Tra felafel e Nino Rota, stralunate esistenze australiane

21/09/2010

"Il Cinerigattiere", Rubrica a cura di MARIO TIRINO

Con il terzo numero, il Cinerigattiere compie un definitivo salto di qualità: grazie alla collaborazione con un team di giovani critici (in rigoroso ordine alfabetico, Pietro Ammaturo, Livio Ascione, Andrea De Ruggiero, Attilio Lambiase, Antonello Trezza, nell'insieme detti La Ciurma), coordinati dal sottoscritto, la rubrica garantirà un cospicuo numero di recensioni. In questo modo, gli appassionati potranno ammirare alcuni dei tesori nascosti nella bottega del Cinerigattiere, con l'amorevole e burbera supervisione di chi scrive (il Capitano).  Tra relitti del cinema popolare italiano e film d'avanguardia, serie A e serie Z, brutture immonde e deliziose gemme per pochi, lasciamo ora parlare i film.
Mario Tirino


E morì con un felafel in mano 
è la ricerca della rivalsa da parte del cinema australiano indipendente. Tratto dall’omonimo romanzo di John Birmingham, il regista Richard Lowenstein porta sullo schermo una storia strampalata e che sfocia spesso nell’onirico (non è certo un caso la scelta nella colonna sonora de La dolce vita di Nino Rota, dall’omonimo capolavoro di Federico Fellini). Il film parla in maniera scanzonata, comica e tragica allo stesso tempo, delle giovani generazioni australiane, dei loro sogni e delle loro disavventure, che spesso sfociano nell’irreale più assoluto (la trasposizione cinematografica è perfettamente coerente in questo senso con il romanzo autobiografico di Birmingham che ha davvero coabitato con 89 persone differenti annotandone tic, abitudini e follie varie).
Il protagonista è Danny, interpretato da un mirabile Noah Taylor (gli appassionati lo ricorderanno per le sue successive interpretazioni in film come Tomb Raider, Vanilla Sky, Charlie and the Chocolate Factory e il più recente Lezione ventuno, esordio alla regia di Alessandro Baricco), trentenne australiano ingarbugliato nelle sue crisi esistenziali, bloccato in quella fase di passaggio dall’età giovanile a quella adulta - nello stato apatico di chi, rassegnato, non sa cosa fare della propria vita. Danny vuole essere uno scrittore ma non ne ha né la caratura né il talento necessari: in tal senso è emblematico il primo tentativo di racconto per la rivista Penthouse.
In un intelligente connubio di generi cinematografici - tra il road-movie e la black comedy in salsa minimalista - Richard Lowenstein realizza un film dal perfetto ordine geometrico, grazie alla misurata disposizione dei tempi narrativi e alla curata illustrazione degli eventi, che richiamano i film di Quentin Tarantino e dei fratelli Coen.
La storia, che non ha un vero inizio né una vera fine (inizia in un giorno qualsiasi della vita di un uomo e si conclude in una dubbiosa catarsi) si concentra sugli ultimi tre cambi di residenza sui 49 totali da parte di Danny e delle vicissitudini, spesso buffe, a volte tragiche, quasi sempre incredibilmente surreali, che lo accompagnano nella vita di tutti i giorni e lo trascinano in una sorta di discesa agli inferi. Il primo appartamento è a Brisbane dove condivide con più di una dozzina di persone una casa in decadenza, dove il tempo  scivola via tra riflessioni private e discussioni prive di senso. Per sfuggire agli strozzini, Danny scappa e si trasferisce a Melbourne, rinchiudendosi in una sorta di incubo kafkiano che svela la superficialità e prepotenza della polizia locale. Ancora privo di idee e con la paura di una rappresaglia da parte delle autorità, cambia di nuovo casa, arrivando nella corrotta, superficiale e falsa Sidney. Come la città, anche gli inquilini del nuovo appartamento risultano, agli occhi di Danny, ipocriti e arrivisti, ingarbugliati nel loro egoismo e nelle bugie che raccontano anche a se stessi.
 A questo punto del film, dentro c’è davvero di tutto: Dirk, l’omosessuale isterico alle prese con il  coming out, l’amica lesbica e femminista, un cultore della tintarella albina poi tossicodipendente, quella bisex e potenziale suicida, un’attricetta bulimica ed egocentrica, la polizia assassina, una madre assente ma premurosa, un macho stupido, il teledipendente, una giapponese di poche parole che è quasi un cartone animato, la ragazza dell’appartamento di fronte che esce in minigonna con un giocatore di football, e il bancario che ancora vive in coabitazione per risparmiare - o non dover crescere. Una sfilza di ridicoli cliché ma che funzionano.
In questa godibile architettura filmica, però, si insinua un’incrinatura: l'eccessivo manierismo tecnico con cui si narra una storia troppo esile, alla ricerca di qualcosa che valga la pena di essere ricordata. Un manie inadatto al movimento stilistico e narrativo quale quello australiano, che sul tema del disordine esistenziale, tipico del cinema degli anni ’90, è giunto troppo tardi.
Una menzione speciale va alla colonna sonora del film che dalla già citata La dolce vita di Rota, unisce musiche come California Dreamer, La cavalcata delle Valchirie e Ya Ya ringe ringe raja di Goran Bregovic.

He Died with a Felafel in His Hand  (E morì con un felafel in mano)
Regia e Sceneggiatura: Richard Lowenstein
Soggetto:  dall'omonimo romanzo di  John Birmingham
Interpreti: Noah Taylor (Danny), Emily Hamilton (Sam), Romane Bohringer (Anya), Alex Menglet (Taylor), Brett Stewart  (Flip),  Damian Walshe-Howling (Milo), Sophie Lee (Nina), Ian Hughes (Ian), Robert Rimmer (Derek), Sayuri Tanoue (Satomi Tiger), Haskel Daniel (Jabber), Skye Wansey (Detective O'Neil), Clayton Jacobson (Repo Man), Linal Haft, Nathan Kotzur, Ivan Tatarovic, Tim Robertson, Robert Morgan, Scott Major, Pascal Delair, Wendy Roberts,  Terry Serio, Steve Bastoni,  Graeme Carroll, Chris Samios, Keeryn Gill, Benjamin Rich, Rebecca Cutler, Rani Hayman, Stuart Nicholls, Harry Brentnall, Norris Blanks, Jilly Ferguson, Jon Wicks, Simon Wheeler, Matt Dunk, Michael Fawaz, Skye Gamblin, Torquil Neilson,       Glenn Newnham
Origine: Australia / Italia
Anno: 2001

Antonello Trezza