Cinema Coreano: Simpatia per la Vendetta

01/06/2007

Un senso estremo della violenza percorre il cuore del Cinema Coreano nei tre filoni che lo caratterizzano: horror, epico e gangster. Una cinematografia che l’Europa sta riscoprendo di recente, grazie ai numerosi festival (emblematico il Far East Film di Udine) e ad alcuni nomi che oramai giganteggiano a livello internazionale. Più pochi ne conoscono i primi fermenti della seconda metà degli Anni Cinquanta e del decennio seguente, anni che segnano l’esordio di grandi registi ma che tendono a produrre pellicole di puro intrattenimento o di impegno sociale. Andando di pari passo con gli eventi politici che sconvolgono il Paese, il Cinema Coreano subisce una recessione e quindi una ripresa negli Anni Novanta, quando risaltano sulla scena i nomi di Kim Ki-duk, Im Kwon -taek e Park Chan – wook.
Il primo segue una concezione cinematografica di estremo lirismo, quasi astratta, in cui prevalgono l’allegoria e il sogno in un ritmo scandito da lunghi silenzi (“Bad Guy”, “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, “Ferro 3 – La casa vuota”), modello seguito anche da Lee Chang-dong con “Oasis”, poetica ed impossibile storia d’amore tra una ragazza handicappata ed un piccolo delinquente: Venezia li consacra entrambi.
Park Chan – wook, sugli schermi in questi giorni con “Lady Vendetta” (cfr. pagina recensioni), sceglie invece un cinema estremo per immagini e sentimenti con la sua trilogia sulla vendetta vista come emozione purificatrice. “Sympathy for Mr. Vengeance”, ancora un po’ grezzo nello stile rispetto ai film successivi ma feroce nel dipingere una storia di vendette incrociate; “Old Boy”, il suo capolavoro, tratto da un manga giapponese del quale però stravolge il finale, scava nell’anima nera e disperata di un uomo imprigionato per 15 anni senza un’apparente ragione e improvvisamente liberato con un’unica ossessione, vendicarsi, e assume le tinte di un giallo crudele; infine “Sympathy for Lady Vengeance”, il più originale a livello stilistico, completa il percorso vendetta/espiazione con una struttura a puzzle che, ancora una volta, nasconde un segreto crudele.
Sentimenti estremi che si ritrovano anche dietro le splendide scenografie del Cinema Epico coreano, avventure di cappa e spada che non puntano sull’eleganza formale ma in cui prevale la ferocia delle battaglie e dei conflitti. Due almeno i titoli da citare: “A Sword in the Moon” di Kim Ui-seok, storia di due amici che si ritrovano a combattere l’uno contro l’altro, e il sontuoso “Musa – The Warrior” di Kim Sung-su, ambientato nella Cina del XIV Secolo e interpretato dalle star Jung Woo-sung e Joo Jin-mo insieme a Zhang Ziyi, dove il romanticismo della vicenda si dissolve nella brutalità dell’azione e nella magnificenza del deserto e gli eroi hanno zone d’ombra.  Passione, avventura, combattimenti agghiaccianti e paesaggi mozzafiato su cui gravano la malinconia di un destino ineluttabile e il senso della sconfitta e dell’onore (il capitano vile resta fedele alla promessa di proteggere la principessa e spera nel riscatto di una morte bella).
Pathos melodrammatico e impressionante realismo si fondono anche in “Tae  Guk Gi” di Kang Je-gym (il titolo inneggia con sarcastica enfasi alla bandiera coreana), film dal respiro epico in un quadro più vicino ai nostri giorni: si racconta infatti, con ritmo solenne, la Guerra di Corea attraverso la storia di due fratelli, il maggiore dei quali, partito con l’intento di tenere lontano il più giovane dagli orrori del conflitto, man mano che avanza verso il “cuore di tenebra” rimane preso dal ruolo di eroe e si smarrisce in questa follia. Ritroviamo il suo interprete Yang Gong-gun, uno dei volti più carismatici del nuovo Cinema Coreano (una vaga somiglianza con Martin Sheen) in “Sympathy for Mr. Vengeance” e nel bellissimo “Friend” di  Kwank Kyung-taek, altra storia di amicizie mutate e tradite nel corso degli anni, ma questa volta nel clima gangster e nello scenario metropolitano di Pusan: un film in parte autobiografico, nostalgico, dolente, che richiama alla memoria i capolavori del genere come “Mean Streets” o “C’era una volta in America”. Ambiente gangster anche per “Shiri” ancora di Kang Jae-gyn, thriller d’azione costruito su un intrigo politico e sentimentale. Affronta il genere in maniera divertente e scanzonata “Guns and Talks” di Jang Jin, che preferisce il tono della commedia. Sarcasmo anche per Kim Jee-woon che con “The Foul King” racconta la storia di un timido impiegato che diventa re del wrestling.
L’horror coreano degli ultimi anni si accosta invece a quello di Hong Kong o a quello giapponese nei pregi e nei difetti: angosce di fantasmi che si protendono verso il mondo dei vivi cercando comprensione e vendetta, ma in trame confusamente esposte a livello di sceneggiatura, che affastellano troppi elementi alla ricerca del colpo di scena. Anche qui due esempi “Two Sisters” di Kim- Ji – woon  che passa agevolmente da un genere leggero ad un horror agghiacciante per atmosfere e fantasmi della mente e “Phone” di Ahin Byeon-ki. Lasciano più perplessi gli esperimenti nel campo della fantascienza: “Natural City” di Min Bing-cheon è un clone di Blade Runner con replicanti in rivolta contro la loro data di termine, ma in un clima artefatto. Le novità, come dicevamo all’inizio di questa nostra breve guida, sono da ricercare nei sentimenti forti che si esprimono in esplosioni violente, perché questa è l’anima cupa del Cinema Coreano, lo stesso Cinema che sa anche aprire pagine di oscura poesia.
                                                                           

Gabriella Aguzzi