
Se fate il suo nome allo spettatore medio, questi vi guarderà sbalordito, non avendolo mai sentito nominare. Se vi rivolgete a un esperto, scuoterà la testa dubbioso. Effettivamente può essere difficile difendere il regista di un film come "L'isola perduta". Eppure Frankenheimer ha al suo attivo almeno quattro film notevoli - Va' e uccidi, Operazione diabolica, L'uomo di Alcatraz, Ronin- e possiamo ricordare come opere interessanti e ben dirette anche Sette giorni a maggio, Il treno, L'uomo di Kiev, I temerari, Un uomo senza scampo, 52 gioca o muori. Bravissimo nel dirigere gli attori (quello da lui più "gettonato" è Burt Lancaster), Frankenheimer è maestro nelle scene di azione, sia che si tratti delle corse in automobile di "Grand Prix", sia che si tratti di suspense psicologica un po' allucinata. Il suo innegabile punto debole è di non essere mai riuscito ad assurgere all'autorialità, per cui si è spesso ritrovato a dover salvare col mestiere copioni indecenti e per oltre un ventennio non ha potuto che dirigere pellicole poco più ( e a volte poco meno...) che alimentari. Insomma, il classico regista "da rivalutare", autore di serie B che ha saputo lasciare un'impronta nel genere di azione e fantapolitica e che è riuscito a guadagnarsi anche un paio di Oscar tecnici.
Vediamo più da vicino le sue opere principali, quasi tutte degli anni '60.
Il '62, per la precisione, è l'anno di grazia. In quell'anno viene chiamato da Burt Lancaster, attore e produttore (col quale l'anno prima aveva lavorato in “Il giardino della violenza”), a sostituire l'inglese Charles Chricton alla regia de “L'uomo di Alcatraz” (Birdman of Alcatraz). Frankenheimer dapprima è riluttante: teme che a dirigere, alla fine dei conti, sia Lancaster e teme pure, giustamente, la sceneggiatura didascalica e agiografica scritta da Guy Trosper dal libro biografico di Thomas E. Gaddis sul celebre “birdman” Robert Stroud, la cui vicenda aveva in quegli anni appassionato l'America. Condannato all'ergastolo per l'uccisione di due uomini, la richiesta di libertà sulla parola rifiutata ben 24 volte, Stroud stava scontando il suo 43esimo anno di carcere quando viene realizzato il film: a commuovere l'opinione pubblica, la sua passione per passeri e canarini, che lo aveva portato a divenire un esperto di malattie dei volatili e ad inventare dei medicinali molto utili per le bestiole. Sebbene appesantito da un'oratoria moraleggiante che nell'ultima parte diviene insopportabile, il film si distingue ancora, oltre che per l'interpretazione strepitosa di Lancaster, proprio per l'ottima regia, massiccia e al contempo poetica, calustrofobica, con rimandi al cinema noir ed espressionistico. Il taglio delle inquadrature è essenziale e sottilmente visionario, la monotonia delle situazioni diventa oppressione, gli aspetti più intimi del personaggio – che la sceneggiatura occulta o semplifica – sono suggeriti dal lavoro di cesello di regista e interprete, e la parte col passero è emozionante e tenera quel tanto che basta per un film comunque maschio. La vocazione di , infatti, è quella di un cinema virile ma non quadrato, che sa scendere nell'inconscio dei propri personaggi utilizzando anche tecniche di ripresa sghembe e barocche.
È ciò che fa supremamente in “Va' e uccidi” (The Manchurian Candidate), che all'epoca, contrariamente all'acclamato “Uomo di Alcatraz”, fu un fiasco solenne, ed è oggi invece il suo miglior successo di critica e pubblico, grazie alla riscoperta negli anni '80 e alla recente realizzazione di un remake, dignitoso ma che non aggiunge niente di nuovo all'originale, ad opera di Jonathan Demme. Con questa pellicola Frankenheimer si accosta a uno dei suoi generi preferiti, la fantapolitica. Il film infatti racconta gli incubi di alcuni reduci dalla guerra di Corea. Questi scoprono di essere accomunati dallo stesso sogno e dalla perdita di memoria. Si verrà a sapere che hanno subito il lavaggio del cervello e che uno di essi (Laurence Harvey, nella sua interpretazione più celebre) è “telecomandato” da una sequenza di carte da gioco per commettere un delitto: l'attentato al presidente degli Stati Uniti.
A parte la tragica coincidenza storica – il film ha infatti predetto l'uccisione di Kennedy, avvenuta da lì a poco – a rendere interessante “Va' e uccidi”, più che la trama, comunque notevole (tratta dal romanzo omonimo di Richard Condon), è proprio la regia, che sposa Orson Welles ad Alfred Hitchcock, la suspense all'umorismo grottesco e graffiante, ricca di invenzioni visionarie e di una costruzione a incastro allucinata e postmoderna (nel 62!): memorabili le sequenze dei sogni, col loro compenetrarsi con la realtà, una sorta di teatro surrealista che gira in chiave thriller il mondo onirico alla René Clair.
Stile e atmosfere tra fantascienza e psicanalisi che ritornano nel '66 nel suo film migliore, “Operazione diabolica”(Seconds). Da un romanzo di David Ely, stavolta ben sceneggiato ( da Lewis John Carlino), e interpretato da un Rock Hudson particolarmente “in parte”, il film aggiorna il mito di Faust con la vicenda di un uomo che si accosta ad un'organizzazione segreta che promette, dopo una morte apparente, una nuova esistenza, con volto ed identità mutate, per dare una seconda chance a chi è insoddisfatto della propria vita. L'intervento sembra andare per il meglio, ma i nodi verranno al pettine. Il finale, geniale, è da cardiopalma, ed è alquanto curioso che la pellicola avesse potuto ottenere consensi critici fin da subito dal momento che solo recentemente “Operazione diabolica” è stato proposto al pubblico italiano (televisivo) nella sua versione integrale: negli anni '60 censura e distribuzione erano calati sul film a colpi di forbice, non solo privandolo delle scene più sessualmente esplicite, ma anche di quelle più allucinanti o pessimiste, compresa proprio la splendida conclusione.
Purtroppo, come detto all'inizio, al regista mancano altre grandi occasioni per mettersi in mostra. “Sette giorni a maggio”è precedente (del '64), “L'uomo di Kiev”venne malridotto dalla produzione, che gli amputò una ventina di minuti, e di “Un uomo senza scampo” oggi è praticamente rimasta solo la bellissima colonna sonora di Johnny Cash. A parte “Black Sunday”, che ha una parte di suspense finale che lascia ancora oggi incollati allo schermo, tutta la produzione degli anni '70 è cestinabile, e gli anni '80 sono anche peggio. E poi è arrivato “Ronin”.
Nel 1998 il quasi settantenne regista risorge dalle proprie ceneri per realizzare un action thriller mozzafiato grazie al quale anche le opere precedenti verranno rispolverate. La trama è tanto intricata nei colpi di scena e voltafaccia dei protagonisti quanto semplice nel suo assunto: cinque mercenari alla deriva dopo la guerra fredda ( i samurai senza padrone del suggestivo titolo ) vengono assunti da una ragazza irlandese per impadronirsi di una misteriosa valigetta contesa da più parti. Uno spunto per scatenare una serie di inseguimenti ( Frankenheimer, lo abbiamo detto, è bravissimo nelle riprese automobilistiche, anche se qui si fa prendere troppo la mano: 20 minuti di corse sono un po' troppo...) e mettere in mostra tutto il suo virtuosismo tecnico troppo a lungo represso: “la dinamica tattica, la balistica pirotecnica degli scontri a fuoco, l'efficace organizzazione dello spazio nelle sequenze di massa”, per citare il Morandini. A ciò si aggiunge anche un senso di desolazione umana, messa in evidenza da una fotografia livida sui toni del blu, coi vari misteri che legano e contrappongono i vari personaggi, per i quali utilizza attori di prestigio che riesce a utilizzare al meglio: Robert de Niro, Jean Reno, Jonathan Pryce, Natascha McElhone, Stellan Skarsgard.
“Ronin” è un po' il canto del cigno e il testamento spirituale dell'anziano “metteur en scene” (la dicitura francese è alquanto appropriata, non essendo lui, mai, un autore, ma solo un esecutore), che con tenacia e umiltà ha saputo guadagnarsi le stellette di “maestro”, perché gran parte del cinema d'azione non può prescindere dai suoi insegnamenti di regia.