Il rabdomante che fiuta le acque e le anime

09/10/2011

“Il Cinerigattiere”, rubrica a cura di MARIO TIRINO

E' davvero raro spulciare tra le opere prime italiane dell'ultimo ventennio e rinvenirvi una pellicola intensa, piena e ricca di valori cinematografici e narrativi come Il rabdomante (2007) (1). Autori del miracolo sono il regista toscano Fabrizio Cattani, l'attore protagonista Pascal Zullino – che insieme a Chiara Laudani hanno congegnato uno script perfetto nel miscelare emozioni, azioni e personaggi a tutto tondo – e la produttrice Barbara Maio.
La trama de Il rabdomante si snoda attraverso una Lucania assolata, in cui Felice (Pascal Zullino) un quarantenne un po' ritardato, con il dono della rabdomanzia, si imbatte fortuitamente nella bellissima Harja (Andrea Osvart), una ragazza dell'Est incinta del boss mafioso Citanidd (Riccardo Zinna), da cui cerca disperatamente di fuggire. L'intreccio principale è magistralmente diviso tra le peripezie amorose e quelle criminali. Le magiche capacità di Felice, infatti, interferiscono con gli affari di Citanidd, che vede mandare in fumo il suo castello di imbrogli, teso ad appropriarsi delle risorse idriche delle Murge.
Le acque rappresentano un ricchissimo cuore metaforico del film. Il fiuto sovrannaturale consente a Felice di percepire, attraverso tecniche antichissime, il flusso idrico sottostante è il corollario di un'altra qualità eccezionale: egli fiuta anche le anime. Felice non è un mago, non è un “chiromante”, come, significativamente, lo ribattezza erroneamente in un paio di circostanze il boss che lo vuole morto. Citanidd è figlio dei tempi, conosce il linguaggio dei soldi e degli affari: per questo, nella sua ottica, uno che “sente” le fonti sotterranee può essere solo uno stregone. Il rabdomante, invece, è ben altro; egli è il più umano degli umani e il suo difetto di socializzazione – che qualcuno può scambiare per ritardo mentale – è in realtà uno scarto immane rispetto al cinismo e al degrado del mondo circostante. Felice è l'incredibile superstite di una civiltà arcaica e forse impossibile, colui il quale ama le acque, perché sono l'origine e il nutrimento della vita stessa, nelle sue forme diverse, primigenie e meritevoli della stessa “incantata” ammirazione (gli altri uomini, le bestie, i campi).
L'incontro con Harja, una sbandata sola, straniera e braccata dai malviventi, rimanda alle pagine migliori del cinema di Sergio Citti e di Ermanno Olmi. La mdp pedina l'incontro di cuori semplici con rispetto e stupore, ma dribblando svenevolezze e pietismi. Harja e Felice s'intendono subito, perché il loro è uno scambio di umanità rara e minore, non ossessionata dai miti del consumo occidentale, ma figli di culture aliene (quella antichissima delle campagne lucane, quella estera in senso proprio) e irriducibili.
Tutto questo abbondante materiale narrativo è tradotto in immagini di nitore e impatto eccezionale, che esaltano il disegno di personaggi ad altissima intensità grazie alla fotografia di Francesco Carini, a suo agio sia nell'esplorazione dei primi e primissimi piani, sia nel ritratto delle arse pianure tra Lucania e Puglie immerse nella luccicante arsura estiva. Uno dei punti forti dell'impianto visivo e dello script è proprio il focus su un Sud arcaico e nascosto, lontano sia dalle grandi realtà urbane (Napoli, Palermo, Bari, Reggio Calabria) sia da un folklore svilente da cartolina. E' un Sud contadino, legato alla terra, alle forze naturali e alle coltivazioni, che fatica a sopravvivere non solo economicamente ma proprio culturalmente. La sua stessa persistenza – con un bagaglio di valori oramai “fuori mercato”, dall'amicizia alla convivialità, dalla solidarietà al culto e rispetto per i tempi dei cicli naturali  – è una sfida aperta alle feroci regole del bunker monoculturale del capitalismo globale.
La ciliegina sulla torta in una pellicola drammaturgicamente quasi perfetta è l'interpretazione di Pascal Zullino, attore materano con una lunghissima gavetta teatrale (2). Il suo uso misurato della mimica, la capacità di smozzicare le parole in un credibile idioletto venato di inflessioni lucane, i suoi sguardi eloquenti incastonati in una bella faccia popolare rendono indimenticabile il personaggio di Felice, il cui intero corpo (le spalle incurvate, l'andatura un po' incerta, i frequenti annebbiamenti) è indice di una sensibilità altra rispetto alla limitante realtà circostante. La stessa soddisfacente prova di Andrea Osvart conferma le brillanti scelte di casting, come d'altronde i volti originali, particolari e incisivi dei caratteristi: non solo i due scagnozzi fratelli Cosimino e Pistone, interpretati da Francesco Dominedò e Nando Irene, e la locandiera focosa e traditrice, con le forme di Lucianna De Falco, ma anche le anziane comparse non professioniste, come le vecchiette con l'amoroso vizio di produrre le orecchiette fin dal primo mattino e l'incazzoso e avido fabbro. Riccardo Zinna (Citannid) e Antonio Gerardi (l'esattore Tonino) se la cavano egregiamente, grazie anche a una solida esperienza teatrale.
Sebbene sia – quella del palcoscenico – la medesima provenienza di Cattani, il regista si mostra in pieno controllo dell'opera cinematografica, ponendo alla base del suo lavoro due pilastri visivi: l'ariosa combinazione di piani e campi stretti che virano in splendide aperture sui paesaggi e la “neorealistica” attenzione ai dettagli. Se la psicologia di Felice è tracciata a partire da minuscole variazioni (il modo in cui porge un vestito ad Harja o dispone le stoviglie sul tavolo o, ancora, seleziona un barattolo di vernice da uno scalcagnato scaffale), altrettanto avviene con i personaggi minori – basti citare la fissazione per le calzature che contraddistingue Tonino o quella per i motori che ossessiona il sordomuto Pistone.
A voler essere onesti, ci sono alcune sbavature. In primo luogo, la qualità davvero scadente degli effetti speciali. In secondo luogo, il make up poco credibile nell'invecchiamento di Felice. Infine – ed è davvero l'unica crepa nella sceneggiatura – un finale leggermente appesantito da un eccesso di “messaggio”. Ma i pregi superano di gran lunga le imperfezioni e Il rabdomante resta una prova da recuperare ed approfondire ulteriormente, anche per le musiche esaltanti di Louis Siciliano.
A questo punto siamo curiosi di vedere la nuova prova di Fabrizio Cattani, Maternity Blues (2011), presentato all'ultima edizione della Mostra di Venezia (3).

Il rabdomante
Regia: Fabrizio Cattani
Soggetto: Pascal Zullino
Sceneggiatura: Fabrizio Cattani, Pascal Zullino, Chiara Laudani
Interpreti: Pascal Zullino, Andrea Osvart, Riccardo Zinna, Antonio Gerardi, Francesco Dominedò, Nando Irene, Lucianna De Falco, Susan Lay, Massimo Sarchielli
Fotografia: Francesco Carini
Montaggio: Paola Freddi, Donatella Ruggiero
Musica: Louis Siciliano
Scenografia: Biagio Fersini
Produzione: Barbara Maio, Colpo di Scena
Origine: Italia
Anno: 2007


(1) In realtà, Il rabdomante è il secondo lungometraggio di Fabrizio Cattani, ma il suo primo film, Quelle piccole cose (2001), ha goduto di un'inesistente distribuzione.
(2) Una biografia breve si trova qui: http://www.lucaniafilmfestival.com/2010/giuria-2010-pascal-zullino/
(3) Questa la sinossi del film sul sito ufficiale della Biennale: http://www.labiennale.org/it/cinema/film/sel-uff/controcampo-italiano/maternity-blues.html

Mario Tirino