E così la nostra Alida Valli ha compiuto 80 anni. “Nostra”
per molti italiani, in particolare per quelli che – anno più anno meno –
appartengono alla sua generazione, e dunque anche “mia”, che mi ostino inoltre
a credere in qualche affinità, magari derivabile dal comune segno zodiacale dei
Gemelli, forse in memoria di adolescenziali emozioni, non certo frutti di
un’educazione “romantica ed edulcorata” che avrebbe trovato rappresentanza
nella “docile Alida, giovinetta languida e pieghevole”, come la definì Claudio
Carabba ne “Il cinema del ventennio nero”. Il cinema di quel ventennio offrì
alla Valli tali e tante occasioni da costarle, con la fama, anche pesanti
diffamazioni, mai provate. L’esperienza americana del dopoguerra, poi, nonostante
il successo di critica e di pubblico, la fece sentire “un oggetto
telecomandato”: queste e altre dichiarazioni, la denotano sempre attenta e
controllata, a volte amara….”sono rimasta sola”; riconoscente alla gente che
l’ha amata e ancora l’ama; tutt’ora impegnata tra cinema e teatro, anche
se…”adesso faccio troppa fatica”; cosciente della propria limpidezza…”non ho
paura di morire, non mi sento colpevole di nulla”.
* * * * *
Com’è vero! Niente ha potuto
scalfire le congenite forza e innocenza di Alida che è proprio senza peccati,
arrivando alle interpretazioni di personaggi tortuosi, pensati e diretti da
Hitchcock e da Welles, da Visconti e Antonioni, creati da Ibsen, Pirandello,
Genet, O’Neill con lo stesso sguardo chiaro al di là del bene e del male che ci
incantò in “Piccolo mondo antico” e, ancora prima, in “Ballo al castello”. Chi
la ricorda più, la trama, incentrata su una ragazza modesta che, per un
malinteso, riceve un invito da favola e ottiene poi una parte importante nel
mondo dello spettacolo? La locandina - naturalmente i bianco e nero, come il film – era appesa ai corrimano di
alluminio del tram 20 che, nel 1939, mi portava dalla mia casa milanese di
Corso Buenos Aires a quella di mia nonna, Via Cernuschi, una piccola traversa
tra Viale Premuda e Viale Bianca Maria. Un nome a me sconosciuto, quello di
Alida Valli, affiancato da quello di Andrea Checchi, sovrastava l’immagine
radiosa a mezzo busto di una fanciulla biancovestita, un fiore bianco nei
capelli biondi. I capelli portati così, lisci e spioventi sulla guancia destra,
rialzati sopra l’orecchio sinistro, con o senza fiore, li avremmo poi chiamati
“all’Alida Valli” finché, a guerra finita, ci dissero che erano “alla Veronica
Lake”….
Ma voglio dire di quando, nel
’41, molte scene del “Piccolo Mondo Antico” di Fogazzaro furono girate a Milano
con la regia di Mario Soldati. L’aiuto-regista era Dino Risi, che conoscevo
perché abitava nella stessa casa di mia nonna e che un po’ mitizzavo, bello
estroverso sorridente sicuro come appariva, ma anche a causa della sua
appartenenza a una famiglia eccezionale di medici, artisti, poeti, non ricchi
di denaro, ma sicuramente di talento, generosità, altruismo. La madre, una
dolcissima signora Giulia, mi dotò l’infanzia di suggestivi libri di favole; la
sorella Mirella mi vestì le bambole come poi vestì la Milano-bene; il fratello
Nelo – sembrava il più serio e riflessivo – era seguace di Esculapio nella scia
del padre (morto giovane) e di Dino, prima di darsi a sua volta alla 7 musa e,
poi, alla Poesia. Zii e cugini, anch’essi abitanti nello stesso stabile,
avevano un bel giardino che mio nonno, pensionato, a volte curava.
In quel giardino fu offerto
quello che adesso chiameremmo party d’addio al cast del concluso “Piccolo mondo
antico”. Da una finestra vidi scendere da un paio di automobili – allora
infrequenti – gente avviata alla celebrità: Soldati, Ponti, Ferreri e lei, la
mitica Alida che, si diceva, era l’innamorata di Dino. Era il pomeriggio di un
bel giorno di primavera. Il pergolato denso di glicine giovò alla discrezione
del trattenimento del quale captai suoni di risate e di voci, tra le quali
riconobbi quella, inconfondibilmente bassa e musicale, della giovane diva e ,
tra le altre di accento padano, le altrettanto milanesi ma dalla “erre”
francese dei Risi. Non mi sarei mai staccata dalla finestra peraltro schermata
dalle persiane a non farmi parere “sfacciata”, così come aveva bruscamente
detto la nonna, invitandomi ad avviarmi alla vicina fermata del tram che mi
avrebbe riportata a casa prima che la sera scendesse. Uscii dal portone senza
girarmi e men che meno sostare lungo la siepe limitante il giardino dove, certo,
stavano per accendere i lampioncini giapponesi che avevo visto appendere e da
dove proveniva una musica struggente che non conoscevo: chitarra, grammofono?
Nella vettura del solito 20, seduta accanto al finestrino,
guardavo ancora una volta le visuali del tragitto che conoscevo a memoria. Per
al prima volta non ebbi il desiderio di raggiungere in fretta la mamma per
ritrovare con lei il vecchio gioco che, sole com’eravamo, ci faceva amiche e
confidenti e complici di sogni, breve com’era il divario delle nostre età.
Tornare indietro e chiedere a nonna e zia…sole anche loro, ma così vecchie e
tristi come mi parevano dopo la morte del nonno…di stare lì per quella sera e
continuare a “spiare” i rumori della festa? No, in altre occasioni sarebbero
state contente di trattenermi, ma ora mi avevano ben detto “Vai, vai. Non
metterti idee strane sotto le trecce!”
Non ho ami coltivato “idee
strane”, ma volli tagliarmi le trecce e pettinarmi all’Alida Valli come, del
resto, mi consentivano i capelli biondi e lisci. E cominciai a disegnare
castelli neo-gotici copiandoli dalle fotografie di quelli del re Ludwig. Non ho
perseguito “idee strane” neppure vedendo decine e decine di film in terza
visione al cinema Argentina ch’era sotto casa, frequentato comunque da gente perbene,
e da due giovani donne non accompagnate quali eravamo mia madre ed io, divenute
grandi estimatrici della nostra diva nazionale. Non ho nutrito e non nutro –
adesso men che meno – “idee strane”. Neppure quando ho ritrovato comunione
d’interessi con Nelo Risi, che mi parla anche di Dino facendomi sentire di famiglia nella rievocazione di
ricordi comuni e in argomenti quali poesia e cinema.
Non c’è stata occasione di dirci
di Alida Valli. Ma mi ha interessato un’intervista di Dino, in occasione della morte
di Mario Soldati: con altri episodi, ha raccontato di quando, a conclusione del
comune impegno in Piccolo Mondo Antico, Alida gli disse teneramente “Ci vediamo
domani” e partì per Roma. L’avrebbe rivista solo trent’anni dopo. Era stata
dopo la festa in giardino di quella sera, la partenza?
I flash su fatti e persone
lontani nel tempo tornano alla memoria con la tenerezza delle sensazioni
infantili e adolescenziali. Con sfocate visioni in bianco-nero rivedo la tenera
attrice arrivare al cancello dove un altrettanto giovane e bello aiuto-regista la prende per mano. Per
entrambi c’è un destino di successo artistico, di amori, matrimoni, figli.
Destini separati, però.
Altro flash su una bambina che a
nove anni s’è invaghita dell’idea di un ballo al castello e a undici ha visto
una fata attesa da un principe. Ha comunque dato retta alle ragionevoli
esortazioni di una nonna amorosamente brusca: “Quella diva è già nata di
suo, è la baronessina Alida von Altenburger e di castelli ne ha già
frequentati. Quanto a te, senza più il tuo papà e con una mamma un po’ sventata
tra cinema e libri, è già molto poter contare sulla casetta nell’altopiano che
ti lascerò e sul castello che potrai vedere, sì dal basso, ma che non ne’ di
carta ne’ di celluloide”. Savie parole! Ma il castello reale sulla cima della
collina plumbiense ha perso il fascino del mistero sfumato tra il grigio delle
pietre e lo scuro della selva. L’illuminazione violenta sugli intonaci
sgargianti e la facilità d’accesso su strade asfaltate sfaterebbero l’incanto
persino alla nostra Alida, più adatta al bianco e nero che non al technicolor.