Il ballo di Alida Valli

16/05/2008

E così la nostra Alida Valli ha compiuto 80 anni. “Nostra” per molti italiani, in particolare per quelli che – anno più anno meno – appartengono alla sua generazione, e dunque anche “mia”, che mi ostino inoltre a credere in qualche affinità, magari derivabile dal comune segno zodiacale dei Gemelli, forse in memoria di adolescenziali emozioni, non certo frutti di un’educazione “romantica ed edulcorata” che avrebbe trovato rappresentanza nella “docile Alida, giovinetta languida e pieghevole”, come la definì Claudio Carabba ne “Il cinema del ventennio nero”. Il cinema di quel ventennio offrì alla Valli tali e tante occasioni da costarle, con la fama, anche pesanti diffamazioni, mai provate. L’esperienza americana del dopoguerra, poi, nonostante il successo di critica e di pubblico, la fece sentire “un oggetto telecomandato”: queste e altre dichiarazioni, la denotano sempre attenta e controllata, a volte amara….”sono rimasta sola”; riconoscente alla gente che l’ha amata e ancora l’ama; tutt’ora impegnata tra cinema e teatro, anche se…”adesso faccio troppa fatica”; cosciente della propria limpidezza…”non ho paura di morire, non mi sento colpevole di nulla”.

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Com’è vero! Niente ha potuto scalfire le congenite forza e innocenza di Alida che è proprio senza peccati, arrivando alle interpretazioni di personaggi tortuosi, pensati e diretti da Hitchcock e da Welles, da Visconti e Antonioni, creati da Ibsen, Pirandello, Genet, O’Neill con lo stesso sguardo chiaro al di là del bene e del male che ci incantò in “Piccolo mondo antico” e, ancora prima, in “Ballo al castello”. Chi la ricorda più, la trama, incentrata su una ragazza modesta che, per un malinteso, riceve un invito da favola e ottiene poi una parte importante nel mondo dello spettacolo? La locandina -  naturalmente i bianco e nero, come il film – era appesa ai corrimano di alluminio del tram 20 che, nel 1939, mi portava dalla mia casa milanese di Corso Buenos Aires a quella di mia nonna, Via Cernuschi, una piccola traversa tra Viale Premuda e Viale Bianca Maria. Un nome a me sconosciuto, quello di Alida Valli, affiancato da quello di Andrea Checchi, sovrastava l’immagine radiosa a mezzo busto di una fanciulla biancovestita, un fiore bianco nei capelli biondi. I capelli portati così, lisci e spioventi sulla guancia destra, rialzati sopra l’orecchio sinistro, con o senza fiore, li avremmo poi chiamati “all’Alida Valli” finché, a guerra finita, ci dissero che erano “alla Veronica Lake”….

Ma voglio dire di quando, nel ’41, molte scene del “Piccolo Mondo Antico” di Fogazzaro furono girate a Milano con la regia di Mario Soldati. L’aiuto-regista era Dino Risi, che conoscevo perché abitava nella stessa casa di mia nonna e che un po’ mitizzavo, bello estroverso sorridente sicuro come appariva, ma anche a causa della sua appartenenza a una famiglia eccezionale di medici, artisti, poeti, non ricchi di denaro, ma sicuramente di talento, generosità, altruismo. La madre, una dolcissima signora Giulia, mi dotò l’infanzia di suggestivi libri di favole; la sorella Mirella mi vestì le bambole come poi vestì la Milano-bene; il fratello Nelo – sembrava il più serio e riflessivo – era seguace di Esculapio nella scia del padre (morto giovane) e di Dino, prima di darsi a sua volta alla 7 musa e, poi, alla Poesia. Zii e cugini, anch’essi abitanti nello stesso stabile, avevano un bel giardino che mio nonno, pensionato, a volte curava.

In quel giardino fu offerto quello che adesso chiameremmo party d’addio al cast del concluso “Piccolo mondo antico”. Da una finestra vidi scendere da un paio di automobili – allora infrequenti – gente avviata alla celebrità: Soldati, Ponti, Ferreri e lei, la mitica Alida che, si diceva, era l’innamorata di Dino. Era il pomeriggio di un bel giorno di primavera. Il pergolato denso di glicine giovò alla discrezione del trattenimento del quale captai suoni di risate e di voci, tra le quali riconobbi quella, inconfondibilmente bassa e musicale, della giovane diva e , tra le altre di accento padano, le altrettanto milanesi ma dalla “erre” francese dei Risi. Non mi sarei mai staccata dalla finestra peraltro schermata dalle persiane a non farmi parere “sfacciata”, così come aveva bruscamente detto la nonna, invitandomi ad avviarmi alla vicina fermata del tram che mi avrebbe riportata a casa prima che la sera scendesse. Uscii dal portone senza girarmi e men che meno sostare lungo la siepe limitante il giardino dove, certo, stavano per accendere i lampioncini giapponesi che avevo visto appendere e da dove proveniva una musica struggente che non conoscevo: chitarra, grammofono?

Nella vettura del solito 20, seduta accanto al finestrino, guardavo ancora una volta le visuali del tragitto che conoscevo a memoria. Per al prima volta non ebbi il desiderio di raggiungere in fretta la mamma per ritrovare con lei il vecchio gioco che, sole com’eravamo, ci faceva amiche e confidenti e complici di sogni, breve com’era il divario delle nostre età. Tornare indietro e chiedere a nonna e zia…sole anche loro, ma così vecchie e tristi come mi parevano dopo la morte del nonno…di stare lì per quella sera e continuare a “spiare” i rumori della festa? No, in altre occasioni sarebbero state contente di trattenermi, ma ora mi avevano ben detto “Vai, vai. Non metterti idee strane sotto le trecce!”

Non ho ami coltivato “idee strane”, ma volli tagliarmi le trecce e pettinarmi all’Alida Valli come, del resto, mi consentivano i capelli biondi e lisci. E cominciai a disegnare castelli neo-gotici copiandoli dalle fotografie di quelli del re Ludwig. Non ho perseguito “idee strane” neppure vedendo decine e decine di film in terza visione al cinema Argentina ch’era sotto casa, frequentato comunque da gente perbene, e da due giovani donne non accompagnate quali eravamo mia madre ed io, divenute grandi estimatrici della nostra diva nazionale. Non ho nutrito e non nutro – adesso men che meno – “idee strane”. Neppure quando ho ritrovato comunione d’interessi con Nelo Risi, che mi parla anche di Dino facendomi sentire di famiglia nella rievocazione di ricordi comuni e in argomenti quali poesia e cinema.

Non c’è stata occasione di dirci di Alida Valli. Ma mi ha interessato un’intervista di Dino, in occasione della morte di Mario Soldati: con altri episodi, ha raccontato di quando, a conclusione del comune impegno in Piccolo Mondo Antico, Alida gli disse teneramente “Ci vediamo domani” e partì per Roma. L’avrebbe rivista solo trent’anni dopo. Era stata dopo la festa in giardino di quella sera, la partenza?

I flash su fatti e persone lontani nel tempo tornano alla memoria con la tenerezza delle sensazioni infantili e adolescenziali. Con sfocate visioni in bianco-nero rivedo la tenera attrice arrivare al cancello dove un altrettanto giovane  e bello aiuto-regista la prende per mano. Per entrambi c’è un destino di successo artistico, di amori, matrimoni, figli. Destini separati, però.

Altro flash su una bambina che a nove anni s’è invaghita dell’idea di un ballo al castello e a undici ha visto una fata attesa da un principe. Ha comunque dato retta alle ragionevoli esortazioni di una nonna amorosamente brusca: “Quella diva è già nata di suo, è la baronessina Alida von Altenburger e di castelli ne ha già frequentati. Quanto a te, senza più il tuo papà e con una mamma un po’ sventata tra cinema e libri, è già molto poter contare sulla casetta nell’altopiano che ti lascerò e sul castello che potrai vedere, sì dal basso, ma che non ne’ di carta ne’ di celluloide”. Savie parole! Ma il castello reale sulla cima della collina plumbiense ha perso il fascino del mistero sfumato tra il grigio delle pietre e lo scuro della selva. L’illuminazione violenta sugli intonaci sgargianti e la facilità d’accesso su strade asfaltate sfaterebbero l’incanto persino alla nostra Alida, più adatta al bianco e nero che non al technicolor.

Giuseppina Ferazza