La Metatemporalita’ cinetica: l’illusione dell’immagine per la vita

15/10/2015

Il cinema registra il tempo proprio delle vicende susseguentisi impresse su pellicola. Nel farlo, si annette i tempi relativi a ciascun attimo preciso e ben definito degli spaccati di vita catturati dalla macchina da presa che offrono un quadro di riferimento per la visione dell’occhio umano che rappresenta paesaggi, figure, luoghi, ambientazioni, azioni e movimenti il cui riferimento razionale , che si credeva di controllare e dominare a partire dalla pura percezione tridimensionale dell’organo della vista, viene fortemente scombussolato e messo in crisi, quasi rovesciato, da tutto ciò che l’occhio non riesce a vedere in quanto limitato dalla sua unidirezionalità sensoriale volta verso ciò che ha davanti, laddove il cinema riesce pienamente a cogliere ciò che non può normalmente essere colto voltandosi anche verso ciò che si trova dietro di sé. Sotto quest’aspetto, è possibile definire il cinema, la settima ed ultima arte dello scibile umano, come l’arte che meglio sintetizza e supera tutte le altre nel punto in cui queste ultime mostrano ineluttabilmente i loro confini ultimi, tracciati segnatamente dalla barriera costituita dal tempo che il cinema non soltanto è in grado di superare, ma anche soprattutto di manipolare. Per questo si può affermare che il cinema è una vera e propria arte di natura tetradimensionale, che, in parte memore della relatività spazio-temporale espressa in ambito scientifico da Einstein, in parte influenzata dall’operato picassiano che nel suo cubismo poliforme ammette il tempo come quella quarta dimensione che meglio completa e configura le rimanenti tre spaziali come tempo di prendere visione dell’opera in tutti i suoi aspetti più poliedrici, mostra come la gestione rivoluzionaria che essa concede di fare del tempo, data espressamente dalla tecnica del montaggio che tanto è stata studiata ed adorata dalla scuola cinematografica russa, scardina sostanzialmente le coordinate paradigmatiche con cui giudicare i moventi e le cause di ciò che avviene comunemente nella realtà, poiché la sovrapposizione di immagini, di scene apparentemente inconciliabili che però hanno in comune lo stesso comune denominatore (uno stesso personaggio, uno stesso luogo, uno stesso oggetto o uno stesso ricordo sperduto nel tempo) connette dimensioni temporali (ossia interne al tempo scomposto dal suo interno) che svelano la realtà delle cose sotto una luce ben diversa, mostrando il mondo e l’uomo infine per ciò che sono, ossia creature essenzialmente temporali, innestate nel tempo, che il cinema, come arte, come detto, maxima summa di tutte le altre, rivela quasi hegelianamente nel loro autodispiegamento fenomenologico che avviene col tramite del movimento che la macchina da presa registra. Le causalità, che con la sovrapposizione temporale delle immagini verrebbero logicamente a mancare, in realtà, quindi, per via di questo stesso apparente ingarbugliamento, si dimostrano molto più chiare e concise perché completano con la tecnica del montaggio interamente il raggio di visione che l’occhio umano non avrà mai nella sua totalità onnisciente. Il cinema è il terzo occhio che tutto vede e nulla perde, il dispositivo meccanico dotato di un’anima da parte del suo materiale (l’esistente stesso nelle sue molteplici forme) che è l’oggetto che gli conferisce senso compiuto oltre che vita in senso lato (sia metaforicamente che letteralmente) stagliantesi nelle tenebre dell’iniziale cecità dell’occhio umano, che, come accade al momento della proiezione della pellicola, comincia a vedere più chiaramente solo quando la luce del faro del proiettore si fa strada nel buio della sala “ricreando” il cinema. Il cinema, in questo senso, è anche una degna metafore della luce, quindi della vita, che si fa largo solo nell’oscurità, pertanto nella morte, da cui risorge in virtù delle forme di vita già registrate (e quindi non più disperse) che riportano in scena sullo schermo, e alla memoria degli spettatori “presenti”, il “passato” di quanto è già stato che, col cinema, non diviene un mero reperto storico statico e fossilizzato, ma una vera e propria “attualità” presenziale riproponibile per il futuro e, per quest’aspetto, immortale. La scomposizione cinematografica del tempo nelle sue articolazioni interiori fa sì che il cinema comprenda il tempo non soltanto a livello narrativo (il mero svolgersi delle scene montate secondo un progetto di raccordo narrativo ben delineato), ma specialmente a livello metanarrativo, il livello in cui il cinema, esplicitamente o, come avviene più comunemente, implicitamente, riesce a comunicare allo spettatore qualcosa che va ben al di là della singola ricezione di quanto mostrato sullo schermo giacché questo messaggio in sé viene veicolato nella sua sostanza dai differenti “tempi” rappresentati emblematicamente dalle cose riprese la cui essenza il cinema svela manifestamente come una sorta di reale epifania conoscitiva del reale che si innesta in una comprensione di ciò che è circostante alle vicende esistenziali molto più radicata e radicale (divenendo dunque il cinema “metacinematografia”). Sotto quest’aspetto, il tempo “esteriore” dell’evenemenzialità della trama esplicantesi, che regge e governa le leggi della causalità degli atti e del movimento interno al dispositivo cinematografico in modo del tutto originale e pionieristico, comprende anche in sé il tempo “interiore”, che è poi il vero tempo nella sua temporalizzazione, la temporalità stessa come indole segretamente recondita e da ricercare continuamente del tempo, che frammenta ancora più minutamente le diverse porzioni del tempo specifico della vita propria dell’opera filmica e del tempo generale proprio dell’esistenza della vita reale, rivelando come il tempo, che risulta essere la natura ancestrale di tutte le cose e di tutti gli esseri infine, sia relativo non più in senso locale (ossia per un’intera data situazione o ambito circoscritto della parte di vita/esistente ripresa), ma in senso prettamente “singolare”. Il che vuol dire che il cinema dimostra che il tempo, in quanto connaturato agli esseri e alle singole cose, è un tempo precisamente “di persona”, ogni persona, ogni cosa, ogni essere determina il suo spazio e il suo tempo relativo, che, opportunamente tratteggiato e carpito all’interno della struttura narrativa di un film come un momento di unicum offerto da una particolare inquadratura o da una precisa angolatura dell’immagine del medium di questa stessa interiorità temporale del tempo, si stanzia paradossalmente al di fuori del tempo stesso, poiché, rappresentando nel cinema la radice ultima e più profonda del tempo dimostrato come temporalizzabile (scomponibile temporalmente nelle sue forme), non può essere caratterizzato dai medesimi effetti della sua creatura (ossia il tempo temporalizzabile) e, pertanto, pur essendo dedotto a partire dal tempo nella sua temporalità temporalizzabile, la radice ultima del tempo non è temporalizzabile e determina una forma di reale “immortalità” che imprime una singola immagine istantanea, un primo piano, una sequenza particolarmente delineata nelle menti degli spettatori. Così facendo, il cinema non riproduce però in modo puramente meccanico le procedure eidetiche del pensiero umano che rimescola in sé le diverse accezioni superficiali e approfondite del tempo, ma aderisce al reale nella sua piena totalità data da quel “tra”, quell’attimo di mediazione non pienamente carpito dall’occhio umano poiché disperdibile anche nell’attimo di un singolo battito di ciglia, che però l’occhio della macchina da presa, che risulta essere in ciò una sorta di amplificazione delle potenzialità visive dell’occhio umano, riesce perfettamente a cogliere. Il cinema dunque, in virtù della sua predisposizione marcatamente temporale, è copia che riproduce le potenzialità, o, per meglio dire, ogni tipo di potenzialità, intesa sia nei termini di quello che potrebbe essere (basti pensare al fantastico, al non-reale, al visionario, all’ideale, all’animazione, alla creatività) sia di ciò che forniscono le pure e piene potenzialità mentali dell’essere umano che molte volte risentono di un difetto di rappresentazione di una particolare variabile ineffabile che caratterizza le loro ideazioni più vertiginose e che, struggendosi per l’incapacità apparente di configurarla mentalmente appieno, con la rappresentazione “in movimento“ (quindi col cinema) possono finalmente rimediare a questo loro innato gap di concepimento intellettivo. Pertanto, il cinema è in questo anche il modello dell’atto stesso della creazione, che, avendo il suo surrogato nettamente materiale nelle pellicole di celluloide che rendono possibile la cattura delle immagini dell’esistente, permette all’uomo, all’artista, di “giocare” con queste immagini in ogni maniera possibile in maniera del tutto conscia, rendendosi assai simile in questo alle dinamiche dominanti del sogno, che però, a differenza del cinema, si manifesta in maniera inconscia, mentre il cinema, che rappresenta nitidamente ogni cosa anche in modo criptico quando si presta alle opere di simbolizzazione delle sue immagini, appunto per il fatto di essere costituita da immagini che catturano il “tra” che dischiude il suo tesoro nascosto più prezioso, ossia la temporalità temporalizzabile del tempo che risale alla radice atemporale del tempo stesso, è per sua natura chiaro e questa sua chiarezza gli consente di realizzare, anche se su pellicola, i sogni stessi trasposti su pellicola. Il cinema è la macchina dei sogni. Non è assurdo ipotizzare che il cinema stesso, che, a differenza delle altre arti, ha un suo corrispettivo pratico-materiale ben specificato che lo rappresenta alla perfezione (la macchina da presa), abbia in un certo senso una sua “vita” autonoma, dal momento che esso riprende la vita (risultando essere in ciò il miglioramento definitivo dei risultanti raggiunti dalla fotografia, costituita da immagini ferme e statiche nel tempo che non rendono pienamente l’”idea” della vita, che il cinema, nell’alternarsi pedissequo dei suoi fotogrammi componenti, non solo riprende nella sua “idealità” ma anche registra più praticamente nella sua dinamicità) e la manipolazione delle immagini, che compie, gli permette di raffigurare una concezione mentale di un dato avvenimento che può avere un senso ben diverso da quello che originariamente si pensava che avesse. Questo vuol dire che il cinema può, in virtù di questa sua peculiare caratteristica manipolatrice, sia riconferire il suo vero senso ad un evento sia (un po’ come previsto da Orson Welles nel suo F for Fake) contraffarlo, camuffarlo, dargli un senso completamente diverso a seconda della prospettiva e delle intenzioni. Pertanto, esattamente come la mente umana, il cinema, che difatti è diretto dalla mente umana, è il sensato e il sensante del suo contenuto costituente che fornisce il senso mentale alle immagini riprese. Questo è ben lungi dall’affermare che il cinema ha una sua “vita” propria, poiché non ha una sua “volontà” indipendente dall’operare dell’essere umano, ma può capitare che possa portare alla conformazione di immagini (accompagnate da musiche e suoni particolari) che sembrano suggerire il loro stesso destino autonomamente, facendo in modo che l’operatore cinematografico altro non possa fare che adattarsi a questo “richiamo meccanico della foresta” che può ricordare l’ontocentrismo heideggeriano. Per questo il cinema è forse l’unico esemplare di macchina “dotata di vita”, perché è connesso effettivamente all’uomo dal potenziamento delle sue facoltà di percezione, ricezione e concezione dell’esistenza e non è una creazione aberrante (si pensi al robot Maria di Metropolis od alla macchina fin troppo umana HAL 9000 di 2001-Odissea nello spazio) che intende sconvolgere tale ordine perché programmata a tal scopo (Metropolis) o perché ricalcante l’essere umano così in profondità da risentire di tutti i difetti più gravi ed evidenti della sua costituzione naturale poiché pur sempre non umana e non capace quindi di regolarsi come fanno gli esseri umani (2001). L’”umanità” della macchina cinematografica è data proprio da questo sottile, e quanto mai cruciale, discrimine di differenza fra la natura della macchina e quella dell’uomo, poiché la macchina dipende dall’uomo e dalla realtà in quanto, se non vi fossero questi due, non ci sarebbe neanche cinema, e il termine stesso “cinema” indica il movimento. Laddove non ci sono né esseri né oggetti statici e dinamici, non vi può essere “cinema”, quindi non vi può essere esistenza. L’esistenza è il presupposto fondativo e fondamentale dell’esistenza stessa del cinema. Il tempo, archetipo costitutivo dell’ordine di tutta quanta la realtà, è dunque necessariamente riprodotto dal cinema, che, per via della sua natura altresì meccanico-materiale di riproduzione, montaggio, riproduzione e sovrapposizione narrativa di immagini con ripercussioni metanarrative di immagini, permette di ampliare gli orizzonti percettivi dell’occhio umano rivelando il tempo come principio sottostante di ogni cosa attraverso la scomposizione stessa del tempo nelle forme della sua temporalità temporalizzabile che permette all’occhio umano di ricondursi alla radice atemporale del tempo, perciò della realtà. Il cinema è dunque, per dirla à la Platone, l’immagine mobile dell’eternità. La sua meccanicità, in quanto imprescindibilmente correlata alle forme dell’esistente, è pertanto veramente d’aiuto all’uomo, e non contro di lui. Il cinema dà vita alla concretizzazione delle fantasmatizzazioni che sono perennemente presenti nella vita mentale dei singoli individui, ne rappresenta le angosce, i sogni, le paure, i desideri. E, nel fare questo, può veramente operare quel processo di “catarsi” che il teatro già nella sua presa diretta, dal vivo, della rappresentazione si propone di attuare, benché sia poi ugualmente destinato a rimanere succube del limite invalicabile costituito dal muro della quarta dimensione, che soltanto il cinema, finora, è stato in grado di abbattere rivelando ciò che sta al di là del muro stesso della temporalità. Nella vita reale, capita molto spesso di soffrire di una sorta di momentaneo “blocco temporale” che ferma l’uomo mentre si accinge a compiere una determinata azione, perché l’esecuzione di quell’azione, di un particolare movimento, gli riporta alla mente, in una specie di flashback, un’azione similare che crede di aver già compiuto in passato, rivivendo una sorta di déjà vu che riproporrebbe la ripetizione di quell’atto stesso. Il blocco temporale compiuto dal cinema attraverso la potenza espressiva dei suoi singoli fotogrammi è un po’ della stessa natura. Un particolare, un dettaglio, una traccia sul viso, un’espressione più o meno corrucciata o sorridente, può instaurare nello spettatore un vero e proprio flusso di pensieri in sé strettamente concatenato che lo induce a ripercorrere in tempi e a velocità assai elevate nei casi più leggeri certe parti della sua vita, in casi più estremi intere porzioni della sua esistenza, se non nella sua interezza. Anche in campo letterario il fenomeno del blocco temporale dato dal flashback, ossia il fenomeno per cui un uomo è portato sull’istante a fermarsi per guardarsi indietro, è stato descritto (si pensi all’Ulisse di Joyce o alla Ricerca del tempo perduto di Proust). Ma se la letteratura, anche nelle sue forme più alte, è già “morta” nella sua essenza, poiché giacente sulla carta che lascia solo immaginare l’esistenza senza dare vita effettivamente alle visioni, il cinema, invece, si configura come reale arte in vita, non in absentia, che pedina costantemente la realtà rivelandola non più come ineffabile, ma come pienamente conquistabile con la conquista definitiva del suo tratto maggiormente saliente, ossia il movimento. Il cinema, ammettendo il blocco temporale, permette dunque di ritornare al passato a velocità quasi iperluminali. Il cinema diverrebbe dunque una sorta di dimostrazione in ambito artistico delle modalità di funzionamento di una macchina del tempo. Ma è necessario dire che la vita riprodotta dal cinema, e che permette tali modalità di schiusura della dinamica temporale dominante dell’esistente, non è però, in quanto tale, la vita stessa nella sua “realità”. Come disse Brian De Palma, la macchina da presa mente ventiquattro volte al secondo (ventiquattro fotogrammi per secondo). Ciò che è riprodotto nel cinema, pur riguardando e rappresentando specularmente l’esistenza, non è in sé l’esistenza stessa. Ne è un riflesso del tutto speculare e simile, che però non è da confondere con la vera realtà. Per questo è doveroso ricordare il carattere di meccanicità materiale del cinema, perché laddove si dovesse confondere la proiezione della vita con la vita stessa, allora si avrebbe un totale annullamento del valore del reale stesso che verrebbe ad essere assorbito concretamente dalle fantasmatizzazioni materializzate dal cinema, inducendo nella percezione umana un totale stato di alienazione mentale ed esistenziale. Questo produrrebbe la più grave delle schizofrenie, perché, se è pur vero che si crede solo a ciò che si vede, e il cinema stesso mette in discussione il carattere di empiria di tale affermazione con la sua produzione di immagini che si stagliano temporalmente nel passato e nel futuro indifferentemente, non è altrettanto giusto però sostenere la tesi per cui il cinema “sia la vita”. Il cinema non è la vita, il cinema “è per la vita”. Con la messa in scena di scenari reali e/o immaginari che rappresentano gli spaccati dell’esistente, il cinema non deve mai essere perso di vista nel suo carattere di rappresentatività, poiché, anche se permette di “viaggiare artisticamente nel tempo”, si tratta pur sempre di un viaggio illusorio che deve servire all’uomo, nella vita, per una ridefinizione concettuale, mentale ed immaginativa globale della sua vita, una vita che si vive nel presente anche se il cinema mostra come questo stesso presente poi sia fuggente e dileguantesi nel suo continuo destreggiarsi fra il divenire già passato e l’essere già futuro quasi nello stesso attimo (sicché il presente in sé e per sé potrebbe anche benissimo non esistere come tale). Se il cinema si identifica con la vita, allora ecco che il cinema diventa “contro la vita”. L’illusione della realtà che il cinema fornisce deve essere considerata “per la vita”, in senso positivo. Il cinema, non essendo la vita, non consente quindi di andare oltre il tempo mostrato nella sua strutturazione architettonica interna; al più, permette di andare mentalmente al di là del tempo, aprendo nuovi orizzonti di pensiero e possibilmente originando incipit di riflessioni scientifiche e filosofiche (si pensi al confronto Bergson-Deleuze in merito alla natura filosofica del cinema) verso la scoperta di concezioni sempre più rinnovate della realtà. Nel cinema non si “viaggia realmente” nel tempo, non è “ultratemporalità”; è “metatemporalità”. Il sussistere di limiti esistenziali determina fortemente il punto di distacco e simultaneamente di connessione fra il cinema e la vita. L’influenza su quell’incognita kantiana costitutiva della natura umana che è la sua psicologia non può essere effettuata concretamente dal cinema, riguarda sostanzialmente solo ed unicamente la vita. Il cinema può comunque sfiorare, con la potenza espressiva delle immagini che lo compongono, l’anima dell’uomo, sollecitandola ed infiammandola per e nella riproposizione visibile ed esibibile delle memorie e dei sentimenti più profondi che costituiscono il suo immaginario onirico, l’insieme delle cause e dei fattori che hanno determinato il suo stato di essere attuale, quindi la sua intera esistenza. Il cinema, pur non essendo direttamente “vita”, è espressione di questa, espressione infine dell’esistenza. La mente non può che andare alle visioni oniriche e ai viaggi nel passato, un passato assai lontano eppure mai mostrato come così vicino, compiuti e mostrati da Fellini in 8 ½, un film che riproduce l’interiorità come uomo e come artista del regista rappresentato sullo schermo dal suo alter ego Guido Anselmi (un magistrale Marcello Mastroianni) che, dubbioso sul tono e sull’impostazione da dare al suo prossimo film, alla fine scopre che di altro non si può e non si deve parlare se non del fluire dell’esistenza stessa, fatta di tutti quei personaggi e di tutte quelle fantasmatizzazioni mentali che soltanto il cinema, come arte tetradimensionale del movimento, può rappresentare permettendo al soggetto uomo-artista di dare corpo alle sue idee, avvicinandosi alla verità sulla sua esistenza e sull’esistere in generale. Importantissima a tal riguardo la scena del flashback avviata dall’incantesimo dell’amico-mago durante una cena di gala in cui il mago, “leggendo” nella mente di Guido, riproduce le parole Asa nisi masa il cui significato è ignoto, ma è ben chiaro nella mente del protagonista e viene reso esplicito con il “viaggio nel passato” di Guido che il cinema permette di compiere, andando dunque sempre più a fondo nella psicologia, quindi nell’anima dell’uomo. Nella realtà possibilmente Guido non aveva mai esplicitamente spiegato il significato di quelle parole (una formula apotropaica usata da bambini in senso magico per far muovere gli occhi dei ritratti, che è acronimo di “anima” ), ma il cinema, che con le immagini si addentra nella vita visibile ed esistente ed al di là di essa, si inscrive anche nel non-detto, rendendolo implicitamente come se fosse detto e quindi pienamente visibile. Un  po’ come avviene anche nel capolavoro di Orson Welles Quarto potere. Il segnale è No trespassing, nella realtà non è possibile andare al di là del cancello per sapere il passato di Kane, chi egli realmente sia, ma al cinema, con il suo raccordo di passato e presente futuro, è concesso scavalcare il cancello. E scavalcandolo, si ritrovano tante cose di un uomo come Kane: la sua infanzia, i suoi inizi, la sua brama, la sua aspirazione, le sue ossessioni, i suoi complessi, infine la sua caduta. E, in questo, anche il segreto della sua esistenza: Rosabella (lo slittino usato  da piccolo) che, come la formula Asa nisi masa felliniana, in Welles condensa il significato e il senso dell’intera esistenza di un uomo, rappresentata dal cinema attraverso il filtro della sua anima. Il cinema può rappresentare l’anima dell’essere umano. Nel cinema è disseminato il segreto dell’essere e dell’esistente, comunicato nel linguaggio delle immagini. Il cinema è il regno dell’immaginario che completa il reame dell’esistenza nel concepimento del significato della vita e del senso della realtà. È un atto d’amore dell’uomo nei confronti della vita, della macchina creata dall’uomo nei confronti dell’esistenza. L’uomo che scopre il Tempo, il Tempo che si disvela all’uomo.

Giovanni Mazzallo