Titolo originale: Wu ren qu
Regia: Ning Hao
Cast: Xu Zheng, Yu Nan, Duo Bujie, Huang Bo, Wang Shuangbao, Sun Jianmin, Yang Xinmin, Guo Hong, Wang Pei, Zhao Hu, Tao Hong
Genere: Drammatico
Produzione: Cina
Anno: 2013
Durata: 118
Voto: 7
Pan Xiao, avvocato rampante e senza scrupoli, si reca nello Xinjiang per patrocinare la causa di Lao Da, accusato di aver provocato la morte di un poliziotto in seguito a un incidente stradale. Ottenuta l’assoluzione dell’imputato, si fa consegnare in pagamento la sua automobile, ignaro del fatto che quest’ultimo ha nascosto nel bagagliaio un rarissimo falcone dell’Altai, che intende recuperare a tutti i costi con l’aiuto di un complice.
La Cina non è un paese per vecchi, almeno secondo Ning Hao e il suo coeniano “No Man’s Land”, uscito nelle sale a dicembre dopo un lungo periodo di purgatorio. Terminato nel 2010, prima di “Guns and Roses”, il film è stato bloccato per tre anni dalla censura cinese la quale, oltre ad averlo definito “spazzatura”, ha accusato il regista di narcisismo, di compiacimento nel mettere in scena personaggi “depravati” e di venire meno alle responsabilità dell’artista nei confronti della società. Non è dato sapere quali tagli o modifiche abbia dovuto subire il film per ottenere il visto di censura ma, considerazioni d’ordine morale a parte, non resta che rallegrarsi del fatto che Ning Hao abbia ritrovato la vena anarcoide di “Crazy Stone” (2006) e “Crazy Racer“ (2009), rafforzandola con una robusta dose di cinismo. Malgrado le riserve del SARFT, l’ostinazione del regista è stata premiata anche dal pubblico, visto l’ottimo risultato ottenuto al box-office, che è senz’altro da attribuirsi anche alla presenza di Huang Bo e Xu Zheng, già protagonisti di “Crazy Stone” e “Crazy Racer”, ma soprattutto del grande successo del 2013 “Lost in Thailand”.
Se “Guns and Roses” era una commedia scatenata con un marcato sottotesto nazionalista, “No Man’s Land” gioca la carta del road-movie dalle atmosfere schiettamente western, alla maniera del deludente “Wind Blast” di Gao Qunshu, ibridato con il noir dei fratelli Coen. Una mossa, peraltro, già tentata da Zhang Yimou con “A Woman, a Gun and a Noodle Shop”, che reinventava a suo modo un piccolo classico come “Blood Simple”. In questo caso prevale però l’allegoria sociale, che tocca, in alcuni passaggi, inusitati livelli di nichilismo. Quella di Ning, infatti, è un’umanità assoggettata alle leggi del darwinismo sociale, abbrutita e dominata da istinti primordiali e animaleschi, in primis quello della sopravvivenza. Nessuno è innocente, nessuno può considerarsi esente dal compiere atti moralmente riprovevoli in situazioni di estrema necessità, arrivando anche all’assassinio.
Durante il suo viaggio di ritorno verso casa, il protagonista Pan Xiao investe accidentalmente il complice di Lao Da, e cerca in tutti i modi di sbarazzarsi del corpo. Purtroppo per lui, i dintorni di quell’unica autostrada che attraversa quella remota zona del Nordovest, sono popolati da una fauna repellente, l’equivalente cinese dei “redneck” semideficienti che infestano tanto horror americano. Nell’unica stazione di servizio della zona, tra cani in gabbia, galline e maiali macellati, si pratica abitualmente l’estorsione ai danni degli incauti viaggiatori, costretti a sborsare una cifra esorbitante per assistere a una squinternata esibizione di lap-dance in una roulotte. Qui Pan Xiao farà la conoscenza di Jiao Jiao, moglie del proprietario, la quale implora Xiao di aiutarla a fuggire, dato che il marito la obbliga a prostituirsi con i clienti di passaggio.
La transizione dalla civiltà alla barbarie è sottolineata dal progressivo deteriorarsi della Mustang rossa di Xiao, presa a sputi, bottigliate e colpi di martello fino a che non sarà ridotta a un rottame. In maniera consimile finiscono in una discarica le convenzioni sociali e le esili norme del vivere civile, obliterate da pulsioni assai più primitive e persistenti. Il conflitto, come più volte evidenziato negli scarni dialoghi tra Pan Xiao e Lao Da, è quello, eterno, tra “carnivori” e “vegetariani”. Due differenti tipologie di esseri umani, di cui la seconda è fatalmente destinata a soccombere. A meno che i cosiddetti “vegetariani” non riescano ad avvalersi del segno più tangibile dell’evoluzione, quello che differenzia l’uomo dall’animale, ovvero, secondo l’allegoria che apre il film, la scoperta del fuoco. E proprio il fuoco, oltre a dare la stura a numerose gag da teatro dell’assurdo su accendini persi e ritrovati, giocherà un ruolo essenziale nella risoluzione della vicenda.
Ning Hao si destreggia abilmente con la sintassi del western, alternando close-up e campi lunghi e lunghissimi, valorizzati dalla smagliante fotografia di Du Jie, componendo una dissonante ballata intrisa di humour nero sul predominio dell’istinto animale. Sulla stessa lunghezza d’onda la colonna sonora “morriconiana” di Nathan Wang, le coreografie delle scene d’azione dell’hongkonghese Bruce Law e i costumi, che allo spettatore occidentale rammenteranno inevitabilmente la saga di “Mad Max”. Huang Bo, nonostante sia ridotto a una maschera sanguinolenta, è straordinario come sempre, mentre Xu Zheng preferisce lavorare di sottrazione, sottolineando l’affrettato percorso di redenzione del suo personaggio con accenti minimali. Impressionante per carisma il tibetano Duo Bujie (Lao Da), che sembra una versione meno sociopatica dell’Anton Chigurh di Javier Bardem, e molto convincente la Jiao Jiao di Yu Nan, la quale deve però caricarsi sulle spalle un epilogo del tutto incongruo, che sembra inserito solamente per risollevare l’umore dei censori del SARFT.