Robert Wise
01/04/2009
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Può apparire curioso iscrivere il nome di Robert Wise (1914-2005), regista del capolavoro West Side Story, uno dei film più premiati nella storia dell'Academy, tra i maestri della “serie B”.
Eppure egli non si distinse mai come “autore” , ma come diligente artigiano che, fattosi le ossa nella fucina di Val Lewton alla RKO, è riuscito, in quasi 50 anni di carriera, a imprimere un marchio personale ma discreto alle proprie opere. Considerando la serie B non solo dal punto di vista del budget (e i suoi primi film sono, in questo senso, sicuramente di serie B), ma anche con l'ottica un po' spocchiosa della critica anni '70 che vedeva il cinema di genere come la serie B del Vero Cinema, quello d'autore, Robert Wise è sicuramente un regista di serie B. E, in questa categoria, è senza dubbio un Maestro.
Già montatore di primo piano nella fucina RKO, esordisce nel '44, con una delle sue pellicole migliori, anche se poco conosciute, un film la cui magia in bilico tra horror, noir, poesia, psicanalisi si rifletterà più volte nei film successivi: “Il giardino delle streghe” (The Curse of the Cat People), concepito come sequel de “Il bacio della pantera”, ma del quale, grazie al cielo, mantiene solo alcuni personaggi e qualche riferimento, segnalandosi come uno dei migliori seguiti. Protagonista della vicenda è infatti una bambina fantasiosa, figlia dell'eroe e dell'eroina della precedente pellicola, che di notte riceve la visita di un bellissimo e dolce fantasma, una signora che le fa da amica del cuore e che scopriremo essere la defunta ex moglie del padre, quella Irina che nel film di Tourneur si diceva colpita dalla maledizione del Popolo Gatto. Le atmosfere inquietanti si volgono però in un'altra direzione, attorno alla villa di una signora matta e della leggenda di Sleepy Hollow, mentre il fantasma, anziché rivelarsi un mostro antropofago come da logica dei sequel, è piuttosto una fata madrina. Wise, nella sua prima opera, mette subito in mostra una acuta sensibilità per lo spazio e le luci, più consono a un direttore della fotografia che del montaggio, con decisi richiami all'espressionismo, in perfetta sintonia col suo produttore. E tali capacità torneranno ancora più evidenti nel secondo film per Lewton, l'angosciante “La iena – l'uomo di mezzanotte” (The Body Snatcher), tratto da un racconto di Stevenson a sua volta ispirato a certi lugubri fatti di cronaca. Se la carta vincente della pellicola è la presenza di Boris Karloff nel ruolo del vetturino predatore di cadaveri, va dato atto al regista di saper magnificamente giocare col detto e il non detto, il mostrato e il suggerito, nelle ellissi e nelle inquadrature profonde, contrastate, all'insegna dell'ombra e della confusione fra Bene e Male. Indimenticabili le sequenze della morte di Bela Lugosi e quella finale della voce nella tempesta.

Seguono una serie di noir (anche travestiti da altro genere, come il western in “Sangue sulla luna”, col mitico Robert Mitchum), tra cui spiccano il malato “Perfido inganno” (Born to Kill). “Ho paura di lui” (The House on Telegraph Hill), con Valentina Cortese nel solo film in copia col marito Richard Basehart, e lo splendido “Stasera ho vinto anch'io” (The Set-Up), uno tra i più bei film sul pugilato, girato in tempo reale e tratto (cosa più unica che rara) da una poesia. Realistico e poetico, vanta una splendida fotografia (ovviamente in bianco e nero) e la toccante interpretazione di Robert Ryan, ex-pugile anche nella vita, e dimostra come Wise si trovi perfettamente a suo agio con la psicologia umana quanto con le ambientazioni urbane, preferibilmente abitate da povera gente. Tornerà a New York e nel mondo del pugilato 7 anni dopo con “Lassù qualcuno mi ama”(Somebody up there likes me), dall'autobiografia di Rocky Graziano. Oggi il film è ricordato soprattutto per l'interpretazione sanguigna di Paul Newman (è la pellicola che gli diede meritata fama), complessato e violento ragazzo italiano che faticosamente salirà dalle stalle alle stelle, ma vale anche per l'ambientazione tra i ballatoi di Little Italy, che anticipa la scenografia di “West Side Story”, e per le sequenze di boxe, in cui Wise mostra chiaramente il suo passato di montatore, nonché di conoscitore di quello sport.
Ma nel tempo che trascorre tra le due pellicole pugilistiche, Wise è passato dalle produzioni a basso costo della RKO – tra cui ricordiamo “La città prigioniera” (Captive City), di transizione tra il noir e il film di denuncia, e il convincente “Ultimatum alla terra” (The Day the Earth Stood Still), per il quale rimandiamo alla rubrica “Buona la prima” - a quelle di serie A della Warner e della MGM, per la quale nel '54 realizza un film all stars ma di pregio quale “La sete del potere” (Executive Suite). Seguono una serie di film senza infamia e senza lode, coi quali Wise conferma la sua duplice tendenza: da una parte, regista “per uomini” con film d'azione, western (La legge del capestro) e guerra (I topi del deserto, Mare caldo); dall'altra regista “per donne”, con melodrammi sentimentali (Quattro donne aspettano) e commedie romantiche (Questa notte o mai). Torna ai migliori risultati nel '58 con un film-verità (nomi, date e dati: è tutto documentato), che avrebbe potuto essere un noioso film a tesi e invece diviene un avvincente noir, grazie alla mano del regista, oltre che all'interpretazione magistrale di Susan Hayward, “Non voglio morire” (I want to live). Narra di Barbara Graham, condannata a morte per un delitto passionale (che non ha commesso), ma il senso cupo di destino incombente e gli ambienti claustrofobici fan dimenticare la sostanza di film inchiesta per trasformarlo in un toccante film di genere ( e il genere nero, si sa, ha come tema centrale quello del caso e del fato al quale non si può sfuggire).

La capacità di organizzare lo spazio, mettere in risalto le psicologie, fornire struggenti pagine descrittive, ritorna nel successivo “Strategia di una rapina” (Odds Against Tomorrow), ennesimo noir, qui sulla linea del kubrickiano “Rapina a mano armata”, con tre disperati che organizzano una rapina, purtroppo rovinato da una sceneggiatura stucchevolmente oratoria. È quindi il momento del capolavoro, quel “West Side Story”coreografato da Jerome Robbins e musicato da Bernstein. Ciò che noi più amiamo del film è l'uso che Wise fa delle location (la 68 e la 118 strada) e dei colori, riuscendo a fondere la sua vena documentaria con quella melò. Non a caso, tra gli Oscar vinti ci sono quelli per fotografia, scenografia e montaggio. E, ovviamente, regia.
Il successo avrebbe potuto imprigionarlo in mega produzioni musicali per il grosso pubblico: e se è quello che avviene con l'insopportabilmente zuccherino “Tutti insieme appassionatamente” (The Sound of Muisc) – che procura al regista il suo secondo Oscar a distanza di quattro anni - , tuttavia è questo anche l'unico episodio. Immediatamente dopo “West Side Story”, infatti, Wise dirige una semplice commedia di origine teatrale, con la bella accoppiata Mitchum-Shirley MacLaine, “La ragazza del quartiere”(Two for the Seesaw), che annuncia fin dall'inizio il classico lieto fine per poi disattendere le aspettative del pubblico; mentre l'anno seguente Wise torna addirittura alle origini, con lo stupendo horror psicologico “Gli invasati”(The Haunting). Un film da cardiopalma, dove suoni, rumori, corridoi, ombre, suggestioni, paure, omissioni, tutto contribuisce a creare atmosfera, spavento e, soprattutto, dubbio: capolavoro di ambiguità, che lascia allo spettatore decidere sulla realtà, o meno, degli avvenimenti. Se dovessimo dirigere un cineforum e dovessimo scegliere solo una sua opera, sia come migliore dal punto di vista della riuscita artistica, sia come maggiormente emblematica dell'insieme del suo lavoro, sceglieremmo senza dubbio questo film.
Sfortunatamente gli ultimi lavori, dopo il trionfo al botteghino di “Tutti insieme...”, non sono più all'altezza delle precedenti prove. Se “Quelli della San Pablo” (The Sand Pebbles) è ancora un'avvincente pellicola d'avventura , con un indimenticabile Steve McQueen (una curiosità: la sua prima apparizione è in “Lassù qualcuno mi ama”), i successivi “Star” e “Hindenburg” sono decisamente accademici e prolissi. Infine, gli anni '70 vedono Wise riprendere in mano il genere di fantascienza e horror con risultati discreti ma un po' troppo datati: “Andromeda”, “Audrey Rose”e “Star Trek” (che il Morandini definisce “bovino”) non aggiungono nulla alla carriera dell'ormai sessantenne regista, che chiude la carriera nell'89 con “Combat Dance” (Rooftop) un musical che purtroppo è di serie B anche nella qualità artistica.
Nel bene e nel male Wise è (quasi) sempre stato coerente con la sua visione artigianale di cinema, dedito ai generi, ottimo direttore d'attori e organizzatore di spazi e suggestioni, tanto da far dichiarare a Oliver Stone “Credo che Wise sia uno dei registi americani più sottovalutati”. Condividiamo
Elena Aguzzi