Gigi Meroni, la Farfalla Granata

09/12/2013

“Il ragazzo crescerà, anche se ha le spalle strette, quest'altr'anno giocherà con la maglia numero sette”
Oggi, probabilmente, se dici “numero 7” i più penseranno a Cristiano Ronaldo. Ma se la stessa suggestione l'avanzi sotto la Mole, sponda torinista, saranno ancora in tanti a rispondere subito “Gigi Meroni”
Anche la televisione ultimamente è tornata ad occuparsi della  “farfalla granata” (bello lo speciale “Sfide”, pessima la fiction, piena di errori storici e calcistici) ma l'impressione è che, se per i tifosi del Toro Gigi è un Mito da sempre, per molti giovani c'è ancora tanto da scoprire, per innamorarsene.
Luigi Meroni nasce a Como il 24 febbraio 1943. Orfano di padre, cresce con la madre, il fratello e la sorella in condizioni economiche piuttosto precarie. Due sono i suoi sfoghi: dipingere e giocare a pallone. Comincia a farlo sul campetto dell'oratorio, per poi passare alle giovanili del Como, dove cresce.

Luigino è un ragazzo mingherlino, ma molto agile : nel 62 il Genoa lo nota e lo acquista lanciandolo nella serie A ( a cui si era appena affacciato coi lariani). Sotto la Lanterna il giovane Meroni si fa subito apprezzare per i suoi dribbling entusiasmanti, tanto che, quando nel 64 il Torino lo acquista, lo fa per una cifra per l'epoca esorbitante: 300 milioni di lire. E il ragazzo ha solo 21 anni.
Furono, del resto, 300 milioni ben spesi, per un Toro in fase di rilancio, guidato dal grande Nereo Rocco. Gigi gioca 103 partite realizzando, da ala destra, 24 reti. Ma non sono solo i gol: è lo stile. Lieve e insieme straripante, ubriaca le difese avversarie con le sue discese, le sue finte e i sui dribbling: ma mai giochetti di prestigio fini a se stessi, i suoi sono coraggiosi uomo contro uomo. Meroni è un artista del gol, ma anche e soprattutto degli assist (con Combin anticipa la “coppia del gol” Pulici-Graziani, facendolo segnare a raffica), è “genio e sregolatezza” ma al servizio della squadra. Calciatore e amico sincero, giocatore moderno che non sfigurerebbe affatto in una squadra dei giorni nostri.
L'unico insuccesso sportivo, che lo vede assolutamente incolpevole, è l'avventura con la Nazionale italiana. Il commissario tecnico Edmondo Fabbri, per qualche incomprensibile ragione, non lo ama e quando ai Mondiali del 66 la squadra scende in campo contro la Corea del Nord, Meroni fa panchina. Termina, come è noto, con la nostra sconfitta per 1-0 e l'eliminazione dal torneo.
Le quotazioni dell'ala però non scendono, tanto che il presidente del Torino è tentato di cederlo, per la seguente stagione, alla rivale Juventus per ben 750 milioni: una sorta di sollevazione popolare lo farà desistere dall'intento, e Gigi potrà restare  una bandiera granata.

Ma a rendere indimenticabile il Meroni calciatore contribuisce anche il Meroni uomo. Gigi è colto  (legge molto e scrive pure poesie), un raffinato, uno che ascolta musica jazz, un vero artista (oggi i suoi quadri sono molto richiesti). Uno stilista del calcio, uno stilista del design di moda. Il suo primo lavoro è stato disegnare cravatte di seta. Ora passa addirittura agli abiti: quelli che indossa, così colorati e stravaganti, sono opera sua. Quegli abiti anticonformisti e quel taglio di capelli “alla Beatles”, i baffi sottili e moderni (in un'epoca in cui si poteva giocare a calcio senza dover prima passare dal parrucchiere e dal tatuatore!) gli valgono l'appellativo di “beatnik del gol”. Ma più che un beatnik, Meroni è un bohemien. Si è innamorato di Cristiana Uderstadt, ma la famiglia di lei l'ha spinta a sposare un altro uomo. Cristiana, sagacemente, non si è concessa al marito per poter ottenere l'annullamento dalla Sacra Rota. In attesa dell'annullamento, i due vivono more uxorio in una soffitta in Piazza Vittorio, nel cuore di Torino: una storia che porta Gigi dalle cronache calcistiche a quelle rosa, suo malgrado, e che ancora oggi ammanta di romanticismo la sua figura. Hanno anche un animale da compagnia, che portano a spasso al guinzaglio: una gallina. Unico.

Il 15 ottobre 1967 il Torino batte la Sampdoria 4-2, con gol di Moschino e tripletta di Nestor Combin. La settimana seguente ci sarà il derby. Meroni dice al compagno“ domenica farai  ancora tripletta”. Scherzano. Festeggiano. Di solito, dopo le partite, c'è il ritiro, ma stavolta viene loro concesso di tornare a casa prima. Gigi non ha le chiavi. Con l'amico Poletti attraversa corso Re Umberto per andare a telefonare a Cristiana. Mentre attraversa si ferma sullo spartitraffico e fa un passo indietro per far passare un'auto. Viene urtato, sbalzato per terra e travolto da un'altra vettura che sta sopraggiungendo. Muore poco dopo, alle 22.40, all'ospedale Mauriziano, per trauma cranico e frattura del bacino. Tragica ironia della sorte, la macchina che lo ha colpito gettandolo a terra sotto le ruote dell'altra automobile è guidata da un suo fan sfegatato...
La città si ferma per i funerali. Il derby verrà giocato in un clima surreale. Il Toro stravince. Combin firma proprio un'altra tripletta. La quarta rete la segna Alberto Carelli che quel giorno indossa  la maglia n.7 e che dopo il gol solleva la palla al cielo...
La domanda che viene da porsi è: se non fosse morto così presto e così tragicamente, lo ricorderemmo ancora? Sicuramente non sarebbe divenuto una Leggenda. Forse se lo ricorderebbero solo i tifosi irriducibili (lo sport è fatto così: scolpisce in alcuni cuori nomi ed immagini, ma spazza via anche i più bravi dalla mente dei più, in un frenetico avvicendarsi di nuovi idoli e nuovi record). Ma probabilmente sarebbe divenuto ancora più grande, e chissà quante pagine di storia calcistica avrebbe potuto scrivere. Ma  il destino ha voluto che la sua immagine restasse fissa per sempre in questa icona di “farfalla”, di ennesimo “bello e dannato”. Forse a questo artista ribelle la cosa non sarebbe nemmeno dispiaciuta.

Elena Aguzzi