Ennesimo capolavoro del regista di Hana-Bi che abbandona
(quasi totalmente) il fuoco degli spari yakuza per indugiare sui fiori,
compiendo un cammino sempre più estetizzante. Sembrerebbe un improvviso cambio
di rotta, anche perché Kitano rinuncia sia al grottesco a cui ci aveva abituati
che a figurare da protagonista, e realizza un film giapponesissimo nei ritmi e
nello spirito, quasi a farsi scusare la concessione americana di “Brother”. Ma
la mano è sempre la sua: personaggi estraniati dal mondo in una loro poetica,
il procedere tra flash back e flash froward ora indugiando in lunghe
inquadrature ora staccando in rapide omissioni, silenzi sull’Oceano, vette di
lirismo e il motivo del viaggio che lega il tutto. Sono i due “vagabondi
legati” che percorrono il film,
attraversando un Giappone splendidamente inquadrato nel corso delle stagioni
con un cromatismo sublime, quasi fossero l’incarnazione delle tragiche
marionette del prologo e sempre più simili alle marionette nell’abisso della
loro metamorfosi. Nel loro cammino incrociano altre due storie di tragico
amore, di colpa e sacrificio, ed intrecciandosi figurano ognuno come comparsa
nei drammi degli altri. Kitano non riesce a rinunciare del tutto al personaggio
dello yakuza e spiazza con un improvviso cambio narrativo spostandosi su un
boss ormai in declino che ritrova, per un tempo breve, la donna che lo ha
sempre aspettato portandogli ogni sabato il pasto sulla stessa panchina. Ha
spesso il sapore di una favola triste “Dolls”, come le foglie cadute, come gli
oggetti che, solo più tardi tra ricordi e scansioni temporali, acquistano un
loro doloroso significato. Forse solo troppo lungamente compiaciuto nell’ultima
parte, volutamente estenuante, sempre più astratto. Ma va dritto al cuore.