Ma lo chiamavano Signor G. I suoi spettacoli lui li chiudeva sempre imbracciando la chitarra acustica e riandando ai primi successi, rimasti indelibili nell’immaginario collettivo, per compiere quella che, con la sua inseparabile ironia, amava definire “una deplorevole operazione di nostalgia”. Ma erano proprio quelle canzoni che il suo pubblico aspettava, per ricordarle a memoria, anche a distanza di quarant’anni: Porta Romana, La Balilla, Torpedo Blu, E allora dai, La Ballata del Cerutti (che aveva scritto per il Cerutti Gino che gli aveva rubato una lambretta), Barbera e Champagne, il Riccardo... Le canzoni che ascoltavamo sui 45 giri in vinile, quelle scritte con Umberto Simonetta (la più divertente era “Il Sospetto”, la più poetica “Le nostre serate”). Per alcuni di noi significavano l’infanzia, per altri, di quel pubblico un po’ attempato che cantava in coro, coincidevano con i primi maldestri corteggiamenti, si erano innamorati ascoltandole. Tutto quel pubblico l’ha pianto dieci anni fa e lo ricorda ancora, con immutato affetto, oggi, a dieci anni dalla scomparsa, perché gli mancano la mimica, la voce, il sorriso di Giorgio Gaber, e anche perché la morte di un cantautore, forse più di ogni altra, si porta via ondate di ricordi, scanditi sul ritmo delle sue canzoni. Già la Milano che Gaber cantava, quella dei cortili larghi e fatti a sassi e dei bar del Giambellino, se ne era andata da un pezzo. Non si passa più la sera “scolando barbera nel trani a gogo”, si va al pub, e lì non ce lo trovi “il Riccardo che da solo gioca al bigliardo”. Non c’è più il cinemino di Porta Romana “due film in una volta cento lire”, però ci sono le multisale. Non stiamo neanche a parlare di Balilla e di Lambrette. Poi, dopo “el nost Milàn”, se ne sono andate pure le utopie. Io Gaber me lo ricordo al Palazzetto di via Ferrabini a Lodi, all’epoca in cui aveva inventato il Signor G.: la sua faccia sbucava da buio, metà e metà: “Io mi chiamo G.”, “io mi chiamo G.”, e partiva lo spettacolo. Monologhi alternati a canzoni, insomma quel Teatro Canzone che era un genere tutto suo e che solo lui sapeva rendere tanto divertente (ve lo ricordate “Oh mamma!”?) Si era agli inizi degli Anni Settanta e lui cantava “I Borghesi”, “La Chiesa si rinnova”, “La Strada”. Erano gli anni della rabbia politica, ma quella di Gaber si trasfigurava in ironia, che non risparmiava nessuno e che lo rendeva unico. L’ho visto ancora a teatro tante altre volte, compreso quell’esilarante “Aspettando Godot” in coppia con Enzo Jannacci, l’altro pezzo dei Jaga Brothers. Ma nel suo Teatro Canzone, da sempre scatenato contro tutti i luoghi comuni, nel suo viaggio tra i disinganni e i tic umani, si era fatto via via più amaro, disilluso, caustico. “Il sogno si è rattrappito” diceva nell’ultimo disco intitolato, non a caso, “La mia generazione ha perso”. Forse quel suo pubblico sugli “anta” si sentiva un po’ come “l’uomo che perdeva i pezzi”, continuando a “far finta di essere sani”. Beh… quasi quasi mi faccio uno shampoo.