Grazie Gygax

03/05/2008

Il primo libro che lessi, da bambino, fu una bella versione cartonata de Il giglio nero, scritto a sei mani da Marion Zimmer Bradley, Julian May e Andre Norton: lo trovai in un’assai poco fornita cartolibreria, sperduta in un paesino dell’hinterland milanese dove allora lavorava mio padre. Quel romanzo ebbe tre effetti su di me: in primo luogo, mi avviò alla lettura; mi fece inoltre imparare il significato della parola “lungimirante” e, infine, mi spinse ad entrare di nuovo in una libreria per cercare altre opere simili.
Fu quindi la volta de I draghi del crepuscolo d’autunno, di Margaret Weis e Tracy Hickman: in una delle ultime pagine del volume, c’era una sorta di disclaimer – a metà fra il pubblicitario e i soliti ringraziamenti da postfazione – che ricordava come il mondo di Dragonlance fosse nato, prima di tutto, come ambientazione per un gioco di ruolo, Dungeons & Dragons.
Avevo appena dodici anni e, allora, il termine gioco di ruolo non aveva significato per me: ricordavo, però, di averlo già incontrato, nel manuale di un boardgame molto in voga all’epoca, Heroquest, che proprio su Dungeons & Dragons si era basato ed ispirato. Così, prendendo come segno del destino quel secondo incontro fortuito, costrinse i miei genitori ad una lunga peregrinazione fra tutti i negozi di giocattoli che conoscevo, per cercare che cosa fosse mai quel gioco di ruolo di cui avevo letto, ma nulla conoscevo.
In un negozietto che oggi non esiste più, sostituito da una farmacia alternativa d’ispirazione orientaleggiante, trovai la famigerata Scatola Rossa che, oggi, non può che far suonare campanelli di malinconia in tutti coloro che si sono avvicinati al gioco di ruolo nei primissimi anni ’90. Il vero nome di quella scatola era, ed è, Basic Set e conteneva le regole fondamentali del gioco e le istruzioni per gestire personaggi dal primo al terzo livello. In afosi pomeriggi d’estate, seduti a terra sul fresco pavimento di un garage, io e un gruppo di compagni di scuola creammo i nostri personaggi – non ricordo, purtroppo, nemmeno il nome di quel mio primo Mago – e giocammo l’avventura base contenuta nella scatola.
Fu il nostro Master d’allora, che non vedo più da quell’estate o poco oltre, durante una gita a Milano, a reperire l’Expert Set, che ci avrebbe permesso di traghettare i nostri personaggi fino al quattordicesimo livello.
Ricordo ancora vividamente quelle prime, ancorché rudimentali, esperienze di gioco: ricordo l’ansia d’ogni porta aperta nel sotterraneo, lo scappare dai nemici troppo potenti e la trepidazione nell’aprire i polverosi forzieri dei tesori. Lasciate che racconti una scena: debellata la minaccia di quattro grossi ragni pelosi, il manipolo d’eroi s’avvicina alla nicchia nel muro e scosta il pesante arazzo che nasconde il tesoro alla vista. Il Mago Senza Nome, con aria di superiorità un po’ snob, guarda dall’alto in basso i suoi compagni d’avventura e, con occhio esperto, soppesa i calici d’argento, gli anelli ingemmati e le consunte pergamene.
«Ecco!» esclama trionfante, dopo aver passato le mani sopra il piccolo cumulo d’oro e gioielli. «Sento un grande potere fluire da quest’anello» dice in sussurro che il giocatore vorrebbe evocativo d’arcani misteri e conoscenze sepolte: «Lo sceglierò per me, e voi abbiate il resto» conclude il Mago, infilandosi al dito il piccolo anello d’oro.
E un bambino di dodici anni solleva speranzoso gli occhi verso il Master, che – gongolando – annuncia che l’anello è stregato, non può essere tolto se non da un grande arcimago e ha l’unico, terribile effetto di sottrarre ben dieci punti alla caratteristica di Intelligenza di chi lo porta. Il bambino smette di sorridere, corruga le sopracciglia e abbassa il capo pensieroso.
Il Mago Senza Nome si volge verso gli altri avventurieri e, con una voce cavernosa, proclama il proprio eroismo: «Amici, ringraziatemi: ho scelto di portare io il fardello di quest’anello maledetto che, fosse capitato ad uno qualunque di voi, v’avrebbe ucciso. Solo questo ora vi chiedo: accompagnatemi a trovare Par-Salian, l’Arcimago della Gilda – ché egli solo può aiutarmi».
Ed è l’inizio di un nuovo viaggio, nuovi incontri e nuovi pomeriggi vuoti d’agosto, passati a vivere una storia bella quanto quella che, la sera, si legge prima di andare letto: bella forse di più, perché fatta da noi, raccontata gli uni agli altri come un racconto attorno al fuoco, dove non ci sono narratori e ascoltatori ma tutti che, in parti uguali, partecipano a creare qualcosa di grande, insieme.
Gary Gygax si è spento il 4 marzo del 2008. Ed è a lui che dobbiamo tutto questo. Grazie.

Andrea Morstabilini