Paul Morrissey, artista dello scandalo

12/06/2008

Ci sono solo due categorie di persone – ma stringiamo pure il campo: d’appassionati di cinema – a conoscere e ricordare il nome di Paul Morrissey: la prima è quella composta da cinefili d.o.c., meglio se geneticamente predisposti al cinema artie o underground, quelli che per intenderci amano citare Kenneth Anger, Frank Zappa e Harry Everett Smith fra i loro artisti prediletti; la seconda, con uno iato che non potrebbe esser più evidente, è rappresentata dagli appassionati ai film di serie C quando non, meglio (o peggio – dipende dai punti di vista), di serie Z.
Quello che, infatti, rende unica la figura di Morrissey è stata la sua capacità di fondere cinema d’autore, sperimentale e ultra-raffinato con massicce dosi di sano intrattenimento grandgruignolesco e trash, così da piacere sia agli adepti più intransigenti della Factory sia, benché più tardi, in periodo di revisionismo, ai fan dell’horror e del cinema erotico (meglio, anzi, se mescidati insieme). E ciò che ha reso possibile il miracolo, riuscito – ieri come oggi – a pochi, si ricordi almeno lo Stanley Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, fu proprio l’ambiente nel quale Morrissey s’inserì, ovvero quella fucina d’idee che, alla fine degli anni ’60, era la Factory di Andy Warhol.
Classe 1938, Paul Morrisey, dopo essersi laureato alla Fordham University, apre una sala cinematografica nell’East Side di Manhattan: qui, nel 1965, conosce Warhol, che gli affida la direzione del proprio studio cinematografico. La prima opera, realizzato dai due a stretto contatto, è Chelsea Girls del 1966: film-fiume, monstruum di lunghezza e arditezza visiva, utilizza un originale montaggio giustapposto per raccontare la vite parallele di dodici donne al Chelsea Hotel di Manhattan. Due anni dopo, nel 1968, esce Lonesome Cowboys, rilettura pop di Romeo e Giulietta trent’anni prima di Baz Luhrmann e della sua Verona Beach.
Nello stesso anno esce il primo capitolo della «trilogia junkie», Flesh, e i primi cinque minuti della pellicola cambiano radicalmente la storia del cinema: Joe Dallessandro, superstar di Andy Warhol, uomo-copertina – benché inquadrato dalla vita in giù – degli Smiths’ e dei Rolling Stones, si mostra nudo e regala allo spettatore uno dei primissimi nudi frontali maschili. Immagini impossibili nella Hollywood del codice Hayes (e anche in quella postuma), Morrisey si spinge ancora più in là di quanto persino i francesi, notoriamente più proni al nudo, avessero fatto: filma l’erezione di Dallesandro. Ed esplode lo scandalo.
Scandalo ripetuto nei successivi film della trilogia, Trash e Heat: storie centrifughe di bassa umanità newyorkese, marchettari e drogati, transessuali e travestiti, gangster e starlette promiscue; storie di ossessioni e di compromessi, i film di Morrissey ottengono due importanti effetti collaterali: sdoganano la nudità (e la rappresentazione grafica del sesso) al cinema e restituiscono alla Factory la notorietà che meritava.
Con la fama, tuttavia, arrivano le forbici della censura e – alla ricerca inesausta della libertà creativa – Paul Morrisey si sposta in Italia, dove gira altri due capolavori (beninteso, per statura storia e portata sociologica; per riflessione autoriale finanche. Certo non per qualità artistica intrinseca): Il mostro è in tavola… Barone Frankenstein e Dracula cerca sangue di vergine e morì di sete!!! (sic!), folleggianti commistioni di horror ed erotismo, portano avanti una riflessione filmica iniziata già con Chelsea Girls, quella cioè di rendere materia cinematografica – artistica, potremmo aggiungere, considerando i paralleli esperimenti pittorici e fotografici di Warhol – tutti quei brani di vita normalmente esclusi, perché ritenuti o infilmabili od offensivi. Medium disponibile ad accettare i registri alti e medi, il cinema scopre il basso, il comico dantesco-medievale, il carnascialesco, il grottesco ed il grandgruignol.
Anche quando diviene gioco scanzonato, il cinema di Morrisey non dimentica mai questo intento principe, questa «crociata» di filmare l’infilmabile, di narrare non-storie di vita quotidiana, episodi senza collante, deragliamenti dell’immagine e della parola. Basti citare la già menzionata scena d’apertura di Flesh: Joe Dallesandro e Geraldine Smith sono a letto, abbozzano dei preliminari, si toccano, parlano della spesa e del bucato, della necessità di trovar dei soldi; la donna, per gioco, avvolge un calzino attorno al pene di Dallesandro che, qualche istante dopo, di nuovo interamente nudo, gioca con una bambina d’appena un anno (nella realtà, figlia proprio della Smith).
Quasi dieci anni più tardi, nel 1976, L’ultima donna di Ferreri scatenò le ire dei benpensanti, le maglie della censura, persino gli strali del Papa, per una scena simile, in cui Gerard Depardieu, nudo, tiene fra le braccia un bambino mentre Ornella Muti si spoglia. Basta questo solo esempio per evidenziare non solo come i film di Paul Morrissey abbiano ridefinito il comune senso del pudore al cinema, ma anche – e forse soprattutto – abbiano testimoniato un’epoca di sperimentazione concettuale e di libertà artistica ancora oggi insuperata e, forse, irrecuperabile.

Andrea Morstabilini