La giungla esistenziale: lo specchio della strada

23/11/2015

Il viaggio è la nota caratterizzante di ogni forma di vita che si affaccia sulla terra e si apre al dispiegarsi di orizzonti mai visti prima che diventano il suo habitat naturale e il punto prospettico di fuga, d’inizio, della ricerca di altre nuove prospettive che non sostituiscano le precedenti, ma le inglobino in un panorama assai più vasto che fa da cornice essenziale dell’esistenza di un uomo che, attraverso il viaggio, compie la sua più primitiva operazione che lo guida sin da quando ha sgranato gli occhi per la prima volta di fronte al reame della natura: la natura del suo esserci, il segreto della sua venuta al mondo, il perché della sua stessa esistenza. Domande come queste assillano la mente degli uomini da tempi immemori, e nessuna risposta degna di essere eretta a valida verità inossidabile è mai stata trovata fino a questo punto a tale imponente interrogativo. Diverse filosofie hanno cercato di rispondere in maniera più o meno completa alla domanda sul senso ultimo della vita, le scienze, contando solo su ciò che è concreto e direttamente afferrabile, hanno tentato invano di carpire l’essenza definitiva del mistero del reale partendo da constatazioni oggettive di tipo empirico, ma pare che vi sia un sottostrato ben più profondo alle dinamiche della vita che non si lascia comprendere fino in fondo e che diventa fondamentalmente ineffabile nel tempo sincronico del presente estremamente mobile che l’uomo si trova a vivere. Sembra che il tempo vissuto hic et nunc sia soltanto una parte infinitesimale del percorso generale del fluire dell’esistenza, che può essere capito solo da una posizione di più largo spettro capace di innalzarsi ben al di là dello stato di “gettatezza” istantanea in cui l’uomo si viene a trovare per vedere da una diversa angolazione di carattere più universale sentieri e strade che non erano mai stati visionati precedentemente. Strade, per l’appunto, che costituiscono il biforcarsi del lungo, periglioso e quanto mai straordinario tragitto della vita, che, nel suo articolarsi strutturalmente imprevedibile in cui le possibilità infinite del vissuto si intrecciano in combinazioni che sorprendono puntualmente l’uomo (l’essere precede sempre l’esistere), rivela non soltanto la miracolosità della sua concepibilità come evento originario del venire ad essere dell’universo, della realtà, della natura, ma anche dell’eterno sforzo perpetuo che ogni attimo fa sì che tutto ciò che esiste esista e tutto ciò che accade sia necessario che accada. Nell’esplicarsi del fenomeno primordiale della vita, è già possibile intravedere la mano del “destino” che sorregge tutto senza aver bisogno di chiamare in causa un futuro da presagire (e in cui vedere gli effetti stessi del carattere di fatalità dell’esistenza), poiché il futuro è già passato ed è continuamente presente, quindi in costante opera di completamento dei tratti interi della realtà vissuta ad ogni istante. In questo senso, il tempo puntiforme che si vive attualmente non può comprendere l’intero procedimento dell’esistere, perché deve tener conto di ciò che il tempo è già stato in termini di sfondo irriducibile della manifestazione della vita, ossia ciò in cui si è già svolta una parte trascorsa dell’esistenza e che, nel caso di una vita più o meno avanzata, diviene il vero depositario del perché di una data esistenza e del suo esserci continuo. È per questo che il viaggio è attributo necessario di ogni uomo, perché l’uomo non fa altro che viaggiare continuamente da un punto all’altro dello spazio e del tempo. L’uomo viaggia costantemente nel tempo per il divenire temporale in cui è naturalmente immesso e che lo porta a proiettarsi ineluttabilmente in direzione del futuro, senza però accorgersi effettivamente dell’illusorietà di questo suo protrarsi in avanti dato che il tempo non sussiste su basi materiali oggettive analizzabili, non si tratta di un’entità di cui si possono definire le proprietà né tantomeno di alcunché di sperimentabile che sia manipolabile come gli oggetti e gli enti materiali della realtà empirica, non si possono distinguere tradizionalmente passato, presente e futuro, ma tutto ciò che del tempo si può affermare è che, in ogni caso, esso è presente nel mutare delle cose ed è proprio tale mutare, a sua volta, a conferire all’uomo la capacità di discriminare ciò che è avvenuto in un dato attimo del presente da ciò che sta avvenendo nell’attimo del presente che si sta vivendo, per la sua capacità di memorizzazione dei “futuri-presenti” passati che però, al contempo, lo illude allo stesso tempo circa la sua effettiva comprensione della natura della temporalità. Le illusioni e le disillusioni hanno la stessa radice etimologica in facoltà immaginative di rappresentazione del mondo sensibile da parte dell’essere umano sulla base delle sue preconvinzioni e delle sue idee, e, pertanto, attestandosi nello statuto dominante dell’impero della visione che regna supremo su ogni capacità di comprensione e relazione di ogni essere con la realtà circostante, non può che essere una componente imprescindibile della visione proiettivo-astrattiva offerta dal cinema, che non solo proietta sullo schermo i desideri, i sogni e le paure degli uomini che tendono verso il futuro (senza cognizione del fatto che il futuro che dovrà venire è soltanto un presente che deve ancora verificarsi e viceversa, cosa che preclude loro gran parte della possibilità di rispondere una volta per tutte ai loro interrogativi sull’esistenza), ma anche, per via della sua natura di artefatto che duplica la vita senza però clonarla, ma limitandosi a riprodurla, svela diegeticamente ed extra-diegeticamente il progressivo disilludersi delle illusioni umane riguardo a ciò che una volta si credeva di aver pienamente appreso su se stessi, sugli altri e sul mondo, sia mostrando concretamente, nelle scene delle pellicole, gli atti e le situazioni capitali che pongono fine alle false  immaginazioni prodotte dalla natura umana succube dell’attimo fuggente di cui non riesce inizialmente a cogliere la portata, sia per via della sua stessa predisposizione ad essere un riflesso duplice del vissuto che però non riflette l’immagine vera della vita reale, perché il cinema, che pur registra il reale, al contempo se ne distacca per quanto concerne il suo reale scorrere temporale, che riesce sempre a riprodurre solo grazie alla sua scomposizione in fotogrammi che, se da un lato rivelano il carattere illusorio della classica concezione di tempo da rivedere alla luce della reale dinamica di espletamento della temporalità del tempo della realtà, dall’altro, però, materializzano la differenza che intercorre fra la vita e il cinema, per cui la prima possiede un’ontologia sostanzialmente inattaccabile che non può essere emulata o superata da qualunque altro fenomeno naturale o artificiale (d’altronde, tutti i fenomeni naturali sono un’esplicita manifestazione della natura che ha vita, quindi della vita, mentre ogni fenomeno artificiale, per il fatto di essere creato con mezzi supplementari, richiede l’intervento di un essere che predispone tali strumenti e che, in quanto essere, non può che dipendere dalla vita in quanto inserito nel novero dei fenomeni naturali come tutto il resto dell’universo e gli stessi mezzi supplementari provengono dalla materia concretizzante la potenza infinita dell’esistente).

La vita permea ogni cosa. Il cinema, pur non potendo catturarla e conquistarla definitivamente, può però sempre offrire un’immagine di come essa realmente si svolge, un’immagine naturalmente obliqua che non riflette specularmente e proporzionalmente la matrice irriproducibile della vita che può essere riprodotta solo per quanto riguarda la sua registrazione a livello di singoli fotogrammi che si sovrappongono fra loro al momento della proiezione (come la letteratura che descrive lo stato del mondo senza però rappresentarlo ontologicamente); però, a differenza della letteratura, in quanto offrente pur sempre un tipo ben specifico di immagine che, pur non essendo la vita, è immagine sulla vita, ammette una forma particolare di ontologia dell’esistenza data dalla visualizzazione che concede all’uomo, per mezzo delle immagini perpetuantisi infinitamente dei singoli istanti presenziali comprendenti già passato e futuro degli spaccati di vita ritratti nei fotogrammi, di potersi servire del cinema stesso come strumento privilegiato per la comprensione di ciò che realmente sta dietro all’esserci intero della realtà al momento della sua visione. Il cinema, sovrapponendo col tramite del montaggio immagini temporalmente scardinate che, però, ridisegnano la realtà in modo più coerente di quanto non fosse nella sua linearità evolutiva, può tornare utile all’uomo per accorgersi della vera indole del manifestarsi temporale dell’esistenza che include tutti gli attimi di vita vissuti in modo diacronico, laddove l’uomo, invece, non può pretendere di porsi in una prospettiva di tipo essenzialmente sincronico perché il sincronico, in quanto tale, discende chiaramente dalla diacronicità della fenomenologia del reale intero, quindi del tempo nella sua concezione globale che comprende la successione verso il futuro, ma in modo diverso dall’uomo, poiché rivela il futuro come attuato-attuantesi in ogni momento e solo in questa dialettica di esplicazione temporale della realtà il “da attuarsi” assume effettivamente un senso. Senso che può essere ricercato, pertanto, per quanto riguarda la struttura ultima dell’esistenza  che l’uomo non può che naturalmente ricercare attraverso il viaggio da compiere entro l’orizzonte mai pienamente dominabile e trattenibile della vita vissuta che si mostra ancora da vivere e da ricercare, perché eternamente nascosta e riapparente, riapparente e nascosta. Il cinema è sincronico nella singolarità di ogni fotogramma, ma la sua sincronicità rivela un’intrinseca diacronicità poiché il fotogramma è fermo, è un eterno presente, che scompone infinitesimamente il tempo vissuto nella realtà abolendo la normale concezione passato-presente-futuro, perché il vero tempo reale è dato dalla successione evolutiva del presente che si ripete continuativamente, come mostrato chiaramente nella proiezione susseguente dei fotogrammi che, singolarmente, eternizzano il presente, nel loro susseguirsi collettivo, invece, offrono l’illusione del movimento che rivela la natura del tempo (della vita) a livello meccanico stazionario (fotogrammatico per l’appunto) ; l’uomo è sincronico, ma la sua sincronicità non lascia trasparire traccia alcuna di diacronicità a causa delle estreme conseguenze cognitive indotte in lui dalla memoria del “passato” e dall’aspettativa del “futuro”, per cui crede che il presente vissuto sia esteso e non puntiforme; la vita è diacronica, appare sincronica agli esseri, ma attraverso il cinema può rivelare la sua interna diacronicità nascosta sotto il velo di Maya dell’immagine apparente sincrona il cui messaggio letterale, pertanto, non fa altro che mentire continuamente in quanto ricopre il vero messaggio allegorico che si cela sotto di esso, ossia la temporalità dell’esistenza mascherata dal tempo illusoriamente oggettivo che rivela la sua illusorietà attraverso l’immagine sensibile che riesce a carpire in superficie soltanto il lato esteriore ricoprente del tempo per mezzo dei sensi, che sono dunque ingannati, mentre un’immagine veramente reale della temporalità non-illusoria del tempo si può ottenere accompagnando la visione dei sensi, dell’occhio che percepisce passivamente la realtà che vede di fronte a sé, con la visione della mente, dell’anima che elabora attivamente la realtà che ha di fronte a sé in un’unione inscindibile di mente e corpo, cuore e anima, tempo e temporalità, vero ed illusorio che finalmente, attraverso il cinema, congiunge il reale all’immaginario all’interno del dominio dello statuto dell’immagine, della visione che contempera l’illusione data dai sensi dell’immagine e la sua disillusione data dal pensiero. Solo così si può comprendere in che modo il tempo “esista”, solo così l’uomo, che prima del cinema ha potuto confrontarsi con tali dilemmi sull’esistenza solo in modo speculativo senza mai proiettare davanti a sé l’immagine completa di tale speculazione solitaria ed autistica, con il cinema può finalmente avere a che fare con un’immagine diretta dei suoi pensieri che lo aiuta a rendersi conto dell’illusione del suo modo di concepire la realtà e a servirsi maggiormente della sua capacità di autoriflessione, liberandosi finalmente dall’immagine sensibile di cui è succube per l’espletazione delle sue facoltà cognitive e per la stessa ideazione delle sue fantasie (l’uomo conosce solo perché vede, e poiché vede cose che poi passano viene poi ingannato in merito al tempo dalla memoria, che lo illude del fatto che ci possa essere un “passato”) per approdare, da questa, all’immagine completamente ontologica della mente che delinea i fondamenti del reale. Nel viaggio, che fa da sfondo a tutto ciò che avviene e può avvenire nel palcoscenico dell’universo, questo diviene possibile. Viaggiando, l’uomo, come enunciato anche da Hesse, scopre di poter aprire un sentiero, una breccia dentro di sé che lo mette in comunicazione con la totalità della natura da cui si trova circondato. Totalità della natura non soltanto nei termini di vegetazione, alberi, foreste, paesaggi collinari scoscesi o montuosi, ma anche, più profondamente, nei termini di totalità della natura delle cose; il che include il manifestarsi sia materiale che immateriale dei fenomeni della vita, come, ad esempio, le diverse situazioni esistenziali che coinvolgono inevitabilmente l’essere umano che è nato per stare in circostanze di questo tipo che denotano ancor di più il suo essere inserito in una dinamica esistenziale data solo a-posteriori il cui a-priori, il cui senso per l’appunto, resta ignoto perché in apparenza non espresso nelle cose che lo circondano, per cui egli si mette, più o meno consapevolmente, alla ricerca di ciò che gli serve, di ciò di cui ha bisogno, di ciò che gli è necessario per riempire il suo vuoto ontologico esistenziale interiore, che non riguarda solo l’aspetto conoscitivo della realtà, ma, il più delle volte, anche, per non dire esclusivamente, la sfera dell’emotività dell’uomo stesso. Nelle cose circostanti, l’uomo sa internamente di non poter trovare la risposta conclusiva ai suoi problemi, perché c’è tanto da vedere, c’è tanto da esplorare, c’è tanto da esperire senza doversi limitare alle solite situazioni che non cambiano mai e gli impediscono di sperimentare altro. Per questo l’uomo viaggia e sente il bisogno di viaggiare. Perché sente il peso della sua incompletezza dovuta alla sua sincronicità e avverte una forte tensione, quasi romanticista, a ciò che si inarca oltre il dato sincronico, quel diacronico che nelle sue più ardite immaginazioni si prefigura quasi alle soglie dell’infinito, di una totale mistica ascesi del proprio essere.

Basti pensare a 2001-Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, che è riuscito ad inquadrare il primo ed unico viaggio che sia mai stato compiuto dal genere umano in tutta la sua storia nel trapasso dalla dimensione intrastorica della terra, del suo corollario di manifestazioni dei diversi raggi costituenti il prisma del mistero dell’umanità, alla dimensione unica extrastorica metafisica dell’infinito che infine riaccoglie l’uomo dopo che egli è tornato dal suo lungo viaggio sulla terra, in un lungo ed estenuante viaggio di ritorno che è sembrato veramente durare un’eternità, nel grembo del cosmo, dove per molti, come per Kubrick, l’Essere ha la sua sede. I paesaggi astrali di 2001 sono un lungo preludio all’addio alla Terra, non a caso sono stati tratteggiati alla stregua di un’allucinazione policromatica che investe di botto l’occhio del viaggiatore che non può più tirarsi indietro dal percorso intrapreso perché è la Natura stessa che lo richiama a sé. E il richiamo della foresta, che non può che riportare alla mente Jack London, è il richiamo dell’essere che chiama a sé gli enti che ineluttabilmente si dirigono verso di esso. Kubrick metaforizza a suo modo l’Odissea omerica, che si può definire il capostipite della letteratura odeporica, che non è mai tramontata del tutto e che continua tutt’oggi ad affascinare irresistibilmente per le forti suggestioni che è in grado di fornire. Perché il viaggio, si è visto, non è solo un viaggio compiuto all’esterno, ma è, in virtù del suo carattere prettamente intenzionale, un viaggio necessariamente compiuto all’esterno per ritrovare se stessi al propri interno, quindi, in ultima analisi, una ricerca esterna del proprio Io che, per il fatto di sentirsi distaccato dalla realtà che lo circonda, avverte l’esigenza di ritrovare l’idea fondamentale del suo collegamento con la realtà, del senso cioè di questo collegamento, quindi della sua stessa vita. Non a caso, molte volte, quando ci si è appena svegliati da un sogno che ha particolarmente assorbito la propria attività mentale, sono necessari alcuni secondi prima di realizzare effettivamente dove ci si trovi e perché si stia lì.  Ci si domanda, per qualche brevissimo istante, che senso abbia tutto quanto, per poi dileguare assai rapidamente tale pensiero che resta come residuo metafisico dell’attività ontologica del pensiero umano che ritorna ad essere legato alla sensibilità del vissuto quotidiano. Il cinema, per il fatto di proiettare la vita riprodotta a livello registrativo-fotogrammatico con un fascio di luce che, come analizzato dalla fisica quantistica, ha natura sia corpuscolare (materiale) che ondulatoria (immateriale), si innesta proprio in quei brevissimi attimi di pura meditazione sul tutto, che danno un’impressione simulativa dell’unità soggiacente ad ogni cosa che il cinema, come vera e propria filosofia in movimento, riesce a riflettere quanto più possibile a partire dalla sua considerazione della vita impressa su pellicola, mostrando la complementarietà di realtà ed immaginazione caratterizzante i tratti generali del reale. Il materiale non può essere concepito senza l’immateriale, la conoscenza sensibile, senza la radice metafisica del legame fra la mente e il mondo, fra la visione dei sensi e la visione dell’anima, diviene destituita di senso e significato. L’uomo deve viaggiare, deve ricercare. Perché ne ha bisogno, perché tale bisogno è radicato in lui, perché lo richiede l’essere dell’esistenza. E nel viaggio si scoprono tante piccole verità che prima non si credeva neanche potessero esserci. Si può scoprire, come ne L’estate di Kikujiro di Takeshi Kitano, che la propria guida, colui che dovrebbe prendersi cura di noi e che si ostina a comportarsi in maniera burbera e il più delle volte cieca ai propri bisogni e alla propria sensibilità, riveli infine un candore d’animo che prima non sapeva neanche di possedere e che soltanto nell’immedesimazione definitiva dell’uomo con il viaggio, con la ricerca di se stessi nel mondo con cui si tenta inconsciamente di ritrovare il legame creduto perduto per reperire il senso della propria esistenza, può infine pienamente raggiungersi. Un’immedesimazione che, per certi versi, Dante stesso chiedeva al suo lettore quando stava per incamminarsi nel mezzo del cammino della sua vita in quella selva oscura dopo che aveva smarrito la diritta via. Perché tale immedesimazione non riguarda soltanto la sfera emotiva, ma, partendo per l’appunto da quest’ultima, non può che arrivare a coinvolgere lo spettatore (colui che guarda con gli occhi, infatti) nella sua interezza, fino ad indurlo progressivamente a guardare il viaggio, la ricerca e i suoi esiti, non più solo con gli occhi del corpo, ma anche con gli occhi del cuore, della mente, dell’anima, per la qual cosa è necessario un “salto di fede” che riponga totale fiducia nell’essere manifestantesi nelle sue molteplici forme nella realtà che si disvela passo dopo passo all’uomo nelle vesti di ricerca, di modo che, paradossalmente, l’oggetto ricercato (il senso dell’esistenza) è sempre presente alla ricerca che si sta compiendo e l’uomo sarà in grado di afferrarlo solo quando avrà ritrovato e ricompreso se stesso. Perché il ritrovamento del senso dell’esistenza è vincolato al reperimento della propria interiorità, e non è detto che forse l’esistenza non abbia altro senso che non sia quello di ricercare continuamente se stessi, il proprio legame con il mondo, in una comprensione del completamento mai finito ed infinito della realtà che forse, in definitiva, resterà sempre inconoscibile nei suoi fondamenti ultimi all’uomo in vita, ma che comunque, per la potenza del suo richiamo alla ricerca, lascia presagire che ci possa essere una fonte unica ed intrascendibile da cui tale richiamo proviene e che guida gli uomini alla ricerca di se stessi, del senso dell’esistenza, e dell’essere.

A quel punto la domanda non sarebbe più “Qual è il senso di tutto?”, ma “Perché?”. A quest’ultimo interrogativo, la domanda per antonomasia, l’aporia di tutte le aporie, molto probabilmente l’uomo non potrà mai rispondere, ma è possibile che, essendo a lui connaturato il viaggio, un giorno si accosterà più ravvicinatamente al cuore di tale problema. Purché, prima, ritrovi se stesso. Nel senso di ritrovare se stessi, la “strada”, lo spazio, la via da percorrere per effettuare la ricerca, diventa lo specchio dell’anima dell’uomo. Non è tanto l’uomo ad essere influenzato dall’ambiente, ma è piuttosto il luogo, in questo caso, a costituire lo scenario di rappresentazione, trasformazione e trasfigurazione dell’umano. Nella strada, per cui si viaggia nello spazio, nel tempo, in se stessi, si hanno le rivelazioni dei segreti dell’esistere, rivelazioni tragicamente segnate dal passato delle azioni ormai irrimediabili che imprigionano fatalmente l’uomo alle catene dei suoi sbagli. La vita non perdona l’ignoranza avuta in passato di se stessi, perché anche quel passato è stato a suo tempo un presente e il presente, che puntiformemente si ripercuote nel suo divenire di successione ad ogni istante nel futuro che si presenti fica continuamente divenendo già passato e così all’infinito, è la chiave temporale di svolta dell’essere. Il tempo imprigiona l’esistenza dell’essere. La strada di Federico Fellini è un fulgido paradigma dello scacco finale che la vita, alla fine, riserva ad un uomo che non si è mai dato cura dei bisogni e delle carenze del prossimo e che non ha mai cercato altro nella sua vita che imporre il suo volere quasi a tentare di distruggere gli ultimi cocci rimasti di una vita possibilmente segnata da atroci sofferenze a cui cerca di rispondere con altrettanta forza e violenta irruenza, da infliggere agli altri per la paura di dover ritornare sui propri passi, ammettere le proprie colpe ed affrontare i propri demoni interiori, i propri fantasmi più tetri e avvilenti. Per questo, quando si inizia a viaggiare solo troppo tardi, ciò che resta all’uomo non è altro che un mare di lacrime inconsolabili che non cancellerà mai gli errori compiuti e che lo lascerà nella più nera disperazione. Il legame col mondo va ricostruito, l’alienazione porta solo al male degli altri e all’autodistruzione. Taxi driver di Martin Scorsese mette in scena il tentativo di un uomo, reduce traumatizzato del Vietnam, di ritornare nel mondo, la sua immensa solitudine gli fa sentire gli effetti deleteri di un’alienazione dagli altri e da se stesso per cui cerca di fare qualcosa pur di salvarsi. Dapprima tenta con l’amore, in seguito, dopo la delusione amorosa, con la mancata uccisione di un uomo in cui identifica l’origine del suo male interiore, infine, per redimere positivamente se stesso contro la “feccia” vista ogni giorno a bordo del suo taxi, con l’omicidio di un ignobile sfruttatore di una ragazzina, che, grazie a lui, torna a casa dai suoi genitori a vivere normalmente la sua vita di adolescente. Ma il viaggio da lui compiuto, in questo caso, è solo una mera illusione. È un viaggio confinato ai bordi di un’auto che girovaga all’interno dello stesso squallido ambiente, è una conversione della propria anima che non è mai propriamente avvenuta. Il viaggio è la ricerca della trasformazione catartica del proprio essere. Il vagabondo di Charlie Chaplin, che percorre le strade di tutto il mondo entrando in empatia con esso, è il “monello” che gioca con le sorti dell’anima umana. Il cinema è il modello esemplificativo del viaggio universale che l’uomo ha da compiere nella vita.

Giovanni Mazzallo