Lo stile di Steno

29/03/2017

Prima di soffermarci sullo stile di Steno è giusto premettere che, come tutti i registi che in vari film hanno lavorato alla stregua di artigiani/mestieranti, l’autorialità (ammesso che avere uno stile coincida con l’essere un autore) in certi casi è qualcosa di molto labile e sconfina (o il contrario) per l’appunto nel mestiere. L’utilizzo continuo di certe situazioni e ambienti può essere dunque ascrivibile al bagaglio professionale del regista più che a una vera e propria necessità artistica. Gli esempi in Steno potrebbero essere tanti. Dalle varie scene che si svolgono in un commissariato, ad esempio, alla ripetizione di certe gag più o meno verbali o di circostanze narrative, o ancora l’uso degli stessi attori in ruoli simili. Non è detto, comunque, che affidarsi al mestiere sia sintomo di debolezza espressiva e in ogni caso va considerato che Steno ha fatto ricorso in maniera molto moderna e spregiudicata e ironica ai rimandi, alle citazioni e alle auto-citazioni. Accantonata dunque la necessità di stabilire se Steno sia stato un autore, sarà di sicuro più interessante enucleare un’eventuale struttura tipo del suo cinema, vale a dire quello che vorremmo definire film “ideale”. Ovviamente il pensiero corre subito ai titoli che sono evidenti prototipi, e cioè Totò a colori e Un americano a Roma. Da essi infatti deriva la struttura portante di quasi tutti gli altri. Struttura che non è quasi mai lineare, anzi spesso è frammentata in episodi o sketch, persino quando vi è un unico protagonista. È il caso di Totò cerca casa, dei due citati, di Totò e le donne, Susanna tutta panna, Femmine tre volte, Arriva Dorellik, fino a Sballato, gasato, completamente fuso e Animali metropolitani.
Se consideriamo ad esempio Al diavolo la celebrità, Totò a colori, Totò nella Luna e Un mostro e mezzo, vedremo che hanno al centro della narrazione un viaggio o spostamento, e che in tutti è uno spostamento d’identità e un (continuo) spostamento fisico. Totò e le donne e Le avventure di Giacomo Casanova, invece, sono accomunati non solo dal tema sostanziale (il protagonista e le donne) ma da una struttura pressoché identica. Il racconto in prima persona, i vari episodi, il matrimonio conclusivo e, a ben guardare, anche il finale: il cavalier Scaparro e Casanova non riescono a mettere in atto il loro proposito (separarsi dalla moglie assillante uno, rinunciare alle avventure galanti l’altro). Stessa similitudine intercorre tra Susanna tutta panna e Sballato, gasato, completamente fuso, che sembra anzi il rifacimento venticinque anni dopo del film interpretato da Marisa Allasio. Anche se la suddivisione del primo è diversa da quella del secondo. Susanna tutta panna è articolato in veri e propri piccoli episodi che si sviluppano autonomamente e in cui Susanna entra in scena solo in un secondo momento, includendoli nella vicenda principale, mentre nel secondo la presenza di Patrizia è continua, e quasi sempre introduce le varie situazioni (tranne nella scena del sogno erotico di Duccio). La tendenza steniana a svolgere la narrazione coinvolgendo più personaggi è esemplificata dall’utilizzo, in vari film e sequenze, del coro. In molti casi si ha una corona di personaggi che sta intorno ai protagonisti, e in alcuni si tratta proprio di una precisa composizione della scena in cui si svolge l’azione e/o dell’inquadratura. Gli esempi li troviamo sin dai primi film. In Al diavolo la celebrità vi sono la scena di Stork che presenta il congresso ai giornalisti e poi il congresso con i rappresentanti dei vari paesi. In Totò cerca casa quando l’inquilino abusivo Totò interviene nel discorso tra il bidello e gli altri inquilini, Steno equilibra l’inquadratura riempiendola di personaggi e studia tutto il suo cinema futuro. Se l’avanspettacolo di Vita da cani è già di per sé un coro, in Totò e i re di Roma il regista mette in scena un pover’uomo alle prese con la burocrazia, ambientando il tutto in una città, Roma, che farà da sfondo ideale a molte vicende. A cominciare, ovviamente, da Un americano a Roma, in cui praticamente l’intera storia di Mericoni è raccontata a più voci e sotto lo sguardo della popolazione e, in ogni inquadratura, Nando è in relazione con comparse e figuranti (quando va al cinema a vedere un western o quando si esibisce come ballerino, quando nudo finisce per rovinare con la sua presenza una diretta televisiva e ovviamente quando minaccia di gettarsi dal Colosseo). In Totò a colori il microcosmo è la cittadina di Caianiello, e Scannagatti che esce di casa e viene subito circondato e preso in giro da un gruppo di bambini è una delle immagini-simbolo del cinema di Steno (in parte ripresa nell’attraversamento di Madrid di Scorcelletti e del suo allievo Tobia con il codazzo di gente in Totò, Eva e il pennello proibito), come d’altra parte il coro delle vecchiette diretto da Rodolfo Vanzino in Piccola posta (di cui il coro dei moralizzatori in I gemelli del Texas è un rifacimento con qualche variazione). Il coro/microcosmo/mondo che circondano ed entro cui si muovono i protagonisti è, sia ben chiaro, uno delle caratteristiche-cardine del cinema e della commedia e, dunque, anche della commedia all’italiana che, come scrive Gianni Canova nel saggio «Dalla commedia italiana alla commedia all’italiana», “rende pubblico il privato”. Ma in Steno diventa davvero parte integrante del suo modo di costruire le sceneggiature. L'abilità nel creare storie e dialoghi nasce anche da questo interagire dialettico tra le figure principali, le secondarie e l’ambiente. E spesso figure secondarie e ambiente diventano tutt’uno, assumono il ruolo di cartina al tornasole per evidenziare le sfaccettature dei protagonisti. È il caso di La patata bollente, con l’ambiente della fabbrica, gli operai colleghi di Gandhi, la festa dell’Unità e i custodi del condominio; Quando la coppia scoppia, che inizia con un coro di telefonate e un party nel quale il protagonista Enrico viene a sapere che la moglie lo vuole lasciare, prosegue con una seduta di autoanalisi e ha il momento clou nell’incontro di pugilato tra Enrico e il nuovo compagno della moglie, organizzato per strada, con i vicini di casa e il metronotte che assistono e tifano. In Febbre da cavallo è come se i personaggi vivessero le loro avventure attorniati da un coro, il popolo romano; microcosmi/cori del tutto evidenti sono il paese greco in cui si svolge la sfida tra la truppa italiana e quella inglese in I due colonnelli, la corte imperiale in Mio figlio Nerone, nonché la Napoli di Piedone lo sbirro. Proprio in un film come questo, prodotto popolare - in tutti i sensi - così mirabilmente costruito, tanto da dare vita a una vera e propria serie che poi, in fin dei conti, è servita come pilota del telefilm Big Man - Il professore, che infatti mutua situazioni, personaggi e, nella puntata Polizza droga, persino il tema musicale da Piedone lo sbirro, si coglie l’attenzione riservata dal regista alle figure collaterali e l’importanza di ognuna di esse per la composizione dell’inquadratura, funzione narrativa dunque ma anche figurativa e, volendo, persino etica. L’importanza del rapporto tra i protagonisti e gli altri personaggi si evince inoltre dalle intromissioni esterne al discorso dei primi che vengono concluse, ad esempio, con un insulto. Ne troviamo vari esempi. Nella sequenza iniziale dell’episodio centrale di tre Tigri contro tre tigri, il protagonista Oscar Bertoletti s’imbatte in una signora con l’auto in panne. Si ferma e dice: «Se non mi fermassi ad aiutare questa signora sarei proprio uno…». Riparte senza accorgersi di un’auto che giunge da dietro. L’uomo al volante gli grida «Stronzo». La medesima situazione si ripete subito dopo.

In Quando la coppia scoppia l’intromissione nel discorso del protagonista avviene addirittura attraverso il citofono: prima Angela completa la frase del marito Enrico dandogli del cretino, poi due operai per strada lo apostrofano con il più classico degli insulti del cinema farsesco, quel cornuto che oltre che nei film citati troviamo in Un giorno in pretura, nell’episodio Storia domenicale in Amore all’italiana e in Il vichingo venuto dal Sud. E sempre in Un giorno in pretura troviamo un altro esempio, narrativamente ardito, di discorso cominciato da un personaggio e concluso da un altro; «Questa è gente che ti è capace di affermare con la massima faccia tosta …» dice il pretore Lorusso e, con un salto temporale, durante un’udienza l’accusato prosegue: «Credete a me io il gatto non me l’ho mangiato». 
Nel suo diario «Sotto le stelle del ’44», il regista scrive questa riflessione su Fedor Dostoevski: “Quello che deve far pensare in Dostoevski è che nello scrivere i casi di Nataša, Alioša e Vania non si è detto: voglio scriverli con uno “stile”. Li ha solo scritti. Cercando solo di rendere esattamente ciò che capitò e ciò che pensarono e dissero di fronte a quei fatti Nataša, Vania e Alioša. Che cosa è quindi lo “stile”? Mi sembra: quello che mancò a Dostoevski che è uno degli scrittori che ha più “stile” nella letteratura. Ma se D. lo ha, come mai allora gli manca? Ma l’ho detto? Lo ha appunto perché non lo ha …”.  Da questa considerazione paradossale su uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi, tanto amato da Steno (che cita il suo romanzo «Delitto e castigo» in Doppio delitto) e apparentemente tanto lontano dal suo modo di fare cinema e dai generi da lui praticati (ma quanti umiliati e offesi, quanto seppur umoristiche memorie dal sottosuolo vi sono nel suo cinema, quanti personaggi angariati dal mondo e dalla burocrazia, anche solo il Banana Joe alle prese con l’ufficio anagrafico? E quanti personaggi di derivazione dostoevskiana vi sono nei suoi film, dal Vanzino di Piccola posta al Totò di Totò e i re di Roma? E il dialogo di Bonucci col suo sosia allo specchio in Femmine tre volte non è forse dostoevskiano?), si comprende molto dello stile di Steno o della sua mancanza di stile. La riflessione sembra cogliere soprattutto il realismo di Dostoevski o, se vogliamo, la sua scelta di raccontare i fatti per come avvengono. Se, come già scritto, non si può certo definire realista il cinema di Steno, è pur vero che la sua semplicità nel raccontare personaggi semplici e il suo cercare di raccontarli, anche nei suoi film più comici, con un approccio diretto e senza eccessivi filtri registici, dimostra che Steno aveva colto la lezione dello scrittore. Tale discorso potrebbe sembrare contraddittorio rispetto al precedente, sullo Steno parodistico e poco avvezzo al realismo. Può darsi che il regista subisse le influenze più disparate, Dostoevski e i fumetti, il gotico e l’avanspettacolo, e in effetti i suoi film testimoniano questi gusti eterogenei, ma è anche vero che nell’arte una cosa non esclude l’altra: il realismo non esclude il fantastico.
Si potrebbe quindi scrivere che lo stile steniano è una miscela di realismo nella scelta del modo di raccontare, derivante dalle letture e dal confronto comunque con il neorealismo del dopoguerra, ma anche di un gusto per l’assurdo, per l’immaginazione e per i generi meno tradizionalmente italiani, imparato negli anni delle frequentazioni giovanili (Mattoli, Freda). D’altra parte, non è detto che il comico e il brillante siano necessariamente generi superficiali e avulsi dalla quotidianità. Questa scelta mai tradita (e dostoevskiana) dal regista di raccontare l’uomo del popolo si esprime in vari modi. A cominciare dalla romanità di gran parte dei suoi eroi, primo fra tutti ovviamente Nando Mericoni, esempio immortale di espressioni romanesche, ancor più significativo perché in linea teorica rifiuta la propria origine, simbolizzata dai maccheroni, che prima disprezza volendo mangiare all’americana ma di cui poi si abbuffa avidamente. Mericoni è anche incarnazione principale del solipsismo, della guerra contro il mondo condotta dalla maggior parte dei personaggi di Steno e che viene espressa spesso con monologhi/soliloqui deliranti e/o rabbiosi e/o reclamanti. Questi monologhi sono davvero un marchio di fabbrica, punto fermo della struttura dei film di Steno e, perché no, espressione della sua poetica cinematografica e di conseguenza del disagio dei personaggi. Non a caso nei primi film venivano messi all’inizio, quasi come presentazione degli stessi. È così in Toto e le donne, dove il monologo è rivolto direttamente al pubblico e mette subito in chiaro l’opinione del protagonista nei confronti del tema del film. Lo stesso accade in Totò a colori, Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Femmine tre volte, Totò nella Luna e I due colonnelli. In Totò a colori il discorso del maestro Scannagatti esprime due caratteristiche tipiche dei personaggi steniani: l’isolamento e l’attesa di un evento che possa cambiare il loro destino. Il fastidio di Scannagatti nei confronti dei rumori che gli impediscono di concentrarsi sull’opera che sta componendo ne fanno uno spirito poetico, astratto, emarginato in un mondo concreto come quello di un paese di provincia, così come il desiderio di Rosario Trapanese di fuggire la gelosia dei mariti italiani trasferendosi in Danimarca in Il vichingo venuto dal Sud. Totò e le donne però insegna che il punto di vista del protagonista non è mai l’unico a cui il regista da voce. Nel finale infatti assistiamo alla sfuriata della moglie, che oppone le sue argomentazioni a quelle dell’uomo. In Totò a colori le proteste dei familiari di Scannagatti sono la reazione all’azione del protagonista, e la reazione in Steno ha una valenza narrativa fondamentale (ne è il motore) e morale altrettanto importante. Perché il regista rispetta il punto di vista dei personaggi che stanno intorno al protagonista quanto quello del protagonista stesso.

Roberto Frini