toccando i cadaveri, soccorrendo i moribondi, in un palese atteggiamento anti-ipocondriaco portato quasi all’eccesso. Nessuno può dirsi solo, e questo, si badi bene, è sia una consolazione che una condanna. L’amicizia, la fratellanza, l’empatia è biunivoca per definizione, chi non è disposto a condividere il dolore collettivo ha due possibilità: morire o votarsi al male, alla creatura demoniaca che sta dietro il contagio e che muove i suoi Cavalieri dell’Apocalisse arruolati dopo attenta selezione.

otremmo, naturalmente, citare molto altro, come, ad esempio, “Pet Cemetary”, uno dei romanzi più malati dello scrittore di cui stiamo parlando, o “Misery non deve morire”, o “Christine la macchina infernale” ma ci parrebbe fuori sede. Abbiamo illustrato il King odierno traverso una carrellata dei suoi lavori più rappresentativi degli ultimi anni, tratteggiando uno scrittore senza dubbio moralista, però mai buonista, che non si lascia contagiare dall’attuale puritanesimo e che propone una via salvifica difficile. C’è ironia, in King, anche tristezza, con quello sguardo perennemente al cielo che talvolta è vicino, altre volte è lontanissimo. Con quella sindrome di Peter Pan, visibile perfino nella scelta spielberghiana degli attori, che è volontà di essere diversi dal male. Il male esiste per sua intrinseca natura, il bene no. Il bene va costruito. Parola di Stephen King.

Carlo Baroni