Visconti, unico fin dall'inizio
02/04/2015

L'incipit di un romanzo, si sa, è estremamente importante: se le prime righe ti catturano è più facile che tu prosegua. Al cinema è diverso: a meno che tu non stia guardando la tv e allora puoi sempre girare canale, è difficile che tu esca dalla sala (o interrompa la visione di un dvd appena comprato, o di un film appena scaricato) solo perché i titoli di testa non ti convincono. Ma l'incipit di un film è assolutamente fondamentale per il regista per annunciare ciò che stiamo vedendo: si può trattare del più classico “titoli di testa”, o di titoli che scorrono già sulle prime immagini o di suoni e immagini che iniziano da subito, posticipando i credits, ma questo inizio non è mai – o mai dovrebbe essere- casuale. Con l'inizio abbiamo già ben presente la visione estetica dell'autore e il genere di film che affrontiamo.
Gli esempi sono innumerevoli. Anni fa ricordo una trasmissione televisiva che aveva chiesto di votare i migliori incipit, e avevano vinto quello di Apocalypse Now (il mio preferito, in effetti) e quello di Blade Runner. Ce ne sono di pessimi, invece. Oppure di indimenticabili, ma poi il film non è all'altezza (Django, per esempio). Ci sono titoli di testa che han fatto la storia del cinema (vedi il piano sequenza iniziale de L'infernale Quinlan), altri che caratterizzano un regista (Woody Allen inizia sempre con scritte minimali in bianco su fondo nero).
Per restringere il campo – che teoricamente investirebbe l'intera produzione cinematografica mondiale – abbiamo deciso di trattare gli inizi di alcuni registi che han fatto dell'arte dell'inizio una mini storia del cinema a sé. Cominceremo con un autore a noi particolarmente a cuore, Luchino Visconti, uno dei primi a rompere con la tradizione dei cartelli coi titoli posti prima dell'inizio vero e proprio e che ha lasciato delle “prime inquadrature” squisitamente programmatiche.

Luchino irrompe nella storia del cinema con un inizio straordinario, quello di “Ossessione”. Se non fosse un'affermazione ingiusta per il resto del film saremmo tentati di dire che è un inizio che vale l'opera. Mentre i titoli scorrono siamo già nel film, con l'inquadratura, in soggettiva dal volante di un camion, di una strada della bassa padana. In questa semplicissima immagine abbiamo denunciato già tre motivi poetici della pellicola. 1- Si tratta di un noir. Il cinema noir infatti inizia quasi ossessivamente col tema della strada, a suggerire un destino ineluttabile: da notare tuttavia che fino ad allora (1943) ben pochi ( Renoir – maestro di Visconti – con la ferrovia inquadrata dalla locomotiva ne “L'angelo del male”, o Hitchcock con l'inizio di “Rebecca” in cui la protagonista torna in sogno a Manderly) avevano cominciato in maniera simile, e che solo in seguito questo diverrà una sorta di cliché, fors'anche grazie a “Ossessione”. 2- uno dei temi principali del film, o perlomeno del suo protagonista, sarà quello del viaggiare, del vagabondare ( e, tra le righe, si suggerisce in questo un'origine americana del testo: infatti il film non è “tratto da” Cain, ma i richiami di trama al suo “Postino suona sempre due volte” o nell'atmosfera e personaggi ai romanzi di Steinbeck sono comunque ben presenti). 3- è un film (neo) realista – genere di cui in seguito si è detto che questo film sia il progenitore – perché ben ancorato alla realtà sociale e geografica del nostro paese, senza abbellimenti: la campagna attorno a Ferrara è coprotagonista del film. Poi, come terminano i titoli, il camion si ferma e inizia l'azione. E qui Visconti si inventa un'altra cosa magnifica, certo non da regista esordiente. Il primo suono che ci giunge all'orecchio è l'aria “Di Provenza il mare, il suol”: realisti sì, ma occhio che questo è un melodramma. E infatti l'inquadratura si innalza sullo “spaccio”, l'osteria del Bragana, che appare bidimensionale, quasi una scenografia teatrale, il luogo deputato all'incontro-scontro tra i personaggi. Però non siamo a teatro, siamo al cinema, e poco dopo un movimento di macchina ce lo svela in tutta la sua potenza. Infatti nei primi minuti noi non vediamo in volto Gino Costa (Massimo Girotti), il protagonista, ma lo seguiamo di schiena entrare nell'osteria, avanzare, attratto dalla voce e poi dalle gambe di lei, fino in cucina, e solo quando la donna (Clara Calamai) alza lo sguardo, uno zoom ce lo mostra in tutta la sua bellezza. Dunque cinque minuti potentissimi, dai titoli alle prime battute, in cui abbiamo già tutti i temi e i toni del film- una pellicola, tra le altre cose, ad altissimo tasso erotico proprio in virtù di queste inquadrature e di questi sguardi.

Molto curioso è l'inizio del suo terzo lungometraggio, “Bellissima”: mentre scorrono i titoli di testa c'è l'inquadratura fissa di un coro della radio che intona un'aria dell' “Elisir d'amore”. Apparentemente la cosa non ha nulla a che vedere col resto della pellicola ed è solo utile per lanciare il soggetto, con Corrado che al termine del brano annuncia i provini a Cinecittà per una bambina; inoltre, dal punto di vista strettamente cinematografico, sembra piuttosto insulsa rispetto ai movimenti di macchina e alla cura che Visconti ha profuso in “Ossessione” e nel successivo “La terra trema”. Bisogna prestare però attenzione al soggetto dell'aria, l'imbonitore Dulcamara, che in realtà preannuncia puntualmente la trama del film – la vendita di illusioni – e, sotto sotto, le vere intenzioni poetiche del regista: dietro l'apparenza di un neorealismo zavattiniano, Visconti punta ancora una volta al melodramma, sebbene in chiave di commedia. Gli ci vorrà quasi tutta la pellicola per gettare la maschera, ma l'inquadratura di Anna Magnani che piange sulla panchina con la bimba in braccio, isolata, sotto la sola luce di un lampione come se fosse su un palcoscenico ci dice che la vita è teatro: non è il cinema ad imitare la vita, ma viceversa.
Tuttavia il più straordinario inizio melodrammatico, stampato nella memoria cinematografica di molti (Martin Scorsese lo ha anche omaggiato ne “L'età dell'innocenza”) è in “Senso”, probabilmente il suo capolavoro. Mentre scorrono i titoli di testa, assistiamo a una rappresentazione, presso il teatro La Fenice, de “Il trovatore”. La cinepresa fissa lo spettacolo come gli occhi dello spettatore, coinvolgendo questi immediatamente in un gioco di specchi, di finzione, di melodramma in cui la passione amorosa e quella politica si intrecciano e a cui siamo invitati ad assistere, partecipi ma impotenti. Tutto ciò sarebbe già sufficiente per acclamare questo incipit, ma la lunga sequenza che segue i titoli è tutta un tripudio di maestria tecnica e di significato e ci lega al film in modo da non potersene più staccare, dal lancio dei volantini tricolore dal loggione al grido di “Fuori lo straniero da Venezia”, alla carrellata che segue il concitato scontro tra il conte Ussoni e il tenente Mahler, al dialogo ricco già di sottintesi tra lo stesso Mahler e la contessa Serpieri, in quel palchetto rivestito di specchi e da cui scorgiamo la messinscena: ma dov'è la vera pantomima, sul palco o nel palchetto? “Ma sì, a me piace molto (l'opera). Non mi piace quando si svolge fuori scena, né che ci si possa comportare come un eroe da melodramma”, afferma la donna, e il resto del film smentirà drammaticamente questa affermazione. Un inizio, dunque, che contiene già l'intera opera, specchio rovesciato di quella che si svolge sul palcoscenico (l'eroismo di Manrico contrapposto all'egoistico menefreghismo di Franz Mahler), e che come un melodramma verdiano si conclude, con la sequenza della fucilazione rappresentata da lontano, sullo sfondo del muro,come se fosse messa in scena su un palco teatrale.

“Rocco e i suoi fratelli” avrebbe dovuto iniziare in tutt'altro modo (il funerale del signor Parondi in Lucania), ma per fortuna un ripensamento dell'autore cambia le carte in tavola e, ancora una volta, cominciamo “in media res”, coi titoli che scorrono sulle prime immagini, quelle del treno che arriva alla stazione di Milano: come in Ossessione, si comincia con un viaggio, quello delle persone e del destino. Qualcuno ha notato che il primo tema che sembra proposto – la stazione, quindi la grande città, con sbarre come a suggerire una prigione – viene invece subito abbandonato: la famiglia infatti non ha problemi di inserimento nel nuovo contesto per colpa dei milanesi, che invece si mostrano subito ospitali (anche se vedendoli carichi di pacchi e cianfrusaglie scuotono il capo “T'ha vist che roba? Africa”), ma i problemi sono tutti all'interno del loro nucleo famigliare, del loro carattere. Per contro mi permetto di notare che il titolo del film parla di Rocco, e poi dei suoi fratelli, quindi lo sguardo principale che assumiamo è il suo (il film è scandito da capitoli che portano, in ordine dal maggiore al minore, i nomi dei cinque fratelli: Vincenzo, Simone, Rocco, Ciro e Luca, ma questi capitoli sono di lunghezza diversa e, ovviamente, quello dedicato a Rocco è il più lungo, oltre che quello centrale), e Rocco per tutto il tempo del suo soggiorno al nord appare spaesato, disadattato, ancorato al sogno di tornare alla sua terra d'origine. Per lui la città – quindi subito la stazione – è qualcosa di oscuro (Simone invece è subito incantato dalle luci), grande e minaccioso e di cui si sente prigioniero. Tuttavia questo incipit è sicuramente meno incisivo di quelli di Ossessione e Senso, così come poco memorabili sono gli inizi seguenti (ci si può giusto ricordare quello della Caduta degli Dei con le infocate immagini dell'acciaieria).

Sublime, invece, è quello di “Morte a Venezia”. Sicuramente bellissimo per qualità dell'immagine, accompagnato dalle splendide note dell'Adagio della 5 sinfonia di Gustav Mahler, ci presenta ancora una volta un viaggio, ancora una volta senza preamboli. Il vaporetto avanza nella nebbia della laguna veneziana, un uomo anziano è seduto sul ponte, avvolto in una coperta. Non c'è però la gioiosa aspettativa della meta: l'uomo, su cui la cinepresa stringe in zoomata, è cupo, come è cupo il cielo, il fumo nero del vaporetto. Regna un'atmosfera funerea. Chi è e cosa lo ha spinto lì lo scopriremo nel corso del film. Paragonandolo agli altri inizi citati possiamo notare subito due cose: che qui non si tratta di melodramma ma di sinfonia, e che stavolta non vediamo l'avvicinarsi alla meta dal punto di vista del viaggiatore ma lo guardiamo dal di fuori, come un quadro. Il viaggio del professor Aschenbach sarà un viaggio “statico” (il vaporetto procede lentamente nella laguna veneziana, e da lì il professore non potrà più andar via, come imprigionato in un incantesimo), dentro la propria anima, il suo peregrinare sarà un girovagare ossessivo per le stesse strade fino a perdersi e morire, e quando cercherà di ritrovare la giovinezza sarà la dannazione di Faust (il film è infatti fortemente debitore di altre opere di Mann, “Doctor Faustus” in primis - di cui riprende anche il tema sulla possibilità di creare bellezza, e sul costo di questo tentativo - e “La montagna incantata”). Purtroppo l'incipit non può essere esaustivo, ma sicuramente ci trascina immediatamente in questo incantesimo-incubo, con l'incontro spiacevole del vecchio laido, prima, e del gondoliere poco raccomandabile poi, immagini inquietanti immerse in una sonnacchiosa bellezza già gravida di morte.
Anche l'ultimo incipit notevole è gravido di aspettativa di morte. Appartiene all'ultimo film che Visconti ha potuto ultimare fino al montaggio definitivo (“L'innocente” è purtroppo postumo) e che appare come una sorta di autoritratto-testamento spirituale, “Gruppo di famiglia in un interno”. Il film, stavolta, comincia dalla fine. Non si ha l'impressione di seguire la storia in flash-back perché non vi sono artifizi estetici o narrativi (dissolvenze, voci narranti) che esplicitino questo fatto, ma la prima inquadratura si lega all'ultima. Non abbiamo purtroppo letto la sceneggiatura e anzi non siamo in grado di dire con certezza se la storia narrata sia un vero e proprio ricordo da parte dell'uomo morente, o se è soltanto un'anticipazione di ciò che avverrà alla fine. Fattostà che noi non vediamo se non, mentre scorrono i titoli di testa, l'immagine di un nastro che si srotola, quello che conta i battiti del cuore di un infartuato, e tale immagine ritornerà alla fine, quando il Professore si ritroverà sul letto dell'ospedale ad ascoltare i passi al piano di sopra, simbolicamente della morte. Nel corso della sua carriera Visconti ha spesso giocato coi vari piani temporali – si pensi ai flashback di Morte a Venezia o all'inchiesta di Ludwig, che scandisce la narrazione – ma mai aveva cominciato dalla fine per poi srotolare il nastro della memoria in maniera piana (anzi, intervallata da brevi flash a ritroso nel tempo che accennano qualcosa del passato del Professore senza però disvelare troppo). Probabilmente ha scelto questo espediente perché ai suoi stessi occhi il film appariva come un voler raccontare se stesso senza parlare di sé, come se volesse dire “se non fossi divenuto regista, come sarebbe stata la mia vita? Che ricordi potrei avere sul letto di morte?”. Certo è che questo autore, che ha cominciato in maniera folgorante con “Ossessione”, ha saputo concludere con coerenza tematica (il disfacimento di un'epoca, tema fortemente presente anche ne “L'innocente”), formale (una regia sempre perfetta, di ampio respiro, senza acuti virtuosistici e senza sbavature) e capacità di stupire.
Elena Aguzzi