L'Ultimo Re

25/03/2013

Immagini contrastanti. Il “prince charming” delle favole, bellissimo e gaudente, tanto amato dagli italiani- e, soprattutto, dalle italiane – quanto odiato da Mussolini. L' uomo e il soldato rigoroso, disciplinato, che anteponeva il dovere e la Nazione a ogni interesse personale ed affetto ( i suoi motti: “l'Italia, innanzitutto” e “in casa Savoia si regna uno alla volta”). E infine il Re in esilio, ammalato di “saudade”, malinconico e un po' amaro.
E poi quell'immagine tutta mia: un bell'uomo anziano, alto, che sorride pacifico e gentile, con mani fini ma segnate dall'età, che si china su una bambina e mormora “Ti chiami Elena come mia mamma”. Era il Re. Senza più corona, ma sempre il Re.
I miei genitori erano di fede monarchica. Sulla parete della sala c'era una foto firmata, con dedica: rappresentava un uomo di mezz'età dal bel profilo nobile che guardava nostalgico verso lontani orizzonti, il Re in esilio. Non poteva tornare nella sua terra, nemmeno trent'anni dopo la fine della guerra (una guerra che, tra l'altro, non aveva voluto e che aveva combattuto accanto agli “alleati liberatori”) e l'unico modo per essere in contatto con lui era scrivergli delle lettere. Lettere alle quali lui, cortesemente, rispondeva sempre, mandando puntuale gli auguri di Natale. Nostro tramite era il fido Ministro della Real Casa, dal pittoresco nome di Falcone Lucifero. Per il mio decimo compleanno mi fece arrivare un piccolo regalo del Re: un ritratto della madre, la Regina Elena.
Ma per incontrare Sua Maestà avremmo dovuto recarci fino a Cascais, e negli anni '70 non era tanto agevole e economico andare dall'Italia al Portogallo con tre bambine al seguito, e i miei ci avevano sempre rinunciato.
Finalmente un anno – l'anno dopo – il Re si recò per una breve vacanza sulla Costa Azzurra, ospite di un amico conte. Era l'occasione per molti italiani di poterlo incontrare. E così fu per noi. Lucifero ci fissò un incontro (un'udienza!). Partimmo la sera prima e dormimmo a Nizza. Almeno: io non dormii per nulla, eccitata all'idea dell'incontro del giorno dopo. La mattina seguente raggiungemmo Cap Ferrat. Ricordo ancora un giardiniere che, indicandoci la villa, esclamò entusiasta “Le Roi! Le Roi d'Italie!”. E finalmente eccoci. Era in piedi, un'elegante figura un po' ieratica, ma cordiale. Ricordo però più i dettagli, come i gemelli che aveva ai polsini della camicia, che la sostanza di ciò che diceva: ero troppo giovane, e soprattutto troppo stordita, per fermare nella mente le sue parole. Che comunque erano tutte rivolte ai miei genitori: non parlava di sé, chiedeva di loro, si interessava. Poi salutò noi ragazze, una a una. Credo che mi chiese come andava la scuola (che quel giorno stavo “bigiando” per lui!): per un attimo non lo vidi come un Re, ma come un nonno. Poi mi chiese come mi chiamavo, e sospirò “Elena, come mia mamma”. Sospirò poi ancora un'ultima volta quando ci congedò: “Salutatemi la mia  Italia”. Non rivide più la sua Italia.
Io lo rividi otto anni più tardi, al suo funerale. Il principe azzurro, il generale, il Re in esilio, il nonno affettuoso. 30 anni dopo è ancora lì, ad Altacomba, in Haute Savoie, e non dove dovrebbe, nel Pantheon.

Elena Aguzzi