Nei miei primissimi anni di vita, ero piuttosto indecisa su cosa avrei fatto da grande. Mi sarebbe piaciuto fare l'insegnante, o il capitano di lungo corso, o il generale (una poi è stata la strada che ho realmente intrapreso, indovinate quale). Ma il 20 luglio 1969 divenne chiaro cosa avrei voluto fare nella vita: l'astronauta. Con me, penso, almeno un altro miliardo di bambini e ragazzi.
Ci rimasi piuttosto male quando venni a sapere che fare l'astronauta significava essere, in pratica, uno scienziato, sottoposto però a uno stress fisico da marine, che avrebbe dovuto allenarsi a restare senza forza di gravità per diverso tempo, mangiando poltiglie liofilizzate ed evacuando chissà come e, soprattutto, che sulla luna sarebbe andato chissà mai quando: ho conosciuto, poi, un paio di astronauti, ma viaggi interstellari non ne hanno mai fatti. Ci rimasi male, ma non mi importava: finché non mi scontrai con l'evidenza (mi ha creato qualche difficoltà il solo prendere la patente B), coltivai questo sogno. Per me solo il suono della parola “astro-nauta” evoca gli spazi siderali, il silenzio, le stelle più vicine e la terra così lontana, quel senso di solitudine e sospensione che in qualche modo si prova quando sei sott'acqua, immerso in un altro profondo blu, solo che qui le atmosfere ti pesano addosso come macigni, mentre là sei infinitamente leggero. Immaginavo poi quell'eccitante, spaventosa sensazione di scendere dalla navetta spaziale e sentire solo il mio respiro ritmato (come in quella scena di 2001 Odissea nello spazio, avete presente?) e temere che un passo falso avrebbe potuto lanciarmi per sempre nel vuoto, insignificante meteora persa nell'universo.
Quel 20 luglio di 50 anni fa eravamo tutti incollati di fronte ai nostri primitivi televisori in bianco e nero (chissà un evento del genere con la tecnologia audiovisiva di oggi cosa sarebbe!) e palpitavamo insieme a Neil Armstrong mentre lasciava la celeberrima impronta sulla luna. Oggi qualche bastardo pretende che fosse tutto un fotomontaggio, guardate la bandiera come sventola sbagliata. Può anche essere, ma mi importa ancora meno del sapere che gli astronauti non vanno sulla luna: Neil Armstrong ci è andato, ed è stato il secondo Armstrong da me amato all'età di 5 anni (l'altro era Satchmo). 15 anni dopo l'ho anche visto (l'astronauta, non il jazzista, ormai morto da un pezzo), in lontananza. È bello sapere che un tuo mito è fatto di carne ed ossa.
Da quel 20 luglio (in realtà anche da prima, però allora si scatenarono) tutti i film e i romanzi di fantascienza parlavano di viaggi interstellari, di creature che venivano dalla luna o da marte, immaginavano macchine volanti e colonie lunari (però, una bella idea: io ci farei un penitenziario, come hanno fatto due secoli fa gli inglesi con l'Australia). Finché, negli anni '80, dopo che furono venduti (ricordate?) biglietti turistici per viaggi sulla luna da fare nel 2000 (davvero! C'è chi li ha comprati, povero fesso!), qualcuno deve essersi reso conto che l'universo poteva essere esplorato con più economiche sonde, e il denaro risparmiato poteva essere utilizzato diversamente.
Oggi la luna è il solito buon vecchio faccione un po' stupito che influenza le maree, scatena i lupi mannari e rischiara gli innamorati. Però a volte mi sogno ancora di esplorare i suoi crateri e le sue valli e mi chiedo: cosa ci sarà là dietro, nella faccia che non vediamo mai?
Forse tutto ciò che abbiamo perduto.